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Londra: fermata per l'inferno
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Londra: fermata per l'inferno
E-book388 pagine5 ore

Londra: fermata per l'inferno

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Info su questo ebook

Hatton Cross è la terzultima fermata della Piccadilly Line, dove una gelida notte del gennaio 1990 si verificò un tragico evento.

Gennaio 2010. Vent'anni dopo, Stefano Valente e Marco Tucci sono a Londra in viaggio di piacere e proprio a Hatton Cross incontrano Anja, una dolce e misteriosa ragazza dagli occhi di ghiaccio.

Tornato a Roma, Stefano viene a sapere che due ragazze con cui ha avuto una fugace relazione sono state ritrovate morte. Su entrambi i luoghi del decesso c’è una misteriosa scritta: "Evol".

Intanto, il ragazzo è tormentato da incubi la cui protagonista è sempre Anja. Decide così di tornare a Londra per rintracciare l’enigmatica ragazza. Scoprirà che Anja, dietro i suoi occhi gelidi, nasconde un passato oscuro, costellato di delitti e impregnato di sangue…

LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2021
ISBN9788869347191
Londra: fermata per l'inferno
Autore

Mike J. Pilla

Mike J. Pilla è nato a Napoli nel dicembre 1982. Giornalista e conduttore radio/televisivo, appassionato di lettura e scrittura, dirige il giornale online Montaguto.com, che sin dall'inizio ha destato grande interesse da parte della comunità montagutese all’estero, diventando in poco tempo un vero e proprio riferimento per gli italo-americani, il primo social network "glocal". L’amore e la dedizione verso gli italiani all’estero gli permette di ricevere nel 2017, proprio grazie al progetto Montaguto.com, un prestigioso riconoscimento a New York. Qui, insieme al collega e amico Luigi Liberti, decide di creare Patrimonio Italiano Tv, la webtv degli italiani all’estero, di cui è direttore responsabile. Con questo network inizia a viaggiare tantissimo tra Europa e America, dove entra in contatto con tantissime meravigliose realtà molto eterogenee tra loro, tenute insieme da quel collante fantastico che è l’italianità. Patrimonio Italiano Tv gli vale la prestigiosa “Citation” da parte del Presidente del Borough di Brooklyn, Eric Adams, ancora una volta a New York. Il suo romanzo thriller Goodbye Irpinia, dedicato a tutti gli emigrati italiani che soffrono lontani dalla propria terra, è il primo paper-novel al mondo. Il suo sito è: www.michelepilla.it

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    Anteprima del libro

    Londra - Mike J. Pilla

    Mike J. Pilla

    Londra: fermata per l’inferno

    Paper Novel

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, luglio 2021

    e-Isbn 9788869347191

    Progetto grafico e disegno di copertina:

    Riccardo Brozzolo

    Myke J. Pilla

    Mike J. Pilla è nato a Napoli, cresciuto tra Ponticelli e Montaguto (in Irpinia) e vive a Roma con la moglie Nadia. Giornalista, scrittore, viaggia(u)tore e conduttore radiotelevisivo, è addetto stampa della UILPA e dirige Patrimonio Italiano Tv, la tv degli italiani all’estero. Questo progetto gli ha fatto guadagnare la prestigiosa Citation del Borough di Brooklyn, a New York. Con Patrimonio Italiano Tv ha viaggiato e viaggia in lungo e in largo per il mondo (escludendo ovviamente il nefasto 2020), raccontando la vita dei tanti italiani lontani.

    Nel 2019 ha pubblicato con Bibliotheka Goodbye Irpinia, primo Paper novel al mondo, romanzo thriller internazionale ambientato tra Montaguto, New York e Toronto. Il libro è stato presentato in Italia, Stati Uniti e Canada, e le presentazioni americane sono state riprese dall’agenzia Europa Newswire, con sede all’Onu. Il sito del romanzo è www.goodbyeirpinia.it.

    Dedica alla scrittura almeno tre ore al giorno, soprattutto di sera: ama l’odore della carta e il suono della stilografica che accarezza il foglio.

    Londra: fermata per l’inferno è il suo secondo romanzo, nato dopo un meraviglioso viaggio in Inghilterra.

    Il suo sito ufficiale è www.michelepilla.it

    Un terrificante viaggio nella periferia di Londra.

    Un incontro inquietante nella metropolitana.

    Una stazione che nasconde un terribile segreto

    Prologo

    Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si ritrova tra le mani un biglietto di sola andata per l’inferno. Il mio me lo regalò, con tanto di vidimazione, l’amico Roberto Larini: la destinazione ufficiale del viaggio era Londra.

    Mind the gap, la voce registrata della metropolitana della capitale inglese, rimbalza ancora oggi tra le pareti della mia mente. Ci siete mai stati? Se sì, sapete di cosa parlo. Londra è una città stupenda e molto suggestiva e Mind the gap è uno degli annunci più famosi del mondo, che dal 1969 invita i passeggeri della metropolitana a prestare attenzione allo spazio tra il treno e la piattaforma. Significa attenti al vuoto, ma anche attenti a dove mettete i piedi.

    Avrei dovuto dare ascolto anch’io a quel dannato avviso e prestare molta attenzione a dove mettevo i piedi quando mi recai per la prima volta in Inghilterra. Qualche giorno fa ho speso diciotto sterline per acquistare una tazza nera sulla cui superficie è impresso questo avviso all’interno di un cerchio rosso tagliato in orizzontale da una riga blu. Non sono il tipo che sperpera tanti soldi per qualcosa del genere, che neanche vale diciotto sterline, ma sentivo il bisogno di tenere qualcosa di tangibile che mi aiutasse a ricordare tutta questa faccenda. Questa tazza nera con la scritta Mind the gap mi aiuterà a non dimenticare.

    L’8 gennaio 2010, esattamente un mese fa, io e il mio amico Marco Tucci volammo in Gran Bretagna per la prima volta nella nostra vita, per assistere al concerto dei Dogsitter, il gruppo punk del nostro amico Roberto Larini, uno dei più virtuosi batteristi che io conosca.

    Mi chiamo Stefano Valente, ho ventotto anni e faccio il giornalista a Roma. Sono originario di Montaguto, un paesino irpino di circa 400 abitanti, e questo è il mio primo libro, che ho deciso di scrivere dopo aver messo nero su bianco una serie interminabile di appunti e consultato decine e decine di articoli. Lavoro in una radio romana ed era da tempo che progettavo di scrivere un romanzo. Questa esperienza mi ha fatto capire due cose fondamentali: non sto scrivendo per soldi e non sto scrivendo per il piacere personale di farlo. Sto scrivendo perché ho rischiato seriamente di finire ammazzato a Londra, e adesso sento forte il bisogno di raccontare quello che abbiamo vissuto laggiù. Sto scrivendo perché mi serve qualcosa che allontani gli incubi che tormentano le mie notti da un mese a questa parte.

    Questa macabra storia ebbe inizio l’8 gennaio 1990 a Londra, vent’anni fa. Più precisamente, questa storia ebbe inizio a Hatton Cross, un’anonima e semi-sconosciuta stazione sulla linea blu della metro di Londra, la Piccadilly Line, a due fermate dall’aeroporto internazionale di Heathrow. Rappresenta soltanto uno dei quasi 400 pallini che compongono le fermate sulla mappa della Tube. Non credo che qualcuno di voi ci sia mai stato, a Hatton: non fosse altro che per l’aeroporto di Heathrow, probabilmente nessun turista passerebbe da quelle parti.

    Ebbene, l’8 gennaio 1990 Hatton Cross, anonimo pallino delle 400 stazioni della metro di Londra, si trasformò in un macabro teatro di sangue da cui scaturì una terrificante spirale di violenza che ha causato fino a oggi oltre trenta vittime. E se sono qui a raccontarlo è solo per una fortunata serie di coincidenze.

    Sono tornato a Londra tre volte da gennaio a oggi, compresa questa: mi trovo nella camera di un anonimo alberghetto nel sobborgo di Feltham, in zona sei. Qui la città è avara di turisti e priva di interesse. L’unico punto di riferimento è appunto l’aeroporto di Heathrow. Anche oggi, dalla finestra che affaccia su Hounslow Road, il cielo è grigio e pesante ma per fortuna non piove. È raro, da queste parti. Sulla moquette grigio topo della stanza giacciono pagine strappate da vecchi giornali. Le lancette dell’orologio appeso alla parete vanno avanti con cinica indifferenza. Sulla scrivania dove sono seduto c’è soltanto una foto, ingiallita dalla polvere e consumata dal tempo. Impressa sulla carta lucida c’è il volto di una dolce ragazza, Anja, che ha sconvolto la mia vita.

    Una foto e il suo nome, ecco tutto quello che mi resta di lei, creatura timida e macabra, candida e perversa, allo stesso tempo fiore e spina.

    Anja. Un sospiro, uno sbuffo di vento gelido in una serata umida e senza stelle, un addio mormorato appena, in lontananza, indolore e massacrante. Anja. Un nome che perseguita le mie notti da più di un mese a questa parte, insieme agli incubi, e mi rimbomba nella testa con un’eco sinistra. Una storia che nasconde altre storie, incastonate l’una nell’altra come una matrioska dal ghigno satanico.

    Questa storia ebbe inizio l’8 gennaio 1990 ed è andata avanti per vent’anni, fino all’8 gennaio 2010, quando io e Marco Tucci portammo per la prima volta le nostre chiappe in Inghilterra in una serata fredda, umida e piovosa.

    Giungemmo alla stazione di Hatton Cross con il ghiaccio che ostruiva i marciapiedi del piazzale e una donna dall’aspetto mascolino che versava il sale per evitare che i pochissimi passanti ancora in giro scivolassero.

    «Mi chiamo Anja», ci disse con voce timida la ragazza, che incontrammo nell’atrio della stazione. Quando pronunciò il suo nome, gli occhi grigio-azzurri ebbero un lieve guizzo e sulle guance spruzzate di lentiggini le si disegnarono deliziose fossette.

    Hatton Cross, 8 gennaio 2010: fu lì e allora che conoscemmo Anja. E quando la incontrammo, nel freddo umido di Londra, non sapevamo niente né di lei né del terribile segreto che custodiva dietro i suoi timidi e gelidi occhi grigio-azzurri.

    Onda Cafè

    Onda Cafè, via Tiburtina, Roma

    Pochi giorni prima della partenza

    Io e Marco Tucci non eravamo mai stati a Londra. A dire il vero non avevamo mai fatto un viaggio all’estero insieme, nonostante ci conoscessimo fin da bambini. Siamo cresciuti nello stesso territorio, abbiamo condiviso le scuole fino alle superiori e poi, a diciott’anni, siamo saliti a Roma per l’università: io da Montaguto, paesino in Campania, e lui da Orsara, in Puglia. Due paesi divisi da un confine regionale ma separati da soli cinque chilometri di distanza.

    Nella Capitale abbiamo stretto amicizia con Roberto Larini, una delle persone più fuse che abbia mai conosciuto in vita mia, e quando dico fuso intendo letteralmente fuori di testa, completamente andato, con gli inquilini del piano di sopra partiti per un viaggio senza ritorno. Non so dire se la droga gli abbia mandato in tilt i neuroni o gli abbia accelerato le sinapsi: quel figlio di puttana ha provato così tante sostanze che è probabile che qualcuna gli abbia permesso di oltrepassare la leggendaria soglia del 10% delle potenzialità del cervello umano. Lo chiamavamo il drogherellone.

    Con lui abbiamo condiviso per tre anni una casa e una serie innumerevole di festini alcolici spesso ai limiti della legalità e sicuramente del buon gusto. Vantaggi (o svantaggi) della vita da studenti fuorisede. E finché sei studente – e mamma e papà mettono mano alla tasca – puoi permetterti anche una vita sregolata. Se poi riesci a trovare pure qualche lavoretto, si passa a un livello superiore, o inferiore, a seconda delle prospettive.

    Vivere con Roberto Larini per noi significò un radicale cambiamento di abitudini: ai tempi del fortino – come aveva deciso di battezzare il nostro appartamento – Roberto portò nelle nostre vite lo scompiglio più totale, sotto forma di droghe, ragazze e appunto festini. Prima di trasferirmi a Roma non ero quasi mai uscito in quel modo dagli schemi e forse non avevo neanche mai davvero assaggiato la vita.

    «Tu non hai ancora espresso fino in fondo il tuo potenziale», mi disse una sera Roberto a tavola, in una delle rare volte che riuscimmo a cenare io, lui e Marco a casa in tranquillità. «E tu ne hai, Ste. Ma devi lasciarti andare, devi aggrapparti a un maestro. E quel maestro, si dà il caso, sono io!»

    Era strano forte, Roberto, e viverci insieme ce ne diede la dimostrazione, ma sapeva divertirsi e farci divertire.

    Grazie a lui scoprii il concetto di sbronza mista, testai il mio livello di ubriacatura, arrivando a undici cocktail prima di rilasciare anche le budella sul pavimento di non ricordo quale locale, provai il sesso con due donne contemporaneamente e assaggiai finanche la cocaina ma i battiti troppo accelerati del mio cuore mi hanno fatto smettere prima ancora di cominciare. Sono sempre stato troppo ipocondriaco per certe cose.

    Con Roberto era un tiro alla fune continuo e, nel momento in cui da studenti fuorisede siamo diventati lavoratori – cosa che toccò prima a me e poi a Marco – quella vita si è fatta troppo complicata da portare avanti. Fu per questo che decidemmo di mollare il fortino. Dunque, da un paio d’anni non vivevamo più insieme: Roberto era rimasto nella stessa casa, io e Marco avevamo traslocato in due appartamenti diversi pur restando comunque sulla Tiburtina.

    Roberto suonava la batteria probabilmente da quando portava ancora il ciuccio e a Termoli, la sua città, era considerato tra i primi dieci musicisti. Dal suo arrivo a Roma aveva avuto più o meno un centinaio di gruppi che spaziavano dal punk al rock melodico al metal e aveva all’attivo quattro dischi in studio e non so quante serate live. Sulla Tiburtina era diventato il numero uno e aveva iniziato a farsi un discreto gruzzolo facendo lezione a ragazzi più piccoli e coetanei.

    Vi dico queste cose perché se io e Marco prenotammo il nostro primo volo per Londra, lo dovevamo a lui e al suo attuale gruppo, i Dogsitter. Sabato 9 gennaio era in programma un mega concerto al Jerry bar, uno dei locali più fighi di Londra, situato a Soho, uno dei quartieri più fighi della town.

    Da quello che ci aveva anticipato il nostro comune amico, sarebbe stata un’esperienza in perfetto stile Roberto Larini, con la giusta dose di follia, euforia e promiscuità.

    «Sarà un weekend da paura», pronosticò Roberto la sera in cui ci fece la proposta.

    Non si rendeva neanche conto di quanto dannatamente avesse ragione.

    Ricordo a tratti la sera in cui Roberto Larini ci fece la proposta. So per certo che ci trovavamo tutti e tre al nostro quartier generale, l’Onda Cafè, un piccolo bar gestito da un tizio egiziano che ne è il proprietario. Si fa chiamare Angelo ma in realtà ha un nome egiziano che difficilmente riuscirei a pronunciare da sobrio, figuriamoci da ubriaco: Abdul-jabaar Mazhar Sadan. Vive a Roma da più della metà della sua vita, parla romano, ha la pelle caffellatte e un fisico robusto nonostante non sia altissimo, con lineamenti gentili su un volto sempre sorridente. È il classico tizio che, quando te lo ritrovi davanti, ti viene da considerarlo un amicone.

    Il bar si trovava sulla via Tiburtina, molto vicino alla stazione che in quel periodo era in fase di restauro e che di lì a un paio d’anni sarebbe stata inaugurata in pompa magna. Non è nostro, non l’abbiamo acquistato noi, ma se un giorno Angelo decidesse di stilare un elenco di finanziatori probabilmente saremmo tra i primi dieci. Coi soldi che abbiamo speso in birra e superalcolici avremmo potuto permetterci un attico in Piazza del Popolo.

    La sera in cui Roberto Larini ci fece la proposta avremmo potuto porre le basi per l’arredamento del soggiorno del nostro ideale attico: spendemmo tanti di quei soldi in tequila che se avessi fatto domanda per la cittadinanza messicana probabilmente l’avrei ottenuta all’istante, con tanto di cambiamento di nominativo sul documento, da Stefano a Esteban.

    Tra le cose che ricordo di quella sera di metà novembre c’è il momento scommessa. Ogni tanto Roberto proponeva particolari sfide a base alcolica, scommesse che non avevano un vero e proprio senso logico né tantomeno premi in denaro: in palio c’erano l’onore e l’alcol, cose che per noi all’Onda avevano un valore inestimabile. E Angelo assecondava ogni nostra follia. Quella sera fu la volta del Tequila piedi e limone: salii sul bancone e invitai chiunque tra i clienti avesse il coraggio di versarmi la tequila su un piede, spargermi del sale sull’altro, leccare entrambi e mangiare lo spicchio di limone. Chi avesse accettato la sfida avrebbe bevuto gratis tutta la sera.

    La sfida fu un successone: la ragazza che si aggiudicò la scommessa si chiamava Anna: al termine della serata me la ritrovai a casa a smaltire la sbronza.

    Prima di lasciare l’Onda Cafè, Roberto chiamò me e Marco al bancone e ordinò ad Angelo una bottiglia di prosecco. «Questa è per un’occasione speciale», disse con tono solenne, mostrandoci un foglio sgualcito che alzò davanti a noi come un trofeo. L’alcol, l’euforia della serata e un potente mal di testa non mi consentivano di leggerne il contenuto.

    «E questo che sarebbe?», domandai.

    «Questo è il vostro biglietto per l’inferno», rispose Roberto.

    Sul foglio, due donne in bikini erano sdraiate l’una sull’altra su un termometro che segnava i 50°. A caratteri cubitali, in alto, c’era scritto: Rendez Vous Music presents Jingle bells ROCK!!!

    «Segnate la data in rosso sul calendario: sabato 9 gennaio, Jerry bar!», esclamò. «Signore e signori, ladies and gentleman, squillino le trombe, trombino le squillo… I Dogsitter suoneranno sul prestigiosissimo palco di uno dei locali più spettacolari di… Londra!»

    Si produsse in un inchino e poi balzò in piedi sul bancone, quasi strappando la bottiglia di prosecco dalle mani di Angelo;stappandola in un tripudio generale disse: «E voi due, brutti stronzi che non siete altro, vivi o morti verrete con me!»

    «Ci puoi scommettere tutta la droga che hai in corpo!», urlò Marco.

    Roberto versò il prosecco nei nostri bicchieri e in quelli di tutti coloro che si avvicinavano per elemosinare alcol. Quasi metà del contenuto della bottiglia finì sul pavimento.

    «Ai Dogsitter!», urlò qualcuno nel locale.

    «A quei minchioni dei Dogsitter!», corressi alzando il bicchiere.

    Angelo stappò altre quattro bottiglie di prosecco nel giro di mezz’ora, che si aggiunsero al resto dell’alcol che avevamo già ingurgitato.

    Roberto scese dal bancone e condusse me e Marco fuori dal locale. Era su di giri e tutto sommato più lucido di noi due messi insieme. «Adesso statemi bene a sentire, cazzoni. Se mi fate lo scherzo di non venire, quando torno in Italia vi uccido entrambi e getto i vostri miserabili resti alle pantegane nel Tevere!»

    Ci scoccò uno sguardo truce, poi scoppiammo a ridere tutti e tre come degli imbecilli.

    «Stai scherzando?», chiesi. «E quando ci ricapita di fare un viaggio del genere tutti insieme?»

    «Ma vi rendete conto? Suonerò al Jerry bar! Perché voi sapete cos’è il Jerry, giusto? Lo sapete? Dai, ditemi che lo sapete, vi prego.»

    Nessuno dei due rispose e Roberto scosse la testa. «Me l’aspettavo, è colpa mia.» Si guardò intorno. «Non dovevo diventare amico di due ignoranti musicali come voi! Cazzo, il Jerry bar

    «Il Jerry bar!», replicò Marco.

    Roberto sospirò. «Un giorno mi deciderò a curare la vostra ignoranza. Il Jerry bar, a Soho, è il locale dove hanno suonato artisti del calibro dei Ramones, cazzo! I Ramones! E i NOFX! E i Buzzcocks! Ma vi rendete conto? Suonerò sullo stesso fottutissimo palco!»

    Lo abbracciai. Senza dire nulla, senza preavviso. Semplicemente, mi avvicinai a lui e lo abbracciai. Roberto Larini ogni tanto meritava un abbraccio. È una delle persone migliori che abbia mai conosciuto in vita mia e tra i pochissimi che alla parola amicizia riesce a dare il peso che merita.

    Lui mi guardò stranito. «Ehi ehi ehi… che cazzo fai?»

    «Ti abbraccio, Rob. Guardami, guardami negli occhi. Ti voglio bene, amico.»

    Lo liberai dal mio abbraccio e lui mi guardò negli occhi. «Non ti azzardare a baciarmi che ti faccio saltare i denti.»

    Restammo zitti per alcuni secondi e poi scoppiammo nuovamente a ridere tutti e tre.

    «Siamo dei cazzoni!», strillò Marco, catturando l’attenzione degli altri ragazzi sul marciapiede della Tiburtina. Ora ci guardavano tutti.

    «Dei cazzoni megalitici!», fece eco Roberto.

    «E ce ne andiamo tutti a Londra!», esclamai alzando i pugni al cielo. «Al Jerry bar! E vaffanculo a tutti voi che resterete a Roma!»

    Il giorno dopo

    Qualcuno suonò insistentemente al campanello della porta di casa e qualcun altro mugolò alla mia destra. Avevo la vista appannata e un saporaccio in bocca, con lo stomaco che brontolava e la testa che girava. La sbronza della sera prima era ancora con me, e non solo lei. Nel mio letto c’era una ragazza nuda che mi dava le spalle. Le passai una mano sul culo e lei mugolò per la seconda volta, senza voltarsi.

    «Questo viso non mi è nuovo», commentai e lei si produsse in una debole risata.

    Chiunque fosse al campanello, continuò a suonare.

    «Cazzo, ma che ore sono?», feci io.

    «Le nove. Perché non vai ad aprire?», biascicò lei.

    «Ci penseranno Giacomo o Emidio.»

    «Ma forse non sono in casa! Per favore, o lo mandi a fare in culo tu o ci penso io!»

    Mi alzai, indossai i boxer, un pantaloncino e una maglietta e andai alla porta.

    «Ancora che dormi?», chiese Marco Tucci sulla soglia. Sul suo volto equino, allungato e con un naso pronunciato, si allargò un’espressione divertita: i denti bianchissimi contrastavano con la sua pelle abbronzata nonostante fossimo a gennaio. Amava le lampade. Mi guardò con quei suoi occhi piccoli e furbi, poi annusò l’aria. «Mmm… sento odore di femmina.»

    «Bravo, Sherlock!» Indicai con un cenno della testa la mia stanza. «Anna.»

    «Ah! Anna. Le scommesse di Roberto funzionano.»

    «Il piedi e limone più arrapante del mondo. Stanotte ha voluto rifarlo, e non sui piedi…»

    Marco rise. «Tequila pisello e limone!»

    «Tua sorella! A proposito, come sta?»

    Mi mostrò il dito medio. «Mi fai un caffè?»

    Entrò in casa e andammo in cucina. Giacomo ed Emidio, i miei coinquilini, non c’erano. Avevano lasciato tutto in ordine, come sempre. «Perché sei qui?», chiesi preparando la moka mentre lui si sedeva al tavolo.

    Pescò due fogli dal giubbotto. «Eccoli.»

    Mi voltai verso di lui. «Cosa?»

    «I nostri biglietti per l’inferno.»

    Aggrottai le sopracciglia. Non capii. «Cioè?»

    «Quanto eri ubriaco ieri?»

    «Assai.»

    «E quanto ti ricordi? Di quello che ci siamo detti, intendo.»

    «Assai poco.»

    «Se ti dico Jerry bar

    Poggiai la macchinetta sul fornello e mi sedetti a mia volta. Guardai i fogli. Due biglietti per Londra.

    «Il Jerry bar! Cazzo, il concertone dei Dog

    Marco allungò una mano e io gli tirai un sonoro cinque. «Daje!», esclamò.

    «Si parte!», esultai alzando le braccia al cielo.

    «Partiamo giovedì 7 gennaio e torniamo domenica 10.» Marco pescò altri due fogli dal giubbotto. «E ho preso anche l’albergo!»

    «Quanto hai speso?», chiesi prima ancora di guardare le prenotazioni.

    «Poco, taccagno! Ottanta euro a testa per tre notti.»

    «Molto bene! E in che zona siamo?»

    Marco scrollò le spalle. «Eh, questo forse è un attimo da capire.»

    «Cioè?»

    «La zona si chiama Feltham. Soltanto dopo aver pagato l’albergo mi sono reso conto che è in… zona sei.»

    «Zona sei?»

    Mi mostrò la cartina di Londra, indicandomi con un dito il punto esatto.

    «Qui c’è l’aeroporto di Heathrow. Ma noi atterriamo a Stansted.»

    «Ottimo. Siamo in Culonia! E perché hai preso l’albergo quaggiù?»

    «Piccolo errore di valutazione. E poi il prezzo era buono e c’è anche il bagno in camera. Ci tengo alla mia privacy.»

    Risi. Il caffè stava uscendo.

    «Cos’è, non riesci a farla se non sei a casa?»

    «Lo sai che sono timido.»

    Versai il caffè nelle due tazze e in quel momento apparve Anna sulla porta. Si era rivestita e messa in ordine, coi capelli biondo cenere tenuti su con una matita, il viso completamente struccato e chiaro che le metteva in risalto gli occhi verdi e le labbra carnose. Era più bassa di me di una ventina di centimetri – sono alto un metro e ottantacinque e poche volte mi è capitato di passare la notte con ragazze alte quanto me, ma tanto, come dice Roberto: «Orizzontali siamo uguali.» Lui però è poco più basso di Anna, e spesso gli è capitato di passare la notte con ragazze alte quanto e più di lui.

    «Ciao», salutò lei.

    «Ciao», rispose Marco. «Notte brava?»

    La parola bon ton non fa parte del suo dizionario.

    «Cattiva, direi», rispose lei e mi lanciò uno sguardo provocatorio.

    Sorrisi e mi eccitai. «Entra e siediti. E non rispondere a questo buzzurro. Ti va una tazza di caffè?», le chiesi.

    «Solo se non vi disturbo. E comunque non c’è niente di male a dire che abbiamo passato una meravigliosa notte di sesso selvaggio.»

    Risi e mi rivolsi a Marco: «Bum! In saccoccia! Prendi, arrotola e porta a casa!»

    Lui alzò le mani e la guardò. «Hai vinto la battaglia ma non la guerra. Ricorda: sarai sempre seconda a me!»

    Lei rise e si sedette.

    «Stavamo preparando l’itinerario per il nostro viaggio a Londra», la informai mostrandole la cartina.

    «Londra, che città meravigliosa! Ci abita una mia cugina», disse lei.

    «Tu ci sei stata?»

    «Due volte. Dove andrete?»

    Io scrollai le spalle e lasciai l’incombenza della risposta a Marco. Lui raccontò di Feltham e Stansted e lei annuì. «Però! Una bella passeggiata!»

    «Albergo economico, bagno in camera e scarsa conoscenza della città», si giustificò lui.

    Io, Roberto e Marco ci incontrammo da uno dei tanti kebabbari della Tiburtina e prendemmo uno schifosissimo kebab che mangiammo per strada. Per la cronaca, lo presi con cipolle, insalata e salsa yogurt (non si chiama realmente così ma ha un nome troppo strano perché possa ricordarmelo). Lo prendo sempre con cipolle, insalata e salsa yogurt. Sono un tipo abbastanza abitudinario.

    «Puah!», esclamò Marco al primo morso. «Ma perché mi faccio sempre convincere da voi stronzi a mangiare questo ammasso di chissà quali animali morti? Ora ci vuole una birra da Angelo per buttarlo giù.»

    «Altro che birra, qua serve proprio l’acido desossiribonucleico», sbottò Roberto e io risi, risi sguaiatamente e Marco mi seguì a ruota.

    «Rob, vedi che l’acido desossiribonucleico è il DNA!»

    «Esatto! DNA! Dinamite Nell’Ano!»

    Scoppiammo a ridere piegandoci letteralmente in due e per poco il kebab non mi scappò dalle mani, il che forse sarebbe stato meglio considerato il mal di pancia che mi provocò costringendomi sulla tazza ben tre volte quella notte. Per fortuna Anna quella sera non si presentò all’Onda (aveva lezione all’università, mi disse che studiava veterinaria ed era una delle poche informazioni che mi aveva fornito tra una scopata e l’altra). Se fosse venuta a casa non avremmo passato una serata piacevole come la precedente.

    La birra da Angelo diventò due birre da Angelo e due birre diventarono tre e poi quattro.

    Roberto non sapeva ancora niente dell’ufficialità della nostra partenza per Londra e decidemmo di dirglielo al bar: magari ci scappava qualche altro prosecco.

    Marco tirò fuori i biglietti mentre eravamo alla seconda birra.

    «Ma allora siete dei veri bastardi!», urlò. Ci scambiammo dei vigorosi cinque.

    «Ci avevi praticamente messo con le spalle al muro!», esclamò Marco.

    Angelo tirò fuori una bottiglia di prosecco. «Qui mi sa che ci tocca festeggiare!», disse nel suo buffo accento. Quando pronunciava C e G aveva l’abitudine di strusciarle, per cui la frase suonò alle nostre orecchie un po’ come sci tocca festesgiare.

    «Rob, ma tu quando parti? E dove te ne stai?», gli chiesi mentre Angelo versava prosecco in quattro flûte.

    «Parto a inizio gennaio e staremo da alcuni amici di Valerio, il nostro cantante, a Islington. Sta a Nord. Vale ha vissuto alcuni mesi a Londra, è merito di quel simpatico grizzly se abbiamo avuto la serata al Jerry

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