Franco Califano: Non escludo il ritorno
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Anteprima del libro
Franco Califano - Salvatore Coccoluto
Salvatore Coccoluto
FRANCO CALIFANO
Non escludo il ritorno
Introduzione
Libertà e solitudine sono una cosa sola. Ho fatto questa scelta per vivere al massimo. Senza rete. Solo se macini mille esperienze come un treno riesci a conoscere la vita. Molto probabilmente, se non avessi avuto la musica, sarei partito per chissà quali avventure. Alla ricerca di me stesso.
Parola di Franco Califano. Artista inquieto, generoso, maledetto. Conobbi per la prima volta le canzoni del Califfo negli anni Ottanta. In casa avevo il vinile di Tutto il resto è noia. In copertina c’era il Maestro che teneva in braccio un bambino. Avrò avuto l’età di quel ragazzino quando lo misi sul giradischi. Rimasi affascinato da quella voce rarissima e dalla tenerezza delle parole che uscivano da quel canto caldo e inconfondibile. Quei versi trasudavano verità, una vita vissuta senza ipocrisie. Mi accorsi di ascoltare un uomo che consumava la sua esistenza, la beveva a garganella, tutta d’un fiato. Non era certo un artista che viveva in una campana di vetro. Anzi, già batteva come un segugio le sue strade di quartiere
. Conosceva l’animo umano e lo cantava. Sperimentava le frustrazioni dell’uomo e le raccontava. Amava le donne, l’amore e la solitudine.
Con l’arrivo degli anni Novanta abbandonai la musica del Califfo per il rock. Poi, con il nuovo secolo, cominciai di nuovo ad ascoltare le sue canzoni e i suoi monologhi. Approfondii la sua storia e iniziai a seguirlo spesso dal vivo. Ricordo un concerto in piazza a Pomezia, il 31 maggio 2003. Arrivò sul palco claudicante, reduce da una caduta. Con la sua solita sincerità disse qualcosa tipo: «C’ho in ballo ’na cosa grossa, il prossimo anno qua nun me vedete più». E nell’estate del 2004 lo ritrovai all’Ippodromo di Capannelle (a suo tempo la manifestazione estiva si chiamava Fiesta) per un’esibizione straordinaria in cui fece sfoggio ancora una volta della sua intramontabile ironia. In quell’occasione mi colpì un episodio: dopo il concerto si presentò con i suoi collaboratori nello spazio dell’evento. C’era tantissima gente che si muoveva tra ristoranti e piste da ballo. Le persone lo fermavano, lo abbracciavano, gli chiedevano autografi e foto, e lui non si risparmiava, non si tirava indietro. L’ho seguito per qualche minuto con gli occhi, ho osservato i suoi movimenti. Mai un gesto di noia o di fastidio. Mai un attimo di finzione e divismo. Sempre cortese e schietto con tutti. Uno del popolo. In quel momento capii che Califano era già leggenda.
L’infanzia e l’adolescenza
Chi sei? Chi so’. Nato a Tripoli. Romano d’adozione, per libera scelta. Da genitori napoletani. Quattro anni di collegi. Un padre morto a diciotto anni, quando io ne avevo diciotto, naturalmente, e lui trentotto. Mi ritengo un bastardo venuto dal Sud, come dico appunto in un mio vecchio long playing. Cliniche. Collegi. Carceri. Abbastanza fame.
Così si raccontava Franco Califano in un servizio trasmesso dal TG2 nel 1981: nudo a mezzo busto davanti allo specchio del bagno, dopo essersi lavato e asciugato il viso. Ma partiamo da quel 14 settembre 1938. Quando Jolanda decise di tornare in Italia per far nascere il suo secondogenito nel proprio Paese. Si era trasferita con il marito Salvatore a Johannesburg, in Sud Africa, per motivi di lavoro. Dopo nove mesi di gravidanza, ormai vicina al gran momento, prese il volo per raggiungere Roma. Mentre l’aereo sorvolava la Libia accadde un imprevisto: le si ruppero le acque. Il capitano fu costretto a effettuare un atterraggio di emergenza a Tripoli. Così Franco nacque in Libia. «La mia famiglia era molto povera, direi disastrata: mia madre era una brava donna, avevo un padre eccezionale ma morì quando ero diciannovenne, episodio che mi distrusse la vita» raccontava Califano.
Aveva un fratello e una sorella: Liliana era la maggiore, di un anno più grande, mentre Guido nacque cinque anni dopo di lui. Sicuramente Franco era il più vivace dei tre. Per questo, a otto anni, i genitori decisero di mandarlo in collegio ad Amalfi. Un inferno che lo segnò per tutta la vita. «Sono stato un anno e poi sono scappato e ho fatto Amalfi-Pagani a piedi per raggiungere mio nonno che stava lì, in campagna, […] e non sono stato rimproverato». Percorse 25 chilometri, senza scarpe né calzini, per raggiungere quella libertà che poi decise di cantare e di far diventare baluardo della sua esistenza. Ma che spesso gli ha creato anche qualche grattacapo. La vita fatta di regole e disciplina del collegio non faceva per lui:
[…] Subivo maltrattamenti troppo duri per un bambino e covavo una pericolosa ferocia, come fanno le bestie ferite. Fu allora che cominciò a crescere dentro di me quell’esigenza di libertà […] che avrebbe caratterizzato tutta la mia vita, infondendomi un senso di autonomia che mi ha fatto rimanere sempre solo.
Arrivato dai nonni venne rispedito subito in collegio. Questa volta a Roma, al Bambin Gesù. Lì trovò un po’ più di umanità, ma nel giro di poco tempo divenne nuovamente irascibile e nervoso. Così venne espulso. In quei giorni il suo spirito ribelle cresceva di pari passo con un’inquietudine profonda.
Ad appena dieci anni ebbe il suo primo incontro con il sesso. Fu la voluttuosa mamma di un suo compagno di classe a iniziarlo. Una donna di trentadue anni, «bella, carnosa, sensuale». Grazie a lei, a dodici anni Franco già sapeva tantissimo delle donne e del loro piacere. «La mia bellissima signora mi prese con sé da bambino e mi restituì al mondo da adulto». Ovviamente già ai tempi non conosceva limite. Amava stuzzicare anche le sue coetanee, mettendogli le mani sotto la gonna e improvvisando giochi erotici tra i più fantasiosi. Gli incontri con la sua nave scuola
avvennero quando la famiglia di Califano si trasferì a Roma, nel quartiere Trionfale. Ai tempi era uno dei posti difficili della Capitale, in cui era dura maturare senza diventare un discolo.
Cominciai a vivere la mia vita da bambino libero al quartiere Trionfale di Roma. Negli anni Cinquanta era una zona popolare, quando Monte Mario non aveva ancora ricevuto quelle pennellate di lusso piccolo-borghese che oggi lo rendono più che frequentabile. […] I miei vicini erano contrabbandieri, disoccupati, mezzi delinquenti o delinquenti totali, parassiti, gente che aveva fame. Il bar Giava divenne la mia seconda casa. Tra risse e bische […], con le mie tante cicatrici invisibili e una Camel accesa tra le labbra sembravo proprio un disperato come loro.
Molti amici presero brutte strade. Alcuni finirono in galera, altri morirono. A salvare Franco, invece, fu la sua voglia di conoscere la vita, il mondo, le persone. Così si iscrisse alle scuole serali, perché di svegliarsi presto al mattino non era proprio il caso. Si trattava dell’istituto Ludovico Ariosto per ragionieri. Un modo per tenersi lontano dalle cattive compagnie. La sua passione per la scrittura e la poesia furono determinanti a salvarlo da un destino di povertà e disagio. Già da ragazzino, infatti, capiva che le parole scagliate su di un foglio di carta potevano aiutarlo a comprendere e a raccontare le proprie emozioni. In quei giorni, infatti, gettò le inconsapevoli basi per diventare il Pasolini della canzone, accostamento che gli piacque molto, il Brel romanesco, il Prévert di Trastevere, come lo definirono negli anni i critici. La scrittura lo salverà anche tempo dopo, quando finirà nelle celle del Regina Coeli.
Dalla borgata ai fotoromanzi
Da adolescente la borgata fu il suo mondo. Un posto nel quale guadagnarsi da vivere svolgendo mille attività e talvolta ricorrendo a qualche espediente. Antonello Mazzeo è stato uno dei più grandi amici di Franco Califano, la persona che vide cadere insieme a lui i fiocchi della famosa nevicata del 1956.
Ero insieme a lui al Trionfale, quartiere popolare di Roma che ci ha visto crescere, insieme a un gruppo di amici […] Ricciotti Boriano detto Marocco
, Danese, Cimolino e altri ancora. Ci ritrovavamo al bar Giava, il nostro raduno preferito prima di sparire nella bischetta di fronte a giocare a flipper. Era il bar che ha ispirato le strofe de L’urtimo amico va via, una poesia prima che una canzone, dedicata alla fine dell’adolescenza e al dissolversi di un’epoca. Quella che abbiamo conosciuto allora era un’altra Roma rispetto a oggi, era una città prevalentemente di quartiere.
Proprio in quegli anni Franco divenne Il Califfo
. Furono gli amici del bar a soprannominarlo così. D’altronde, quando non era ancora nessuno già aveva il suo harem, tante ragazze che impazzivano per lui. Ha raccontato Franco:
A sedici anni entrai per la prima volta in un bordello. Il mio fiore all’occhiello stava nel fatto che ero l’unico a non pagare. Anzi, le donne che lavoravano in casino mi baciavano in bocca, ed era una cosa rara. A quei tempi annavo alle scuole serali, perché me scocciava svejamme presto: facevo Ragioneria, ma er giorno volevo dormì. Sia chiaro, in italiano avevo nove in pagella. Scrivevo rubriche per giornali femminili, poi in seguito ho iniziato a fare i fotoromanzi come attore, scrivevo tante poesie ma ho capito ben presto che con le poesie se more de fame e allora trasformai le poesie in canzoni.
Ancora Antonello Mazzeo, l’amico di una vita che probabilmente l’ha conosciuto meglio di tutti, ha ricordato il periodo in cui lui e Franco attraversavano Roma per «svoltare la serata» in qualche locale.
Era molto bello, generoso, elegante, e soprattutto un gran signore. Era difficile che ci raccontasse le sue prodezze, e quando lo faceva non entrava mai in particolari intimi. Ha sempre avuto un grandissimo rispetto per le donne che frequentava. […] Nonostante la semplicità delle nostre abitudini, devo dire che ci si divertiva parecchio: andavamo al bowling dell’Acqua Acetosa, oppure al bar del tennis al Foro Italico, e quando ci andava bene passavamo la serata in qualche night club, dove si cercava di scroccare una consumazione. I locali si chiamavano Il Capriccio, Il Pipistrello, lo Shaker, per non parlare dello storico Club 84, che divenne un po’ l’ufficio del Maestro.
La sua avvenenza e la disinvoltura gli permisero molto presto di esordire nel mondo dei fotoromanzi. Proprio per la sua faccia «da bastardo», gli venivano affidati ruoli da cattivo, da rubacuori e da rubamogli. Apparve su «Lancio», «Grand Hotel» e «Sogno», tutte riviste di genere molto seguite. Ne fece circa 120 di fotoromanzi. E oltre a essere una buona fonte di guadagno, gli permisero di cominciare a far girare il proprio nome nel mondo dello spettacolo e del cinema. Ricordava Califano:
Uno degli aspetti più interessanti di questo lavoro erano, chiaramente, le donne. Dato che il tema dominante era l’amore, mi capitava di dover scattare diverse fotografie di baci appassionati, e una volta arrivati al dunque, alla mia partner le mettevo sempre la lingua in bocca. Non sapete come si incazzava il regista: diceva che si vedeva, che era volgare, che l’avrebbero censurato. Ma secondo me era semplicemente geloso.
Le ragazze con cui lavorava nei fotoromanzi furono anche le sue prime partner provenienti dal mondo dello spettacolo.
Ok papà, continuo io…
Papà Salvatore morì a trentanove anni. Per Franco, appena diciannovenne, era un riferimento, un punto fermo. Lo amava smisuratamente. «Devo a lui se sono diventato un uomo migliore» ha ripetuto spesso negli anni. La sua scomparsa rappresentava una tegola pesantissima sulla sua esistenza. «Io ho un rimpianto, uno solo» diceva, «quello di non aver avuto sufficientemente a lungo mio padre, al quale mi sono aggrappato in maniera incredibile. Io ho amato mio padre da non riuscire ad amare più, forse. Mio padre per me era tutto e mi è mancato molto presto […]».
Con la morte del genitore una voragine incredibile si era aperta nella vita di