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Tenebre sull'impero
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E-book337 pagine4 ore

Tenebre sull'impero

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Fantasy - racconti (276 pagine) - Spade e stregoneria, magia nera e misteriosi talismani: tre avventure sulle montagne ai confini dell'Impero, in cui i soldati di Roma affrontano entità antiche e potenti quanto i monti stessi.


Principato di Augusto, l'età dell'oro dell'impero: il mondo è in pace sotto il governo di Roma. Eppure, al confine dell'Italia, dove le Legioni hanno occupato le montagne indomite e misteriose solo da pochi anni, una magia terribile, più antica di Roma stessa, risorge. Solo gli Speculatores, la longa manus dell'imperatore, possono affrontarla.

Principato di Flavio Vespasiano: il dominio di Roma in oriente è scosso dalle guerre esterne e da quelle civili. Un'unità di élite, composta da legionari della Terza Legione Gallica e da cavalieri semibarbari di Pannonia, deve mantenere l'ordine, senza supporto da parte dei governatori romani deboli o corrotti. Scoprirà come, dietro quelle che appaiono semplici rivolte locali, si annidino potenze primordiali e arcaiche, forse di origine non terrestre.

Tre storie di magia, guerra e avventura, sullo sfondo di un’epoca storica straordinaria.


Giorgio Smojver è nato a Padova nel 1950 da genitori profughi da Fiume e si è laureato presso l'Università degli Studi di Padova in lettere classiche. Ha lavorato per anni alla rete di biblioteche civiche di Padova. Le sue passioni sono la mitologia comparata, la storia antica e medievale e la letteratura Fantasy.  Scrive storie fantastiche sia a sfondo storico che ambientate in mondi secondari. Cura il sito e la collana Heroic Fantasy Italia.

Ha pubblicato racconti in antologie di cui è anche curatore: I viaggi di Sindbad, (Delos Digital, 2021),Fiabe della notte oscura, (Delos Digital, 2021), Pianeti dimenticati, (Delos Digital, 2021) e Terre Leggendarie, (Watson 2022).

Nel 2019 il racconto Mirad come miraggio è entrato nella rosa dei dieci finalisti del Trofeo Rill. Nel 2021 il racconto Il liuto e l'arpa è stato tra i vincitori del Trofeo La Sfida e ha riportato il premio speciale del Lucca Comics & Games. Tra le altre pubblicazioni Le Aquile e l'Abisso (Watson edizioni, 2019);  Artigli nei boschi, (Delos Digital, 2019), Spade sull'Oceano (Delos Digital, 2020) e i due Valawyne e Helmor – La frontiera di Finyas, (Tora edizioni, 2021 e 2022).

Gianmaria Ghetta (Trento, 1977), vive a Rimini. Laureato in Storia Contemporanea, lavora nel marketing. Sposato, ha due figli. Appassionato del fantastico in ogni sua forma, di cinema e montagna, e studioso di storia militare, scrive narrativa fantastica, con particolare attenzione al fantasy-storico.

Per Delos Digital ha pubblicato i romanzi brevi L’eredità (2020), La Voce Nera (2020), La Spina di Poitiers (2021), Ombre di Cenere (2022). Per Watson Edizioni ha pubblicato il romanzo Pelle Rossa (2022). Con L’ultimo sacrificio, pubblicato nell’antologia Aspettando Mondi Incantati 2020 (Associazione Rill, 2020) e nel numero 17 della rivista Dimensione Cosmica (Tabula Fati, 2022) è stato finalista al trofeo Rill 2020.

LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2022
ISBN9788825422467
Tenebre sull'impero

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    Anteprima del libro

    Tenebre sull'impero - Gianmaria Ghetta

    Introduzione

    Questi tre romanzi brevi sono, per noi, un ritorno a casa. Nel 2018 Giorgio scrisse il racconto Castrum Daemonum, su invito dell’amico Alessandro Iascy, per l’antologia Impero di Watson Edizioni. In quell'occasione fu creato il personaggio di Aulo Casperio basandosi su un breve accenno di Tacito che, negli Annales, menziona un centurione Casperio, uomo d’onore e conoscitore dell’oriente, in servizio in Siria e Armenia. A lui furono affiancati il decurione barbaro Ardaric, la sacerdotessa e guaritrice Apama, il giovane geniere greco Demetrio e l’amazzone Zarya. Personaggi poi approfonditi nel romanzo Le aquile e l’abisso del 2019, pubblicato di nuovo con Watson Edizioni, sempre con l’idea di mettere a confronto il coraggio e la disciplina dei Romani con la magia nera e le creature delle mitologie orientali, talvolta tratte anche dall’immaginario di Lovecraft, quando ad esse si ispira. Gli stessi personaggi sono protagonisti delle due novelle firmate da Giorgio Smojver in questo libro; Arx Daemonum, in particolare, prende spunto da Castrum Daemonum ma lo arricchisce di nuove avventure e significati.

    Un anno dopo Le aquile e l’abisso, il romanzo L’eredità di Gianmaria Ghetta, ambientato durante la Guerra Giudaica, propose ai lettori una storia che, pur differente nell’intreccio, perseguiva un intento affine. Fu per noi l’occasione di conoscerci, condividere la passione per la storia e il fantastico e soprattutto diede vita a un'amicizia preziosa e duratura.

    Nel racconto Le spade dei Monti pallidi, il terzo di questa raccolta, Gianmaria riprende e approfondisce i personaggi già presenti nel racconto L’ultimo sacrificio, finalista nel 2020 al torneo RiLL e pubblicato sulla rivista Dimensione Cosmica: il centurione Nevio Flavio Labieno e i suoi Speculatores imperiali, l’assassino Herennio Marsico, l’incantatore egizio Sothis-Hentep, il britanno Dub Novella Uno e il numida Mandabale.

    La nostra visione dell'impero romano è lontana tanto dalla damnatio memoriae prevalente nei media anglosassoni, quanto dalla retorica nazionalista diffusa in Italia anche dopo il fascismo. Ciò che di solito viene ignorato è che gli eserciti romani, in epoca imperiale, erano formati da tutti i popoli dell'impero: Galli, Iberici, Dalmati, Britanni, Ebrei, Numidi avevano la possibilità di guadagnare il diritto di cittadinanza tramite il servizio militare e civile, dato che gli eserciti romani, oltre a combattere, costruivano strade, acquedotti e le fortezze che sarebbero divenute, nel corso dei secoli, le grandi città d’Europa. Entrambi i nostri gruppi di combattenti scelti sono costituiti da uomini di origine e cultura diversa. Non sono idealizzati, ma centrali sono il senso dell’amicizia e quello del dovere svolto senza retorica.

    Infine, l'impero romano e la magia. La storia di Roma ha sempre avuto un lato oscuro e misterioso. Roma aveva fede negli auguri e negli aruspici, celebrava annualmente i terribili riti dei Lupercalia e dei Lemuria; Seneca, Lucano, Petronio e Apuleio, i più importanti scrittori dell’impero, descrivono senza scetticismo scene che noi definiremmo Weird. Esistono centinaia di papiri e ostrakon con formule magiche. E intellettuali come Plinio e Giulio Solino erano convinti che, ai confini dell’impero, si potessero incontrare razze semi umane e creature favolose. Come in effetti avviene nelle nostre storie.

    Buona lettura!

    Giorgio Smojver e Gianmaria Ghetta

    La valle della chimera

    Giorgio Smojver

    È notizia molto frequente, e molti o per propria esperienza o per quella di persone degne di fiducia affermano di aver udito, che i Silvani e i Pan, che comunemente chiamano incubi, sono spesso apparsi a donne malvagie, e hanno desiderato e avuto rapporti con loro; e alcuni demoni, che i Galli chiamano Dusi, tentino e compiano costantemente questoatto immondo, e tanti lo sostengono che sembra spudorato negarlo.

    Agostino di Ippona, De civitate Dei

    Nei suoi palazzi saliranno le spine, ortiche e cardi sulle sue fortezze; diventerà una tana di sciacalli, un recinto per gli struzzi. Gatti selvatici si incontreranno con iene, i demoni Sirim si chiameranno l'un l'altro; vi faranno sosta le Lilit e vi stabilirono la loro tana.

    Isaia 34. 13-14

    Prologo

    Gaulanitide. Anno 819 ab Urbe Condita, principato di Claudio Nerone

    Il tempio della Dea sorgeva isolato, sull’altopiano spazzato dal vento; era circondato da un cerchio di terra irrigata, dove le sacerdotesse coltivavano la vite, gli olivi e gli alberi da frutta, e non aveva mura di protezione.

    La dea accoglie chiunque, dicevano le sacerdotesse Greci, Ebrei, Siri o Iturei; che la chiamino Artemide o Anat o Anahita.

    Il centurione primus pilus Aulo Casperio era stato distaccato in quella regione marginale, a settentrione e a oriente della valle del Giordano e del mare di Galilea, con metà della prima coorte della Terza Legione Gallica; il legato di Siria Cestio Gallo invece, con la Dodicesima Legione Fulminata, procedeva verso Gerusalemme.

    Un’idiozia disperdere l’esercito in diverse direzioni, come se Gerusalemme fosse un piatto già cotto e servito, aveva pensato Casperio; e, peggio, l’aveva detto in faccia al legato.

    Cestio Gallo, che da poco governava la Siria, era del tutto privo di esperienza di guerra, mentre Casperio si era distinto nelle dure campagne contro i Parti del grande Domizio Corbulone. Ma Gallo, senatore ed ex console, non aveva affatto gradito che un semplice centurione, un provinciale di Bergomum, gli tenesse una lezione di tattica. Così gli aveva affibbiato quella rogna, affiancandogli il decurione Ardaric della cavalleria di Pannonia:¹ un Bastarna dei monti oltre il limes danubiano, buon soldato ma piantagrane, e ancora più selvaggio dei Pannoni.

    La Gaulanitis era un calderone di genti: Giudei, Iturei e Greci si combattevano già prima che Gerusalemme insorgesse.

    Casperio e Ardaric erano arrivati tardi: avevano scorto da lontano la colonna di fumo; il fuoco già divampava nel tempio, le sacerdotesse erano state sventrate sui loro stessi altari o impiccate agli alberi sacri, quelli che gli zeloti ebbri del loro Dio unico non avevano ancora divelto.

    La battaglia era stata breve e facile: gli stessi zeloti avevano distrutto il solo luogo dove avrebbero potuto arroccarsi, e in campo aperto il loro coraggio fanatico non reggeva il confronto con la fredda determinazione dei legionari e la selvaggia furia dei Pannoni. Nessuna pietà per i vinti.

    Stavano già per lasciare quel luogo di morte quando Casperio udì delle flebili grida dal tempio. Avvolto nel mantello bagnato, si precipitò con sei legionari all’interno dell’edificio pericolante. Tra il crepitare delle fiamme e lo schiantarsi delle travature le voci si fecero più chiare: venivano dalla cantina, ma la porta d’accesso era sbarrata. Cercò di sollevare una trave crollata e la forza erculea di Ardaric gli venne in aiuto; la usarono come un ariete e con colpi ripetuti sfondarono i battenti, malgrado il fumo li accecasse e l’aria azzannasse le gole, ardente come fuoco. Dietro la porta si affollavano una decina di bambine guidate da una ragazzina un po’ più grande, forse quattordici anni, magra come una lisca di pesce e con occhi enormi. Fu lei a prenderne per mano altre due e a correre verso l’uscita nell’unico corridoio non ancora invaso dal fuoco. Ardaric, Casperio e alcuni legionari presero in braccio le più piccole e riuscirono a riguadagnare l’aria aperta, un attimo prima che il tetto crollasse.

    – Statyra ci ha fatto nascondere negli orci dell’olio, per proteggerci – spiegò la ragazzina più grande. Aveva i capelli neri e ribelli, e i grandi occhi dell’azzurro scuro del cielo notturno erano fissi su di loro, forse per non guardare i corpi straziati delle sacerdotesse.

    – Avete famiglia nella zona?

    – La maggior parte di loro a Canatha o a Dion. Io no, la mia casa era il tempio.

    – Come ti chiami? – chiese Ardaric.

    – Apama – e aggiunse, in tono di sfida: – Discendo dai Re Seleucidi.

    Casperio non ci credette nemmeno per un momento.

    1. Efeso

    Efeso. Anno 823 ab Urbe Condita, secondo del principato di Flavio Vespasiano

    Era considerata la più bella città dell'Asia Romana: Apama si aggirava a occhi spalancati le vie porticate, le terme, l’Agorà, la biblioteca e i ginnasi che si stringevano in cerchio riverente attorno al più grande tempio della Dea, l’Artemision, una delle Sette Meraviglie del mondo.

    Tutte le altre sacerdotesse-bambine salvate cinque anni prima dal tempio in fiamme erano state restituite alle famiglie; ma lei non aveva nessuno ed era rimasta coi legionari, adottata da Ipponoo, il medico greco della prima coorte, e aveva perfezionato l'arte di guaritrice già appresa al tempio. Li aveva seguiti persino quando la Terza Legione Gallica era stata trasferita sul barbaro confine del Danubio.

    Tornata a Berytus, la città più romana di Siria, dove era acquartierata la legione, un nuovo dolore: era morto Ipponoo, il suo padre adottivo. Casperio aveva arrangiato con il legato della Legione che Apama percepisse un salario come aiuto chirurgo, e nel contempo le aveva concesso quell’agognato viaggio al tempio della sua dea, perché superasse la malinconia.

    E così era: nella città della sua Dea, Apama aveva ritrovato la gioia e la curiosità di vedere e apprendere.

    Erano con lei due dei migliori amici, il centurione dei ballistarii Demetrio di Rodi e il giovane Marco Cassio Longino, poco più che adolescente.

    Demetrio aveva ventisei anni: era stato un discobolo famoso, favorito di Nerone; incorso nella gelosia dell'Imperatore per una relazione con una liberta, era fuggito ad Alessandria, dove era stato allievo dello scienziato Erone. Quando i Giudei di Egitto si erano rivoltati, il Prefetto aveva fatto leve di ausiliarii greci e, volente o nolente, era stato arruolato tra i frombolieri per la sua destrezza.

    Marco era figlio del Centurione Sesto Cassio Longino: diciassette anni, l’alba di una maturità di cui non sapeva ancora cosa fare, aveva desiderato ardentemente quel viaggio per un motivo opposto a quello di Apama. Come suo padre, aderiva con tutta l'anima al nuovo culto, nato in Giudea quarant’anni prima. Amava Demetrio come un fratello e Apama più di una sorella, anche se si sarebbe fatto crocifiggere pur di non ammetterlo. Il suo più gran dolore era di non essere riuscito ad avvicinarli alla fede di Cristo: a Efeso viveva un uomo che aveva conosciuto di persona Gesù e gli era stato più vicino di chiunque altro. Predicava ai pescatori e ai marinai, e Marco Longino sperava che ascoltandolo anche Apama e Demetrio avrebbero trovato la vera fede. Aspettava quell’incontro con ansia, perché anche lui aveva una domanda importante da porre a quell’uomo.

    Demetrio si schermì dicendo che voleva andare alla biblioteca e Longino, rispettoso della cultura del suo amico, pur deluso accettò le scuse.

    Apama, per buon cuore, non gli disse che la splendida biblioteca era unita al più famoso bordello di Efeso da un passaggio coperto, perché i notabili della città potessero entrare senza farsi vedere. E si adattò ad accompagnare Marco, anche se con diffidenza.

    Non era un tempio, ma il Macellum del pesce della città, una corte scoperta circondata da portici: gremito di una folla che a giudicare dall’odore di pesce, sudore, sale e pece doveva essere composta in gran parte da carpentieri, marinai e pescatori. Apama arricciò il naso delicato: neanche i legionari puzzavano tanto. La rallegrò però la vista di una vasca in cui cefali e spigole guizzavano vivi, le ricordò i pesci sacri del tempietto siriano dov’era cresciuta. Distrutto da fanatici ebrei, c_ome l’uomo che Marco vuole che ascolti_.

    Il predicatore entrò, appoggiato al braccio di un ragazzo greco. Mostrava sessant'anni o poco più ed era cieco, gli occhi bianchi di cateratte. Anche i capelli e la barba tagliati corti erano candidi. Il viso, il più bello che Apama avesse mai visto.

    L’uomo parlò con voce piana, in un greco non perfetto; nessuno nella folla perse una sua parola.

    – Dopo che fu ucciso Joannes il Battezzatore – anch’io mi chiamo così, noi Giudei abbiamo pochissima fantasia per i nomi – uscimmo dalle terre di Erode Antipa e ci recammo sulle alture di Golam. Lo scopo era di far perdere le nostre tracce e starcene un po’ tranquilli, ma figuratevi se Gesù la smetteva di guarire i malati che incontrava. Così in pochi giorni la voce si sparse e ci trovammo circondati da una folla che voleva ascoltarlo: migliaia, lo giuro. Ora i nostri soldi, i pochi che avevamo, li teneva Giuda di Kerioth, e non aveva acquistato provviste: biascicò che se il Maestro si fosse solo fatto pagare per le guarigioni non saremmo stati nelle peste, e poi quelli non erano neanche ebrei ma siri e iturei, toccava forse a noi sfamarli? Era un gran tirchio, l’avete capito. Tra tutti avevamo cinque pagnotte d’orzo e due pesci, belli grandi perché io e Simon Pietro eravamo pescatori e sul pesce non transigevamo. – Seguirono applausi degli astanti: molti erano devoti alla Dea e lì solo per curiosità, ma pescatori. Johannes riprese:

    – Le bocche da sfamare erano migliaia. Insomma Gesù se li fece portare, in due canestri, rese grazie al signore e iniziò a distribuirli. E tirava fuori pani su pani e pesci su pesci, e non finiva più. Migliaia di bocche e mangiarono tutti, e ne avanzò anche di pane, ci nutrì per giorni. Ebbene, io non vi narro questo per dirvi: abbiate fede e Gesù sazierà la vostra fame, curerà le vostre malattie. Lui è in cielo, e anche da vivo non faceva miracoli a comando. Ciò che voglio dire è: non disperate mai. Forse il vostro dolore passerà, o forse no, ma il mio amico e maestro soffrirà con voi, lui che in vita ha sofferto più di voi. È la disperazione il solo peccato che non ha perdono – e qui un sorriso lampeggiò tra le rughe profonde all’angolo della bocca. – Fratelli, comunque benedirò le vostre barche, anche se hanno l’immagine di Artemide sulla prora: forse prenderete più pesci, forse no, ma Gesù era davvero un gran pescatore.

    Apama si stupì che quell’uomo le piacesse; Marco invece pareva essersi atteso qualcosa di più, una promessa, e, quando gli astanti dopo aver applaudito si dispersero, la prese per il polso e la trasse a forza davanti al vecchio.

    – Maestro, ho due domande da rivolgervi – e poi, con voce esitante e tuttavia una punta di sfida:

    – Il mio nome è Marco Cassio Longino: mio padre è un centurione di Roma, come lo fu mio nonno che…

    – Trafisse il mio maestro e amico d’un colpo di lancia – rispose Joannes. – Vieni: Policarpo fa un’ottima zuppa di vongole e ceci, dividi cibo e vino con me. E anche la tua amica.

    – Con gioia – replicò Apama. – Ma sappi che io credo nella Dea e la servo.

    – È appunto una delle cose che chiedo – Marco era arrossito. – Apama ha un cuore buono e gentile ma è pagana, vive nel peccato con i soldati di Roma, e io non sono stato capace di trarla alla luce di Cristo. Se tu…

    S’interruppe e guardò Apama, come se temesse una sberla, che in effetti lei era stata tentata di dargli.

    – Non sono cose di cui parlare prima di pranzo – replicò Joannes.

    La zuppa di vongole e ceci con il pane abbrustolito e il vino resero onore alle parole di Joannes.

    E poi Marco, che a stento si era trattenuto, partì a briglia sciolta come un auriga allo stadio.

    – Maestro, io sono sciocco e ho la lingua legata, ma tu, tu hai conosciuto il Signore. Spiega alla mia amica che gli dei pagani non esistono, o sono demoni. Se lei crederà anche altri uomini, buoni ma ciechi, apriranno gli occhi e potranno salvarsi.

    – Chiedi a un cieco di aprire gli occhi agli altri? Hai detto che sono buoni: si salveranno. Dimmi tu, figlia, cosa credi?

    – Non nego il tuo dio: ma credo nella mia Dea che illumina le notti, solleva le maree e conforta i cuori spauriti nel buio.

    – Artemide non esiste! – scattarono in coro Marco e Policarpo.

    – Siete molto giovani per giudicare cosa è e cosa non è – replicò Joannes. – Non sono un filosofo, Apama. Credo che Dio abbia creato il cielo e la terra, gli angeli e i demoni, gli animali e le piante, e da ultimo l’uomo. La Signora della Luna è un angelo? Forse. Un demone? Non credo. Una dea? Non so. So, da pescatore, che è bene che la luna in cielo rischiari la notte e muova il mare. Dimmelo tu: vivi nel peccato come dice Marco?

    – Vivo del mio lavoro. Curo i legionari feriti e infermi.

    – Bene. Ai soldati serve una mano gentile di donna.

    – E amo un uomo onesto! – esclamò Apama con fierezza. Poi ci ripensò. – Due…

    – Jacob aveva due mogli, Lia e Rachele. – replicò Joannes. – Non dico che facesse bene. Ma le amava, e grazie a loro esistono le dodici tribù di Israele. Hai altro da chiedere, Marco?

    Questa volta Marco faticò a trovare le parole. – Mio nonno uccise Gesù. Forse per por fine alla sua sofferenza, ma lo fece. Conservò tutta la vita la punta della sua lancia, sperando di mostrargliela e chiedere perdono, quando lui fosse tornato a giudicare gli uomini, ma morì prima che ciò avvenisse. Anche mio padre è centurione e conserva la lancia, anche lui attende. Ma quando tornerà il Signore?

    – Marco, conobbi tuo nonno e mi fece la stessa domanda. Oggi ho raccontato dei pani e dei pesci, ma sai cosa disse tutta quella gente dopo? Che il pesce non aveva sapore, perché non c’era l’olio. Gli uomini non si accontentano dei miracoli, vogliono sempre di più. Gesù tornerà. Quando? Non lo so. Forse non avverrà nel corso della vita di tuo padre o della tua. Non si forza la mano al Signore. Attendi, spera, non fare mai fretta a Lui.

    Marco abbassò gli occhi. – Devo imparare ancora tanto. Maestro, consentimi di restare un anno, ascoltarti e studiare le Scritture.

    – Ma certo. Ti troveremo un lavoro al porto, c'è sempre da fare con le barche.

    A quanto pareva la vita di solo studio e preghiera cui aspirava Marco non era prevista dal Maestro, che di un tratto parve fissarli attraverso il bianco velo della cataratta. – Dì questo a Sesto Cassio Longino, Apama: verrà spezzato il sigillo e aperta la porta dell’Abisso, e dal pozzo salirà un fumo come di una grande fornace, che oscurerà il sole e l'aria. Ne usciranno locuste come cavalli da guerra e avranno code di scorpioni. Il loro Re è il messaggero dell’Abisso, e ha nome Abaddon in ebraico, Apollion in greco, Aeshma in persiano. Per quel giorno conservi la lancia.

    2. La vexillatio

    Lystra. Anno 823 ab Urbe Condita, secondo del principato di Flavio Vespasiano

    Lystra, la principale cittadella della Licaonia, una delle regioni più povere dell’Asia romana, era sita in collina e dominava le steppe circostanti; il procuratore risiedeva nel palazzo di un qualche dinasta dimenticato, forse di età achemenide.

    – È uno stile bizzarro: mescola elementi greci e persiani – osservò il più alto dei due centurioni, mentre entravano; tra i trentacinque e i quarant’anni, barba castana ben curata alla maniera greca, aveva un viso da filosofo più che da guerriero, smentito da una cicatrice di freccia sul collo.

    L’altro annuì: di forse cinque anni più giovane, bruno, glabro, robusto, con un profilo aquilino e uno sfregio di lama sulla guancia; i chiari occhi grigi e l’accento lo indicavano originario della Gallia Cisalpina. – Non mi intendo di arte, lo sai: ma quelli non sono certamente greci.

    Indicò i fregi scolpiti del frontone: figure barbute metà umane e metà animali offrivano doni a un essere titanico, in apparenza composto da diverse bestie, a quanto si poteva capire dalla pietra logora e smozzicata.

    I muri nel vestibolo erano adorni di pitture, in parte scrostate, che rappresentavano la leggendaria battaglia tra i Lapiti e i Centauri da un lato, e dall’altro scene di Satiri in pose oscene che concupivano efebi e fanciulle. Forse per qualche tradizione locale, i tratti ferini di Centauri e Satiri si spingevano ben oltre l’iconografia greca, con deformità e anomalie che il cattivo stato della pittura non consentiva di definire del tutto.

    Paccio Orfirio, Procurator Augusti, li ricevette nel suo studio. Le guance grasse e il naso avevano una tinta purpurea, per il pessimo umore e anche grazie alla brocca di vino che aveva macchiato la toga. Accanto a lui un uomo massiccio, con barba e baffi rossi striati di grigio e le insegne di prefetto di coorte.

    – Avevo richiesto due coorti e un’ala di cavalleria romana – sbuffò. – E che mi manda Gneo Collega? Due centurie e cento cavalieri barbari!

    I centurioni rimasero impassibili. Il più giovane rispose, in tono secco:

    – In Siria durano ancora i tumulti della rivolta giudaica e il legato non ha potuto mandarvi più soldati. Io sono Aulo Casperio centurione primus pilus della Terza Legione Gallica; io e Sesto Cassio Longino, centurione primus princeps, comandiamo il primo manipolo della prima coorte, con tre turme di cavalieri scelti di Pannonia, i migliori dell’armata di Siria. Veniamo dalla presa di Gerusalemme e abbiamo servito anche contro Armeni, Parti, Daci e Sarmati.

    Casperio trovò superfluo specificare che in dodici anni di campagne la Terza Gallica non era mai stata sconfitta. Ma le sue parole rabbonirono Orfirio.

    – Ci intenderemo. La Licaonia può parere piccola e povera, vista da grandi metropoli come Antiochia o Efeso, ma è la lana delle capre di Ancyra e Lystra che arricchisce i mercanti di tessuti siriani. Siamo sull’antica strada reale, da qui passano le carovane da oriente. Purtroppo tra i monti vivono tribù ribelli che saccheggiano le merci e le greggi, rapiscono i giovani per farli schiavi e poi si rifugiano nelle rocche segrete. Serve una spedizione punitiva che li insegua nei loro nascondigli e uccida quel cane di Troxobor.

    – È parecchio che sento parlare di quel brigante. La Licaonia non è presidiata?

    – Solo ausiliari locali, codardi che a malapena osano uscire dalle mura delle città, e una coorte equitata di Galati;² neanche loro hanno potuto, o voluto, inseguire i nemici sui monti.

    Casperio, lui stesso mezzo celta agli occhi dei romani, interrogò con lo sguardo il prefetto di coorte, sino allora silenzioso.

    – Il mio nome è Flavo Dagomar, cittadino romano, già centurione della legione decevariana in Egitto e ora prefetto della terza coorte di Galati. Ho combattuto nella guerra partica, come voi.

    – Mi ricordo di te – intervenne Longino. – Domizio Corbulone ti tributò un elogio solenne. Non sei uomo da temere le montagne.

    – E i miei non sono codardi. Cinque anni fa avevamo già sconfitto Troxobor quando… la montagna tremò e tutto cambiò, lassù.

    – Queste sono superstizioni barbariche – proruppe il procuratore. – Non c’è nulla là, se non una banda di briganti. Centurione Casperio, tu sarai al comando e Longino e Dagomar saranno in subordine a te.

    Casperio e Longino scambiarono uno sguardo. Un Procurator Augusti dispone come vuole delle truppe nel suo distretto, ma subordinare un prefetto di coorte, anche se di auxilia, a un centurione è sempre un rovesciamento dei gradi e una pessima idea.

    * * *

    Lystra era cinta da mura arcaiche di massi sovrapposti; solo le torri e le passatoie erano di costruzione romana. Lo sguardo spaziava sulla distesa dell’altopiano, steppa arida percorsa da greggi di capre e asini selvatici, senza campi né frutteti, da cui il vento sollevava nuvole di polvere giallastra. Stagni morti dalle rive bianche di sale riflettevano come specchi la luce solare.

    Ai piedi della collina era stato stabilito il campo legionario: i due centurioni e Dagomar videro Ardaric allenare le sue torme di cavalieri in complesse evoluzioni.

    Un orlo scuro e seghettato di monti chiudeva l’orizzonte a meridione: Dagomar l’indicò:

    – Lì è terra degli Isauri. Roma non l’ha mai controllata.

    Scorgendoli Ardaric lasciò il comando al secondo decurione Settimo Genzio ed entrò in città. Poco dopo li raggiunse sulla torre.

    Ardaric era un gigante. A torso nudo, con la chioma bionda arruffata e gli occhi cerulei, pareva una delle statue di barbari che adornano l’ara di Pergamo. Invece della spada regolamentare cingeva una romfaia, l’arma lunga e leggermente ricurva dei Bastarni, capace di tagliare una maglia di ferro. Accanto a lui camminava lieve Apama: il vento che scendeva dai monti le scompigliava la lunga chioma nera e incollava la lana del chitone al corpo morbido e armonioso. Casperio provò una fitta di gelosia. Ingiustificata, perché la giovane greco-siriana non apparteneva a lui, né ad Ardaric.

    L’avevano vista maturare e divenire una splendida donna, e malgrado questo nessun soldato osava importunarla: prima la salvezza miracolosa dal tempio e poi l’innato talento di guaritrice le avevano dato un’aura sacra. Era divenuta forse più brava di Ipponoo; quando l’anziano medico era morto, ne aveva preso naturalmente il posto. Era stato proprio quella notte che era entrata di sua scelta nella tenda di Casperio. Mi sento triste e non voglio dormire sola, era tutto quel che aveva detto.

    Due notti dopo però aveva dormito con Ardaric. Nessuno dei due aveva diritto di rimproverarla: Apama sceglieva ogni notte, Apama apparteneva solo alla Dea e a sé stessa.

    Casperio si scosse dai ricordi. Era tempo di chiarire le cose con Dagomar. Gli si rivolse.

    – Tribuno, Orfirio ha comprato la sua carica, ma non è altro che un esattore di tributi. Noi siamo tutti soldati, e tu sei il più alto in grado e il più esperto di questo paese. Se vorrai rivendicare il comando, io ti seguirò.

    Dagomar scosse la testa leonina. – No. I legionari non avrebbero fiducia in me, e forse avrebbero ragione.

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