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Per una nuova coscienza spirituale
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E-book365 pagine5 ore

Per una nuova coscienza spirituale

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Info su questo ebook

Il termine “spiritualità” evoca necessariamente una dimensione di ricerca che senza dubbio possiamo considerare come infinita. È altresì evidente che in questo inizio XXI secolo emerge un fenomeno sociologico che assume il carattere di un vero e proprio bisogno collettivo; ciò che da più parti viene alla luce è una vera e propria “domanda di spiritualità”. Sovente però assistiamo a una “letteratura spirituale” come mero prodotto di consumo, superficiale, dai contenuti spesso distorsionati dalle origini delle antiche culture sapienziali. Questo lavoro non ha nessuna intenzione di offrire percorsi spirituali, né tantomeno sentenziare verità assolute. È una ricerca che per così dire vuole aprire delle “finestre di conoscenza”, attraverso le quali il lettore, secondo la propria sensibilità e interessi, possa orientarsi ad un approfondimento dei temi presenti in questo lavoro. Le finestre qui presentate riguardano una riflessione sui concetti di spirito e anima attraverso le relazioni tra filosofia greca, mistica cristiana e nuovi orizzonti teologici, fisica quantistica e psicologia transpersonale. Un intreccio di relazioni e rimandi oggi necessariamente da indagare.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mar 2022
ISBN9788869633324
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    Anteprima del libro

    Per una nuova coscienza spirituale - Silvio Rossi

    Silvio Rossi

    PER UNA NUOVA

    COSCIENZA SPIRITUALE

    Elison Publishing

     Per contattare l'autore: silviorossi66@hotmail.com

    © 2022 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869633324

    A Gabriella Barbagli

    semplicemente perché mi ha salvato

    INTRODUZIONE

    La motivazione principale nello scrivere questo lavoro risiede in un crogiolo di emozioni a volte contraddittorie, a volte dai contorni sfumati, che si presentano di fronte alla vista dello spettacolo di un mondo sempre meno comprensibile, violento, dove la sofferenza individuale e collettiva ci viene sbattuta in faccia da un sistema invasivo di informazione, che più che informare tende alla spettacolarizzazione della notizia. In un mondo dominato sempre più dalla ragione strumentale tecno-economicistica, l’individuo singolo occidentale si trova in una condizione psicologica precaria, esposto a mille condizionamenti, e soprattutto dalla sensazione diffusa di impotenza di fronte a processi sistemici sovra-personali.

    Si usa spesso dire che il nostro tempo sia caratterizzato dalla fine delle ideologie protagoniste del secolo scorso. In realtà credo che questa affermazione non corrisponda al vero, per la semplice ragione che il pensiero umano difficilmente può evitare l’ideologia, ma anche e soprattutto perché si è sviluppato un sistema socioeconomico globale dove prevale un’unica incontrastata ideologia: il neoliberismo economico. Questa è una verità che difficilmente può essere messa in discussione. In questo scenario l’essere umano occidentale non solo subisce l’invasività del gigantesco sistema di riproduzione sociale basato essenzialmente sulla competizione feroce in tutte le dimensioni della vita, ma anche rischia di perdere ogni orientamento di senso in relazione alle possibili strategie individuali per contenere il disagio e la sofferenza che spesso si trasforma in tragedia. Con uno sguardo disincantato, sembra che le promesse di emancipazione e progresso della ragione, nate dall’illuminismo e dal positivismo, si siano ormai esaurite. Si profila all’orizzonte un futuro incerto ed un passato che sembra gettato nel dimenticatoio della coscienza, relegato all’insignificanza o all’indifferenza.

    Le ricerche sociologiche ci dicono che sempre più persone, oltre che al disagio di trovare una collocazione concreta nel vivere sociale, avvertono un bisogno di spiritualità che il mondo tecnico-scientifico tende a neutralizzare. Ci troviamo di fronte ad un paradosso: più la tecnica ci seduce e più cresce il bisogno di spiritualità. Più ci immergiamo a capofitto nei ritmi di vita veloci nella speranza di ottenere soddisfazioni e vivere meglio, più ci assale la frustrazione e il senso di un vuoto da riempire interiormente. La proliferazione in occidente di un tipo di letteratura che va sotto il nome di spirituale, i numerosi corsi di self-help, mindfullness, yoga, meditazione orientale, suggestioni teosofiche, letteratura New Age e quant’altro, testimonia chiaramente questo fatto. La sensazione collettiva che viene alla luce si mostra come un avvertire che ci troviamo in un’epoca che prelude ad un trapasso, ad una possibile svolta antropologica. Le determinazioni e i confini di questo sentire sono incerti, sfumati, e tuttavia premono sulla coscienza di milioni di persone in tutto il mondo. C’è chi sostiene che tutto ciò sia il preludio per un prossimo futuro nel quale sorgerà un nuovo mondo, più equo, più cosciente, più libero, dove gli schemi culturali che oggi egemonizzano il nostro vivere verranno soppiantati da una nuova umanità. È una speranza, un sentire appunto, anche se contornato da mille contraddizioni ed illusioni. La domanda diffusa di spiritualità sta alla base di queste sensazioni. Dobbiamo dunque capire i termini del bisogno di spiritualità emergente.

    La parola spiritualità infatti può voler dire tutto e niente. Soprattutto credo sia importante analizzare in che modo l’occidente tematizza e si esprime nei confronti delle tematiche spirituali, soprattutto in riferimento alla cultura orientale oggi molto diffusa in occidente.

    Basta dare un’occhiata in internet per rendersi conto di una massiccia offerta spiritualistica, dove guru di varie formazioni creano piattaforme contenutistiche suggestive quanto in molti casi superficiali. Credo che questo sia un aspetto da indagare e da tenere bene in considerazione. Dobbiamo cioè sempre tenere presente che certi contenuti che provengono da altre culture, vengono spesso stravolti per dei fini che nulla hanno a che fare con la crescita spirituale. In occidente si è andato formando un vero e proprio mercato della spiritualità, che ad un’analisi più attenta ci rivela strategie che convertono il bisogno spirituale diffuso in una merce come qualsiasi altra. L’occidente disincantato, razionalista fino alle degenerazioni dello scientismo, nichilista nell’illusione che l’ente sia l’ultimo orizzonte di senso, trasforma valori e storie provenienti da geografie altre da sé in prodotti di consumo, al fine di riempire un vuoto esistenziale sempre più pressante. La sofferenza esistenziale diventa un bisogno da sfruttare nel senso più deleterio del produrre cultura cosiddetta alternativa: diventa una domanda di mercato, un mero business. Avete problemi di autostima? Ecco pronta la guida di self-help. Avete problemi di relazione con il vostro partner? Ecco pronto un prontuario con i consigli per lo sviluppo della relazione amorosa. Siete alla ricerca di esperienze di picco? Ecco pronta un’antologia delle tecniche ancestrali per connettersi con il divino. E si potrebbe continuare all’infinito per questi lidi. Ben inteso, niente di male in tutto ciò. Ma bisognerebbe tener presente che le tradizioni sapienziali nulla hanno a che vedere con il soddisfacimento di desideri, semmai proprio il contrario, cioè l’annullamento dell’io, il non desiderio, il non attaccamento. Le antiche tradizioni spirituali, sia d’oriente che d’occidente, non hanno nulla a che fare con scopi e mete, tanto meno scopi e mete mondani. All’occidentale medio però sfugge tutto questo, e così si sente dire che si fa yoga perché si è stressati, o si fa mindfullness per potenziare le proprie capacità produttive e perché no fare anche esperienze non ordinarie, ovviamente nel week-end, fuori dell’orario di lavoro. Le aziende si stanno orientando ad introdurre tecniche di auto-consapevolezza. Si stanno rendendo conto che il lavoratore stressato influisce negativamente nella produzione. Ma ciò non ha nulla a che fare con la spiritualità, poiché la crescita spirituale, quella vera, quella tramandata dalla tradizione, non può essere messa al servizio di un paradigma produttivistico. Così molti ingenuamente si immergono nei flussi del cosiddetto pensiero positivo, che non è spiritualità, ma solo un prolungamento fuorviante dell’esaudimento di desideri materiali. Siamo completamente al di fuori di un vero percorso spirituale, che il mercato spaccia per tale.

    C’è chi ha chiamato questo tipo di letteratura New Age: diffusa spiritualità da supermercato.

    Non è difficile individuare le cause di questo fenomeno sociale. La cultura occidentale è una cultura individualistica, che nel tempo del tecnicismo economicistico radicale ha ormai raggiunto la dimensione alienata dell’atomismo. L’esperienza spirituale viene canalizzata esclusivamente nella sfera del privato, nonostante pratiche di gruppo. Il paradosso è che spesso non si potenziano e sviluppano sentimenti di altruismo, apertura all’altro da sé, alla differenza, al contrario si rischia di potenziare ancor più forme di narcisismo già esperite nella vita quotidiana. Invece che erodere i confini dell’io, cioè relativizzarlo, le potenziano, credendo ingenuamente di percorrere un cammino di illuminazione. Gli abbandoni di cosiddetti percorsi spirituali testimoniano questa situazione.

    Detto questo non si vuole sostenere che tutto quello che si trova nella piazza sia negativo.

    Semplicemente si vuole sostenere il fatto che bisogna tenere in considerazione che all’interno delle nostre società occidentali certi meccanismi sovra-individuali danno forma anche ad esperienze più complesse come la crescita spirituale e l’auto-consapevolezza. In altre parole si dovrebbe forse documentarsi meglio sui testi delle antiche tradizioni sapienziali, coglierne il senso profondo, prima di buttarsi in mano di un guru internettaro qualsiasi. Con un po’ di umiltà e studio si capirà, che, per esempio, la meditazione non serve ad ottenere nulla nella vita, che il pensiero positivo non ci farà avere la casa dei nostri sogni, per quanti mantra uno possa recitare quotidianamente. In un mondo dove tutto è trasformato in merce questo genere di trappole sono all’ordine del giorno, non rendersene conto è non solo deleterio per il nostro equilibrio mentale, ma anche profondamente ingenuo.

    Detto questo, è necessario specificare da subito l’impostazione di questo lavoro. Da quanto detto fin qui si sarà certo capito che questo scritto non ha nessuna intenzione di fornire rimedi animici miracolosi di nessun genere. Chi scrive non è un guru, o un comunicatore esoterico, ma un semplice essere umano che si pone delle domande e cerca di articolare un ragionamento, con la consapevolezza di tutti i limiti che ciò implica, attorno al concetto di spiritualità. In altre parole, l’impostazione di questo lavoro è sostanzialmente di tipo filosofico.

    Ciò significa che qui non ci si propone di dare ad un eventuale lettore rimedi di nessun genere alla sofferenza psichica, ai problemi che concernono le crisi esistenziali. Semplicemente si è tentata un’indagine culturale attorno ai concetti di spiritualità e di anima all’interno dell’ambiente sociale occidentale e delle relazioni con altre culture.

    Se proprio si vuole cercare un filo rosso che caratterizza questo lavoro è l’ipotesi, da parte di chi scrive, della possibilità di un’evoluzione antropologica dell’essere umano, sia a livello individuale che collettivo, a partire dalla situazione sociale, storica e culturale del nostro tempo presente. Attenzione: solo una possibilità, non una certezza, nulla di deterministico.

    Se infatti è una realtà evidente la cosiddetta domanda di spiritualità, sempre più diffusa nelle società occidentali ad alto sviluppo tecnologico, è anche concreto da parte di molti un sentimento di speranza rivolto ad un superamento delle relazioni sociali basate sul dominio, la violenza, la competizione feroce, relazioni queste che sembrano essere globalmente egemoniche e allo stesso tempo profondamente in crisi. Ciò significa che esiste certamente un desiderio collettivo di superamento di questa realtà, ma allo stesso tempo non abbiamo nessuna certezza che una svolta antropologica possa effettivamente realizzarsi in un tempo prossimo futuro. Sentiamo, percepiamo, che siamo in un tempo storico che ha tutte le caratteristiche di un preludio ad un un nuovo orizzonte di senso nella vita individuale e collettiva, ma questa consapevolezza non è affatto traducibile deterministicamente, rimane una tensione a volte oscura, a volte più palese, di fronte ad un sistema sociale globale sempre più irrazionale, violento e contraddittorio. Di solito quando si pensa alla dimensione spirituale si fa riferimento alla soggettività dell’individuo singolo. Si pensa cioè ad una specie di monaco laico che si ritira nei meandri della sua vita privata e che non abbia più niente da fare con il mondo circostante. Tutto rivolto alla cura della propria anima in un continuo rapporto metafisico con il divino, qualsivoglia lo si consideri. Si riscontrano in effetti esperienze di tal sorta. Ci sono tante persone che da una crisi esistenziale scelgono di cambiare vita per dedicarsi ad attività e pratiche spirituali con lo scopo di fare esperienze non ordinarie. Ma al di là della rispettabile esperienza di ciascuno, la spiritualità non può essere solo confinata nella dimensione dell’intimo e del privato. Spiritualità è anche apertura, non solo nei confronti dell’esperienza mistica, del trascendente, che è certo anche bisogno che il genere umano ha sempre avuto e sempre avrà, ma anche apertura verso l’altro, verso il mondo, nel concreto rapporto che la vita ci impone quotidianamente. Mi sembra riduttivo pensare alla dimensione spirituale relegata, come spesso si pensa, alla sola dimensione religiosa, delle pratiche meditative e quant’altro. Anche colui o colei che non professa nessuna religione è spirito. In buona sostanza spirito è il pensiero, in particolare il pensiero intuitivo, che non calcola rischi e benefici, ma si innalza alla comprensione di se stessi e del mondo, in una tensione trasformatrice che in ultima istanza è cultura. La cultura è lo spirito cristallizzato di una civiltà.

    La filosofia, e particolarmente la filosofia sociale, sono indiscutibilmente le voci dell’occidente, a dispetto di un senso comune alienato e superficiale che scorre oggi orizzontalmente nella comunicazione massmediatica, la quale appiattisce i contenuti dell’esperienza umana, sia scaricandoli in un economicismo invasivo e fuorviante, sia nella banalità del set televisivo che si risolve in un moralismo ipocrita da anime belle garantite dal proprio status sociale, e quindi al riparo dalla drammaticità della vita.

    Spiritualità come apertura significa porre l’accento della riflessione, del pensiero intuitivo, a partire da una metafisica che non ha come aggancio metodologico il concetto di essere, ma al contrario il concetto di nulla, il grande tabù del pensiero occidentale.

    Che cosa significa dunque pensare a partire da un’ontologia del nulla? Principalmente sovvertire la metafisica classica che ha visto nel nulla un concetto innominabile e indeterminabile. Sovvertimento che invece che eludere il problema lo affronta spregiudicatamente. Si dice che il nulla è inesprimibile, non categorizzabile, ma esiste nella pratica discorsiva del linguaggio ordinario, quindi non un puro nulla. Il nulla è sempre un qualcosa, non è un nulla assoluto. I linguaggi della mistica cristiana, della teologia negativa, delle filosofie orientali, si appoggiano naturalmente alla sintassi del nulla. Una spiritualità che non comprenda l’intuizione del nulla è impossibile, oppure diviene un discorso fuorviante come accade spesso nella spiritualità da supermercato fondata sui desideri mondani.

    In secondo luogo l’ontologia del nulla ci permette di immunizzarci da un becero positivismo che è ancora molto presente sia in filosofia che nelle scienze sociali. L’ontologia del nulla è in estrema sintesi ontologia della libertà. Libertà che in sede teorica significa evitare qualsiasi forma di riduttivismo deterministico, ossia non categorizzare dogmaticamente la dimensione trascendente del divino, del sacro, e neppure incappare nello stesso errore nel descrivere la fenomenologia dell’esperienza individuale e sociale.

    Dovremmo ormai essere in grado di riconoscere che la modernità ha lasciato sulla sua strada cadaveri che ancora pesano sia nella coscienza individuale che collettiva. I cadaveri della ragione strumentale, del progresso, della dominazione spacciata per civiltà.

    Dobbiamo cioè essere coraggiosi nel riconoscere che le prerogative della modernità, così come si sono dispiegate, hanno fallito il loro intrinseco scopo. Non si vuol dire con questo che la modernità non abbia prodotto per certi aspetti progresso. Le idee illuministe hanno senza ombra di dubbio spazzato via tutta una serie di dogmi e superstizioni che avevano tenuto in catene gli esseri umani. In altre parole questa non è una critica a senso unico, non tutto è da buttare. E tuttavia non possiamo tacere le conseguenze che oggi la modernità ci ha lasciato, alla luce del vivere sociale del nostro tempo. Le speranze e le idee di emancipazione sociale, il progresso del sapere non hanno certo oggi realizzato quello che si suol definire progresso.

    Credo sia ancora valido il ragionamento che faceva Pier Paolo Pasolini circa la differenza tra progresso e sviluppo, riflessione che Pasolini affrontava negli anni settanta del secolo scorso.

    Ai critici che lo accusavano di essere contro il progresso Pasolini rispondeva che egli non era contro il progresso, ma contro lo sviluppo, nella fattispecie lo sviluppo tecnologico e la società dei consumi che prepotentemente aveva egemonizzato il costume dell’Italia di quegli anni.

    L’appello di Pasolini contro lo sviluppo della società consumistica di massa risuona oggi come un appello per riflettere sul rischio antropologico che l’essere umano si trova davanti: l’alienazione, la sofferenza, l’essere ridotto a mero funzionario di un sistema sovra-personale che lo schiaccia, lo opprime. Non è forse questo un appello disperato per non perdere la dimensione spirituale? Che cos’è il tecno-economicismo egemone dei nostri tempi se non la negazione di qualsivoglia dimensione spirituale dell’essere umano nella sua totalità, ossia come essere individuale e sociale? Non sono forse segni questi di una decadenza, della vita ridotta a puro calcolo, che cancella tutta una storia dello spirito di emancipazione che la modernità aveva proclamato al mondo intero?

    La ragione, questa facoltà dello spirito umano che ha formato il codice genetico dell’occidente, non si è forse ribaltata dialetticamente nel suo contrario, cioè in un mito distruttivo così come avevano già capito Horkheimer e Adorno?

    Da questi generali rilievi, che non possono certo essere ignorati se non per mala fede, la filosofia ha ancora una voce, seppur flebile e ignorata, da offrire all’essere umano per non morire spiritualmente. L’ontologia della libertà a partire dal nulla indeterminabile che costituisce l’esperienza umana, sia dal punto di vista della ricerca del’ Arché, sia dal punto di vista dell’emancipazione delle forme di vita, è la voce di un pensiero indomito, quindi di uno spirito vivo che sarà sempre presente nell’essere umano, nonostante le aberrazioni del potere, dell’ignoranza, del mero sviluppo tecno-economicistico. È da questo genere di riflessione, o meglio da questa intuizione, che è possibile non solo sperare ma anche produrre un senso superiore, un’energia spirituale evolutiva, nella vita individuale e associata nel nostro tempo.

    Credo che il bisogno diffuso di spiritualità attenga alla riconsiderazione dell’essere umano come unità, che faccia tesoro della consapevolezza dei cadaveri della modernità e delle sue meraviglie. Un pensiero, quindi uno spirito, che ci possa informare per affrontare le innumerevoli sofferenze ed ingiustizie che affliggono gli esseri umani. Una spiritualità nascente dunque che non si limita al solo ritiro nel privato, ma che concerne anche l’essere umano come essere fondamentalmente relazionale: relazione tra individui, culture e gruppi sociali, relazione fra la totalità del genere umano e la natura.

    La crisi dell’occidente non è solo economica ma anche profondamente antropologica.

    Quello che sta morendo sono i paradigmi attorno ai quali si conformano concetti come competizione, crescita illimitata in economia, sviluppo tecnologico scambiato per progresso, l’edonismo individualistico, l’estetica del frammento, le credenze bellico-religiose, la scienza come valore assoluto che si trasforma in scientismo, e così via.

    La filosofia può essere tuttavia uno strumento prezioso se si libera dall’eccessivo accademismo, per diventare patrimonio diffuso, passione, spirito vivo appunto.

    In questo lavoro per esempio ci siamo riferiti alle ricerche di Pierre Hadot che considerava la filosofia greca antica non tanto come conoscenza della verità, bensì come modo di vita, del vivere una buona vita.

    Spiritualità significa anche ripensare criticamente il grande patrimonio culturale dell’occidente.

    Possiamo diventare dei maestri di meditazione zen, grandi cultori dello yoga, accumulare conoscenze esoteriche, inabissarci nella mindfullness, fare corsi di self-help per tutti i gusti e quant’altro. Ma se tralasciamo la dimensione collettiva e pratica della trasformazione di noi stessi e dell’ambiente in cui viviamo, si rischia che la nostra spiritualità si riduca o a un fenomeno di mero business, o ad un affare solamente privato.

    Probabilmente la crisi antropologica del nostro tempo sta alla base di una falsa percezione diffusa del mondo in cui viviamo. La dimensione tecno-economicistica che governa letteralmente la nostra vita ha praticamente annullato tutta quella parte costitutiva dell’essere umano che è la relazionalità, l’altruismo, la solidarietà, il mutuo appoggio. È come se camminassimo con una gamba sola. La ragione strumentale ha reso il singolo un atomo irrelato, impotente, frustrato, sofferente, nichilista, egolatra. Spesso nei momenti di lucidità ci accorgiamo che la nostra vita risulta essere inautentica, un mero determinismo comportamentistico che ci affligge e dal quale non sappiamo uscire.

    Non basta più dire viviamo il presente, come tanta letteratura New Age recita in varie salse.

    Certo, vivere il presente è condizione indispensabile, ma ciò non significa cancellare il passato come se non esistesse e il futuro perché non è ancora. L’eterno presente che stiamo vivendo assume significazioni, che da un punto di vista culturale e quindi spirituale, appaiono rigide, spesso connotate da falsità, in generale caratterizzate da un nichilismo destinale che abdica a qualsiasi cambiamento in positivo, cioè emancipativo del vivere collettivo.

    L’essere umano è sempre il prodotto di un passato che nella memoria orienta al futuro. A livello esistenziale la salute psichica non può essere data senza orientamento al futuro.

    Psicologi e sociologi oggi sembrano convergere nella riflessione che la causa principale del disagio giovanile risieda nel fatto che in una società strutturalmente resa precaria, la visione del futuro evapora.

    Il problema però è anche degli stessi scienziati sociali, i quali spesso non si rendono conto che intervengono sul disagio non per stimolare pensiero critico alternativo, ma per adattare il disagio al sistema egemone tecno-economicistico. Si vuole insomma un individuo funzionario, non un individuo libero e cosciente. È questa la morte dell’anima. I problemi economici non sono solo economici, hanno nel sottofondo visioni antropologiche, così come i problemi politici non sono solo politici, ma hanno nel sottofondo idee e valori morali. La cultura globale del cosiddetto pensiero unico nega, reprime queste istanze vitali per la vita associata.

    I drammi e le crisi che questa riflessione porta alla luce sono delle vere e proprie richieste di nuova spiritualità che il nostro tempo ci comunica in mille maniere, ed in varie dimensioni della vita individuale e collettiva.

    Un pensiero critico e creativo di nuove possibilità è in se stesso un esercizio spirituale, l’unica speranza contro la morte dell’anima che il pensiero unico tecno-economicistico ci vuole imporre. Ma sarà sempre un esercizio per così dire a metà, se relegato al solo privato individualistico. È il collettivo, la relazionalità, il grande represso dei nostri tempi.

    In ciò sta la percezione diffusa, anche se spesso difficile da tematizzare, del bisogno di una nuova spiritualità.

    I

    LE ILLUSIONI DELL’OCCIDENTE

    Nel burrascoso e difficile tempo storico che ci è toccato vivere ci colpisce un numero vorticoso di eventi ai quali la nostra sensibilità reagisce in varie maniere, sia individualmente che collettivamente. In primo luogo quando mi riferisco alla nostra sensibilità intendo dire la nostra sensibilità di esseri umani che vivono in occidente, in una cultura decisamente materialistica ed economicistica per molti versi superficiale. Ho appena parlato di dimensione immediata ma anche più superficiale, perché sale alla mente il sospetto che quando parliamo di economia, in realtà, in molti casi, ci riferiamo ad una forma di conoscenza ritenuta tout court scientifica, e quando in occidente si dice scientifico con questo termine ci si riferisce ad un sapere incontrovertibile. Tanto che facilmente l’economia si trasforma in ideologia, o peggio ancora in una sorta di teologia assolutistica che ha i caratteri di un nuovo dogmatismo che possiamo benissimo chiamare pensiero unico. Il cosiddetto neoliberismo economico imperante del nostro tempo è l’espressione evidente di un’inedita forma di positivismo. È sufficiente fare un viaggio in oriente per constatare come la cultura dominante occidentale si è impiantata poderosamente in quella parte del mondo.

    Una delle grandi illusioni dell’occidente è quello che potremmo chiamare la sua volontà di potenza, che in definitiva è il risultato di una percezione basata sull’etnocentrismo.

    L’occidente è malato di etnocentrismo e la conseguente volontà di dominio che incorpora in sé è una grande illusione per la quale si cominciano globalmente a vederne gli sfaceli e a pagarne il prezzo, non solo in termini di deterioramento degli equilibri ecologici, ma anche dal punto di vista della qualità di vita degli esseri umani. La cosiddetta global economy fondata sul principio del profitto per il profitto illimitato è un’ illusione, poiché oggi è chiaramente insostenibile. L’economia non serve più l’essere umano, ma al contrario è l’essere umano che serve l’economia, una delle forme di alienazione più dannose per l’intera umanità.

    Nonostante questo gli economisti, salvo rare eccezioni, continuano a predicare l’ideologia della crescita illimitata che cozza con la finitezza delle risorse naturali del nostro pianeta.

    La cosiddetta crisi economica che sta investendo il mondo intero a partire dal 2007 non è in verità solo una crisi economica ma anche e soprattutto una crisi antropologico-spirituale.

    Da un punto di vista antropologico si osserva lo sfaldamento dei patterns sociali che nel secolo scorso avevano garantito un certo grado di stabilità e coesione sociale, come il Welfare, l’economia del bene comune, la sovranità dello stato in materia di regolazione e intervento sull’economia nazionale nei settori chiave di un paese, il pieno impiego, tanto per fare alcuni esempi. Dal punto di vista spirituale la crisi è ancora più profonda, dal momento che la storia dell’occidente è essenzialmente la storia di un oblio della spiritualità in senso lato, dovuta ai grandi eventi sociali e culturali prodotti dall’illuminismo e dal positivismo.

    La cosiddetta società postmoderna attuale, dominata dalla tecnica e dall’economicismo esasperato ed egemonico, si configura in molti aspetti come una sorta di società fondata in base ad un mito: lo scientismo. È da tenere ben presente che quando si parla di scientismo non stiamo parlando di scienza, ma di una degenerazione di quest’ultima.

    La scienza, quella vera, non ha infatti nulla a che fare con lo scientismo, il quale si configura come una superficiale ma poderosa rappresentazione sociale generalizzata.

    In termini molto generali l’atteggiamento scientista crede che tutto ciò che è scientifico sia vero, e vero indiscutibilmente, e soprattutto tutto ciò che rientra nella dimensione dello spirito sia un qualche cosa di obsoleto se non astruso. Lo scientismo è quindi un’opinione diffusa che non si basa più sulla concezione della scienza come organon, ma come un sapere che vede l’applicazione del pensiero strumentale, attraverso la tecnica, in relazione alla categoria di progresso.

    Ovviamente il concetto di progresso porta con sé nella realtà un contenuto paradossale, poiché ad un evidente progresso tecnologico si contrappongono i vari problemi che sorgono dall’utilizzo scriteriato della tecnologia stessa.

    Nello scorso secolo Heidegger aveva messo in guardia sulle conseguenze e sul significato della tecnica nel mondo occidentale. L’unico scopo della tecnica è quello di potenziare infinitamente se stessa, ed i problemi etici che ne conseguono sono totalmente al di fuori dell’operare tecnico. La tecnica viene dunque a costituire una dimensione che invade e domina tutti gli aspetti della vita. In altre parole, la tecnica è l’attuale chiara espressione di quello che Nietzsche chiamava volontà di potenza. Scienza e tecnica tendono ad una volontà di potenza dove il mondo viene rappresentato in teoremi, leggi, esperimenti e applicazioni tecniche, ma con ciò si perde quello che Heidegger chiamava l’impensato da pensare, ossia l’essere. Infatti la scienza ordina le sue rappresentazioni solo nel senso degli enti. Scrive Heidegger:

    Ma che strano, proprio nell’assicurarsi di ciò che gli è più proprio, l’uomo di scienza parla, esplicitamente o meno, di qualcosa d’altro. Egli vuole ricercare l’ente soltanto, e del resto niente; l’ente soltanto, e oltre questo niente; unicamente l’ente, e al di là di questo niente.{1}

    Scienza e tecnica dunque ordinano l’esistente, lo spazio degli enti, ma così facendo obliano la differenza ontologica tra essere ed ente. In questo scenario si perdono progressivamente tutte quelle prerogative spirituali che il pensiero dei greci delle origini aveva compreso come base della civiltà occidentale. La secolarizzazione è un evento che si sviluppa progressivamente a partire dal seicento, fino ad arrivare ai giorni nostri dove i concetti di anima e di spirito sono completamente eliminati dalla significazione della nostra vita. Tutto ciò è evidente dallo sviluppo delle neuroscienze, che trattano la coscienza come prodotto del cervello, ossia come mero risultato della rete neuronale attraverso combinazioni biochimiche.

    Se il linguaggio tecnico-scientifico è evidentemente l’essenza dell’occidente, si capisce chiaramente come parole quali spirito e anima, un tempo dense di significato, abbiano progressivamente perso la loro presa sulla vita quotidiana. La religione cristiana che usa naturalmente queste parole, ha cessato di essere un punto di riferimento per molte persone. Tutte le religioni, non solo quella cristiana, sono in uno stato di crisi d’identità in tutto il mondo, vuoi per l’egemonia del discorso tecnico scientifico, vuoi perché nel passato e anche nel presente la dimensione religiosa ha creato violenza e contraddizioni, creando veri e propri disastri, sia nella dimensione collettiva che in quella individuale. Mi occuperò più avanti della dimensione religiosa. Per il momento è sufficiente mettere in chiaro

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