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I quattromila e gli ottocento
I quattromila e gli ottocento
I quattromila e gli ottocento
E-book98 pagine2 ore

I quattromila e gli ottocento

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Fantascienza - romanzo breve (73 pagine) - Da Greg Egan, autore di Oceanic e vincitore del Premio Hugo, un thriller spaziale che affronta temi attualissimi.


Camille è chiusa nel suo bozzolo. Una bara metallica poco più grande del suo stesso corpo, ancorata a una roccia che viaggia nello spazio in direzione di Cerere. È il modo in cui i rappresentanti dell'organizzazione chiamata Giusta Parte hanno dovuto scegliere per fuggire dalla loro casa, da Vesta, dopo che le cose si sono messe al peggio. Qualcuno ce l'ha fatta. Altri sono ancora in viaggio, e i loro nemici sono decisi a impedirgli di arrivare in salvo. Gli abitanti di Cerere si vantano della loro democrazia e della loro libertà, ma sono davvero al riparo dal pericolo che anche da loro possa accadere ciò che è accaduto su Vesta?


Greg Egan è uno dei più autorevoli scrittori di fantascienza hard. Le sue opere, uniche e inconfondibili, sono spesso basate su teorie scientifiche d'avanguardia. Nato a Perth, in Australia, nel 1961, laureato in matematica, ha vinto il Premio Hugo e il Premio Locus con il romanzo breve Oceanic (1999, Delos Books) e il John Campbell Memorial con Permutation City (1995). Diversi altri suoi racconti sono arrivati in finale al premio Hugo, incluso Alone (Glory, 2007), uscito sulla collana Robotica di Delos Digital. Egan è una delle personalità più sfuggenti della storia della fantascienza: non ha mai partecipato a una premiazione o a una convention, e di lui non esistono fotografie.

Tra i suoi romanzi più famosi, oltre al già citato Permutation City (Shake),   ricordiamo  La terra moltiplicata (Nord), Diaspora (Urania), Distress (Urania), La scala di Schild (Urania). Notevoli anche le antologie Axiomatic e Luminous, entrambe uscite su Urania.

LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2021
ISBN9788825415902
I quattromila e gli ottocento

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    Anteprima del libro

    I quattromila e gli ottocento - Greg Egan

    1

    Camille sbirciò al di fuori del suo bozzolo nel nero cosparso di stelle, aspettando che il momento di terrore venisse a lasciarle un minimo di pace. Ogni minuto che passava da sveglia serviva solo a sprecare risorse e ad aumentare il rischio che il suo segnale termico venisse rilevato, ma non osava iniziare l’ibernazione finché non avesse saputo per certo di essere assicurata alla struttura abbastanza bene da sopravvivere ad almeno una collisione. Se uno scossone l’avesse staccata già al primissimo impatto (ancora sveglia, con Vesta ancora visibile), forse avrebbe avuto una possibilità di raggiungere casa. In qualunque momento successivo, sarebbe stato fatale.

    Il bozzolo era più ampio della sua tuta solo di pochi centimetri in qualunque direzione, e le sue spesse pareti acriliche guastavano la limpida trasparenza della sua piastra facciale, lasciandole una visione opaca e distorta. Cinghie elastiche le impedivano di sbatacchiare nel suo sarcofago di plastica, ma, dal momento che era incollato esattamente sull’asse di rotazione della lastra di basalto da dieci metri (la cui rotazione intorno ad esso era così solenne che la mente di lei si perdeva ogni volta che cercava di seguire la rivoluzione delle stelle), l’agitarsi di lei prevaleva di gran lunga su qualunque forza centrifuga. Aveva smesso di reagire a ogni esasperante prurito, ma, tenendo le gambe troppo ferme, aveva paura di ritrovarsi con un doloroso crampo: non aveva lo spazio per affrontarlo.

    Voltò la testa a sinistra e forzò il corpo a destra contro la trazione delle cinghie, finché riuscì a vedere appena parte di Vesta sotto di sé, una mezzaluna sghemba quasi bisecata dall’orizzonte della lastra. Quanti altri dei suoi amici sarebbero morti, prima che rivedesse questo mondo? Sporse le labbra e si soffiò sul viso per smuovere le lacrime.

    Il collo cominciò a dolerle, perciò lo torse nella direzione opposta perché i muscoli potessero riprendersi. Alla sua destra, il profilo di un pannello solare intagliava nelle stelle una nera ellisse. Camille colse un lampo contro questo sfondo scuro, probabilmente luce solare riflessa da un’altra lastra viaggiante, ma non riusciva a distinguere se fosse in importazione o in esportazione; le stesse bianche guaine polimeriche coprivano roccia vestana e ghiaccio cererino. Ciascuno dei due mondi aveva rispettivamente troppo dell’una e troppo poco dell’altro, così che da generazioni continuavano a scambiare tonnellata con tonnellata, trasformando in ricchezza gli scarti dell’altro. Tranne che ora lei stava guastando la simmetria, chiedendo un passaggio sul fiume di pietra, un articolo di esportazione che nessuno aveva ordinato o autorizzato.

    Una vertigine la afferrò, poi andò svanendo, lasciandole lo stomaco contratto e un tintinnio nelle orecchie. Voltò lo sguardo verso Vesta e vide il suo mondo d’origine scorrere serenamente lungo l’orlo della lastra. La collisione che aveva temuto se n’era andata come era venuta, resa così morbida dal rimbalzo delle guaine che lo scontro dei due macigni non le aveva inflitto uno scossone più forte che un servizio di squash ricambiato con grinta. Ma per quanto delicato fosse sembrato l’incontro, la roccia che lei stava cavalcando era stata colpita frontalmente da un blocco di ghiaccio di uguale massa, e come i pezzi in un pendolo di Newton cosmico i due non avevano avuto altra scelta che scambiarsi le loro quantità di moto: il ghiaccio ora prendeva il posto che era stato di lei nell’orbita di parcheggio, mentre lei, molto lentamente, si era avviata verso Cerere.

    Camille riuscì a emettere un singhiozzo di sollievo. Le collisioni a venire sarebbero state con rocce ausiliarie, che traghettavano quantità di moto dal sempre più distante fiume di ghiaccio, ma gli effetti non sarebbero stati più bruschi. Il lavoro delle mani di Gustave aveva passato la prova.

    Ogni respiro era un lusso adesso. Camille parlò al controllore del bozzolo e gli disse di avviare la sua attività.

    Si rilassò e lasciò che le cinghie le allontanassero le membra dalla parete superiore, che improvvisamente diventò opaca e la tuffò nell’oscurità. Il vuoto tra la sua tuta e questo carapace avrebbe permesso alla superficie esterna di esso di raffreddarsi ben al di sotto della temperatura di ibernazione, mentre la roccia dietro la sua schiena era abbastanza massiccia da assorbire il rivolo di calore corporeo lasciandolo trasparire appena.

    Quando il rubinetto intravenoso nel suo gomito si aprì, l’efflusso fu quasi impercettibile; la scossa venne quando lo stesso fluido le fu restituito, raffreddato. Cinque gradi centigradi non le erano suonati preoccupanti quando aveva adattato la pompa; senza cristalli di ghiaccio a sfondarle le pareti cellulari, la miscela di farmaci non aveva nemmeno bisogno di antigelo. Ma la sua carne tremante non capiva i pro e contro biomedici: sentiva solo di aver subìto una ferita così acuta e profonda che metteva fine a ogni distinzione tra l’interno del suo corpo e il mondo oltre, permettendo a questa alluvione di acqua gelata di inghiottirla dall’interno.

    – Resta al sicuro – mormorò. Le parole di sua madre a lei, le sue a sua madre. Camille le ripeté finché le sue labbra non furono divenute insensibili. Cinque anni prima, aveva curato un giovane passeggero clandestino la cui tuta era stata lacerata per tutta la lunghezza di un braccio: le rocce sulla superficie di Vesta avevano toccato la sua pelle nuda e fatto diventare la sua carne necrotica per il freddo. Ed ora eccola qui, inchiodata a un dissipatore di calore più che sufficiente a risucchiare da lei ogni traccia di calore di vita senza lasciare altro che una sacca di sorbetto nero-purpureo. Aveva controllato lei la stessa la pompa e i farmaci, ma quel che le scorreva nelle vene non avrebbe avuto importanza se il termostato del bozzolo fosse impazzito e lei fosse precipitata fino alla temperatura ambiente.

    Gustave le aveva promesso che sarebbe stata euforica mentre la coscienza scivolava via, ma le avrebbe detto qualunque cosa per impedirle di tirarsi indietro. Quel che finalmente smorzò il suo panico fu semplicemente un affievolirsi dei sensi, un’assenza di segnali dal suo corpo molto simile all’avvento di un normale sonno.

    Mentre l’oscurità dietro i suoi occhi si faceva più profonda, Camille guardò come da una grande altezza e si immaginò il viaggio che la aspettava: la lenta spirale che si allargava verso Cerere, i cento delicati colpetti, i mille giorni che scivolavano via nel silenzio. La paura se n’era andata; ora non sentiva altro che afflizione e vergogna. La sua fuga era un fait accompli, ma la lotta sarebbe proseguita senza di lei.

    2

    – Abbiamo un passeggero – dichiarò l’Assistente di Anna.

    – Fammi vedere. – Anna accettò la sovrimpressione e fissò l’immagine a infrarossi della guaina del

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