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Info su questo ebook
Erminia Tropea Mayer è laureata in Lettere e Filosofia con indirizzo artistico all’Università di Genova. Diplomata all’Accademia Ligustica di Belle Arti a Genova è stata insegnante di discipline umanistiche a vari livelli in Germania e in Svizzera. Autrice di varie pubblicazioni a carattere storico-artistico, è regista della “Compagnia Teatrale del Libro Aperto”. Vive tra la Svizzera nel Canton San Gallo e l’Italia a Mattarana-Carrodano (sp).
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Anteprima del libro
Guardami! - Erminia Tropea Mayer
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di o per un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
parte i
Capitolo 1
Oggi Cartagine è un elegante sobborgo di Tunisi a 16 chilometri circa dalla capitale. Del porto circolare da guerra che Annibale aveva voluto non rimane nulla. Ricordo un mucchio di sassi e ruderi abbandonati, sommersi e lasciati a nudo dall’alta e dalla bassa marea, incrostati di licheni e alghe, sfregiati da brutte cicatrici lasciate dai secoli.
La mitica città fondata da Didone, dopo l’assedio dell’anno 149 nel 146 fu flagellata dalla peste, svilita cadde in disgrazia, venne rasa al suolo e data alle fiamme. Sulle sue ceneri e rovine i vincitori sparsero sale per renderla sterile in ogni senso, portarono via 50.000 prigionieri ormai schiavi.
La famiglia di Perpetua nel 181 viveva a Thuburbo Minos a 36 miglia da Cartagine.
La bambina cresceva non lontano dalla casba, un insieme di catapecchie ammucchiate, con usci sgangherati e finestrelle arrangiate, aperte su muri nati su altri muri che a loro volta sostenevano altri muri carichi di storia. Abitava in una bella casa intonacata di bianco, la classica domus romana con muri perimetrali che trattenevano il fresco d’estate e sprigionavano tepore d’inverno. In mezzo all’atrio c’era un pozzo come una giara obesa, il secchio era agganciato ad una grossa catena che scorreva stridendo in una carrucola arrugginita. Sulla bocca del pozzo una lastra di pietra impediva agli insetti e ai ramarri di cadere nell’acqua gelida e limpida.
Solo la maestosa pianta di gelsomino lasciava scivolare sul collo della cisterna le corolle dei fiori profumatissimi, il vento del mattino li faceva roteare prima di farli approdare come un tappeto sul selciato. Sono belli i fiori del gelsomino africano, a cinque petali, di un biancore accecante, con un piccolo cuore che sprigiona un’intensa scia di profumo misto tra cannella e vaniglia durante la notte, aspro di muschio e zagara durante le ore calde del giorno. Perpetua amava questi fiori dalla bellezza ambigua, ne raccoglieva una manciata li capovolgeva nel palmo magro e asciutto della mano e ne osservava il retro che non era bianco ma violaceo e livido. La mano fremeva, che sgradevole sensazione, le corolle avevano una doppia faccia, il candore del fiore si trasformava nella gelida consapevolezza della morte. Allargava le dita e li lasciava cadere, li abbandonava alla loro agonia nella polvere schiacciandoli con i sandali, voleva cancellarli.
Era un pomeriggio come tanti, pesante e silenzioso, non c’era un filo d’aria, il cielo era come la pancia madreperlacea di una conchiglia. La bambina alzava gli occhi e osservava il quadrato di luce che inondava il patio. La casa era a due piani, tende di grossa fibra riparavano le finestre, dalle tegole del tetto scendevano lunghi e contorti rami fioriti.
Lei amava questa vegetazione la sola che conosceva, il rampicante aranciato e amaranto spruzzato di verde la faceva gioire, un miracolo assaporare il colore con gli occhi e il cuore. Quanta armonia offriva la natura, figlia di una forza divina che bisognava imparare ad apprezzare e capire.
Perpetua era viva, desiderosa di avventurarsi nel labirinto della vita, l’entusiasmo fragile e curioso della sua età la eccitava. Distrattamente si inoltrava tra i vicoli, accarezzava languidi gatti che scivolavano silenziosi lungo i muri. Che silenzio... non c’era anima viva, abbassava lo sguardo e osservava una processione di formiche che sbucava da una fessura apertasi tra il fango secco della strada sterrata, si allineavano meticolose in una processione senza fine. Non sapeva che fare, si annoiava e allora decideva di seguire le formiche, queste correndo si arrampicavano su uno scalino dall’altra parte c’era un rigagnolo d’acqua, lo seguivano e si disperdevano tra le sterpaglie.
Dopo il deserto il mare
Con le braccia incrociate dietro la schiena lasciava che la lunga treccia di capelli le ballonzolasse tra le scapole e si avviava verso il mare. Il sole era tiepido, alcune mosche verdi ronzavano e roteavano sugli escrementi di un asino che era appena passato.
Perpetua sudava, i capelli le scivolavano sulla bella fronte, li scostava con il dorso della mano facendo tintinnare una serie di braccialetti d’argento e perline che le adornavano il polso: unico suono in un pomeriggio senza tempo.
Non c’era nessuno tra i vicoli e la spiaggia, solo delle ceste abbandonate invase dalla sabbia, c’era stato il mercato, tutti avevano barattato ciò che potevano: olive, spezie, arance, datteri lucenti, dolci di mandorle e miele brulicanti di vespe, pesci azzurrognoli che boccheggiavano nelle ceste tra le alghe, montagne di uova, e poi tante balle di lana e bellissimi tappeti. I vasai con anfore e brocche gridavano invogliando la gente a comperarle o scambiarle con qualsiasi cosa, un vasellame tanto bello ma molto fragile non bisognava riportarlo nei magazzini durante il trasporto poteva andar rotto. Il deserto annunciava il Ghibli, il cielo strinato di rosso e viola era un brutto presagio, una sabbia finissima si alzava sulle dune e come cipria velava ogni cosa. Nessuno amava questo vento che per lunghe settimane flagellava il deserto cambiandogli i connotati rendendolo capriccioso e incostante; la gente di umore pessimo era scappata portandosi dietro i propri beni, era ritornata alle case e alle tende. I cammelli, con le gobbe cariche di ceste, erano stati pilotati tra le oasi, avevano già avvertito l’avvicinarsi della tempesta... Erano molto nervosi, strizzavano gli occhi contornati da ciglia di stoppa, per evitare che la sabbia potesse accecarli i cammellieri gli avevano bendato gli occhi per proteggerli, si nutrivano come ciechi di cespugli duri e spinosi.
La bambina aveva scordato la processione delle formiche, la curiosità la portava a svoltare l’angolo e a scivolare lungo il muretto di un orto, dove la strada si allargava leggermente in discesa e correndo andava incontro al Mediterraneo.
La bambina aveva scordato la processione delle formiche, la curiosità la portava a svoltare l’angolo e a scivolare lungo il muretto di un orto, dove la strada si allargava leggermente in discesa, correndo andava incontro al Mediterraneo.
"Il mare!... Cosa c’è di più bello del mare? m come Mamma, a come Amore, r come Rosa, e come Eternità".
Sapeva che la tempesta sarebbe arrivata non prima del tramonto, non aveva paura, era sola sulla sabbia, le braccia le scivolavano lungo i fianchi, le gambe leggermente divaricate, i lunghi piedi sgraziati affondati nella calda farina dorata la lasciavano incantata, in questa meravigliosa solitudine.
La spiaggia era deserta, Perpetua si lasciava cadere mollemente su una duna che due giorni prima non c’era. Che stravagante il vento! Muta la fisionomia alla costa senza indugio con leggerezza e nessun rispetto; il profilo della costa era gonfio e ondulato, pieno di bitorzoli e fosse scavate dalla furia del Ghibli, pochi giorni prima era una linea sottile e dorata che lo sciabordio del mare lambiva dolcemente rifinendone il profilo. Questo pensava Perpetua girando lo sguardo a destra, dove poco lontano si distingueva quello che era stato il porto di Annibale.
Il bell’Annibale, l’africano detto Barak, (fulmine), i fratelli dicevano che era stato audace e sfrontato, un condottiero senza paura, una mente analitica, fredda, pianificatrice. Giovane temerario e privo di limiti sfidava gli uomini, il destino e gli dèi. Nessuna cosa poteva fermarlo tanto meno i Romani arroganti e presuntuosi, cialtroni e grassi, con la pelle bianca e untuosa, con le teste rasate o troppo arricciate; questi lottando a fatica alla fine avevano potuto piegare il figlio di Amilcare, Barak. A Zama nell’anno 202 a.c. fu sconfitto il suo eroe. Tra le lacrime che gli rigavano il volto scolpito nel granito, gli occhi dilatati dall’orrore, le mani sanguinanti avvinghiate all’elsa della daga, le nocche delle dita sbiancate per lo sforzo, i polsi esili stretti dai bracciali d’oro, le braccia deformate dallo spasimo... spezzavano il condottiero. L’uomo disonorato che c’era in lui si rinnegò fuggendo, si era arreso a quel popolo che aveva sottovalutato e che chiamavano il mare "nostrum".
Scrollando il capo Perpetua parlava da sola ad alta voce:
"Eh!... povero Annibale! tanto bello, atletico e valoroso, in te la genialità non era altro che saper organizzare la tua follia, come eri stato sfortunato! Costretto all’esilio, scappasti in Siria dove ti rifugiasti alla corte del debole re Antioco iii, ma non riuscisti a sopportare il disonore della sconfitta, ti uccidesti con il veleno che da troppo tempo nascondevi in quell’anello dal quale non ti separavi mai, ti rendeva ancora forte perché ti avrebbe salvato dal disonore del vinto, il sangue ti bruciava nelle vene, nessuno avrebbe potuto e dovuto catturarti. Avevi sessantatré anni... eri un vecchio deluso!
Su questo lido altri eroi avevano calpestato con i nobili piedi la sabbia, il biondo Enea con il volto illuminato dagli occhi chiari, le labbra serrate e le narici frementi, si era slanciato per desiderio e passione verso Didone perché così avevano voluto gli dèi; ma in cuor suo pensava solo di salvare il padre e il figlio, aveva già perduto la moglie e tanti soldati morti in battaglia. Aveva preferito abbandonare Troia in fiamme a Cartagine stringeva al cuore ciò che gli restava, confortato dal fedele Acate. Anchise desiderava morire, mentre Ascanio bambino voleva la vita... come me, perché i bambini dovrebbero pensare alla morte!".
Perpetua facendo spallucce alzava la testa, si slacciava il corsetto che le bloccava la tonachella: "Se io fossi stata Didone, alta e flessuosa, dalle membra bianche come l’avorio, con i morbidi capelli ramati che le sfioravano i fianchi con le delicate mani ingioiellate, con i languidi occhi grigi e il profilo da cammeo sarei stata felice? No!... non credo!
La regina cartaginese muore di dolore e d’amore, perché Enea avvisato da Mercurio non poteva trasgredire gli ordini di Giove, dopo il terribile ultimo incontro abbandonava la regina che si uccideva con la spada dell’amante tanto obbediente e sottomesso agli dèi.
Io voglio vivere, non voglio morire sacrificata per un amore impossibile, voglio diventare vecchia, voglio veder crescere i miei figli... cullare i loro figli. È un mio diritto, è per questo che sono nata, sono viva ed ho il domani davanti a me... come questo mare azzurro che palpita come il mio piccolo cuore che batte".
Si accarezzava il petto e con le dita tastava lo sterno cercava un battito ma non lo trovava.
Non c’è l’eco della vita in me... peccato! Sono già morta?
diceva sconfortata ma non spaventata.
Sbadigliava e osservava l’abbagliante distesa d’acqua che si cullava pigra e lenta lambendo la sabbia. Accovacciata con le ginocchia che le sostenevano il mento sembrava una piccola bertuccia, il suo orizzonte era bassissimo, il sole che si scioglieva nell’acqua lo rendeva ancor più lontano, evanescente.
Come sei bello, come ti amo, il mio amore è un sentimento infinito e profondo come te, mare! Ma a chi dare tanto amore, che corrisponde a tanta acqua limpida, trasparente e maledettamente salata che nemmeno quei bestioni insipidi dei cammelli la bevono? Quindi il mio amore non vale nulla, è solo sale
.
Si alzava seccata e delusa, strascicando i piedi si avvicinava alle onde inesistenti, solo una tremula increspatura sul pelo dell’acqua rosata, il fondo trasparente era un prato di sassolini che si muovevano leggermente sotto il lieve solletico che la corrente provocava sulla loro pelle di pietra; a pochi passi dalla riva il fondale cambiava colore, verdolino, poi verde