Le parole dell'economia: Viaggio etimologico nel lessico economico.
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Le parole appartengono principalmente
alla storia, sono il senso stesso della storia, giacché assommano in sé,
cioè nel proprio processo di significazione,
gli eventi essenziali che hanno caratterizzato la vita dei popoli.
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Anteprima del libro
Le parole dell'economia - Francesco Mercadante
Introduzione
Scene d’apertura
Israele è il gregge di Dio (Ez 34, 8 e ss.); Dio ne è il pastore. Yeshùa Christòs si configura come il buon pastore: Io sono il buon pastore
(Gv 10, 11). Queste affermazioni sembrano appartenere alla semplice tradizione religiosa o, diversamente, ma non troppo, a una qualche allegoria omiletico-domenicale; di conseguenza, se poste nell’esordio di un libro sulla lingua dell’economia, generano per lo meno il dubbio o, addirittura, l’equivoco. In realtà, la metafora del regno animale adottata dai redattori testamentari è la prima e, forse, la più solida espressione di ricchezza della storia: quanto più alto era il numero delle pecore possedute, tanto più agiato, potente e rispettato era il possessore. Dunque, il narratore biblico si mostra molto acuto e massimamente abile nell’associare Dio e Cristo col pastore. Nella profondità etimologica d’una parola, che noi, ormai, utilizziamo per lo più con intonazione scherzosa o letteraria, ben oltre il presupposto figurativo, possiamo trovare una sintesi esemplare di ciò che abbiamo appena ricostruito, tentando faticosamente di ridurre migliaia di anni in poche righe: si tratta di pecunia, che deriva dal latino pĕcus e significa bestiame. Per alcuni può risultare sorprendente, per altri incongruente, ma ogni parte del nostro discorso rivela una storia, reca in sé le trame etnoantropologiche di coloro che ci hanno preceduti e ci rende protagonisti d’una narrazione ininterrotta. Pecunia e pecora sono gli esempi di questo arcaico e archetipico codice di comunione: entrambe si originano da pĕcus, cosicché, se ne facciamo uso con una certa consapevolezza, siamo in grado di scoprire da dove proviene il nostro rapporto col denaro.
Chi più, chi meno, quasi tutti abbiamo sentito dire qualche volta pecunia non olet
, che si traduce con il denaro non ha odore
. Ebbene? Vespasiano, rimproverato dal figlio Tito per aver messo una tassa sulla raccolta dell’urina, gli fece odorare il denaro per dimostrargli, per l’appunto, che il denaro non ha odore, quale che fosse la sua provenienza. Nel recitare la sentenza latina, noi non facciamo altro che riprodurre, anche implicitamente, un evento linguistico di circa duemila anni fa, il più delle volte senza accorgercene.
Insomma, il dire, anche in economia, è un raccontare qualcosa. In altri termini e con una semplificazione emotiva: anche l’economia ha un’anima.
Se consultiamo in modo superficiale un dizionario della lingua italiana a proposito di fisco ed erario, ci rendiamo conto che entrambi i termini riguardano l’attività finanziaria dello Stato, quasi fossero due sinonimi, e potremmo essere indotti a dedurne una certa povertà lessicale. Sulle prime, di certo, non saremmo disposti ad attribuire a essi un apparato socio-linguistico simile a quello di pecunia. Se così facessimo, commetteremmo un grosso errore. Fisco ed erario, infatti, ci rimandano di colpo al tempo dell’imperatore Augusto (27 a.C. – 14 d.C.), il quale fu promotore di un’opera di riordinamento dello Stato in funzione della quale la cassa pubblica, l’aerārĭum, doveva essere separata da quella dell’imperatore, il fiscus, per l’appunto. Mentre all’aerārĭum, gestito dal senato, erano destinati i ‘tributi’ delle province senatorie, al fiscus pervenivano, invece, quelli delle province imperiali. Fiscus, tuttavia, prima ancora d’essere cassa dell’imperatore, era un cesto di vimini che gli esattori utilizzavano, all’inizio, per la raccolta dei tributi. Andando ancora più indietro, scopriamo che, in origine, era un canestro usato in agricoltura; il che ci fa comprendere il modo in cui s’è evoluto il significato, prima di giungere a noi.
Nel mondo dell’agricoltura, cui abbiamo fatto un rapidissimo cenno, va rintracciata proprio l’origine di tasse e tributi. In sostanza, non possiamo fare a meno di documentare e, nello stesso tempo, esaltare una sorta d’imprevista e sicuramente evocativa concatenazione di sensi e significati che, a mano a mano che procediamo lungo questo cammino, si disegna innanzi a noi. L’economia si ripropone attraverso la semantica dell’unione. Nel V millennio a.C., Sumeri ed Egizi diedero prova del proprio talento ingegneristico, misurandosi, rispettivamente, con le inondazioni di Tigri ed Eufrate e Nilo. Sappiamo bene che furono abilissimi nel costruire le prime opere idrauliche per gestire la potenza della natura. È meno noto, invece, il processo col quale fecero accettare ai contribuenti un certo esborso. Essi, in pratica, molto presto, furono costretti a scegliere, in prima istanza, un villaggio guida e, successivamente, a designare funzionari e tecnici che fossero in grado di occuparsi a tempo pieno dei ‘fiumi’. La designazione comportò, ovviamente, il loro mantenimento, cui si sarebbe potuto far fronte proprio versando un tributo. Si passò, quindi, da un’esigenza tecnico-specialistica a un’evidenza sociale: la suddivisione in classi, che non tutti accettarono di buon grado. Occorreva giustificare in modo sostanzioso il nuovo corso socio-economico. La soluzione fu trovata nell’ambito religioso: sulla terrazza del magazzino principale fu fatto costruire un tempio, dedicato alla più importante tra le divinità, e si comunicò che i tributi erano destinati al dio di riferimento. Divenendo sacri, furono considerati incontestabili.
L’espediente delle società arcaiche può apparire risibile, è vero, ma, nella storia, si sono avute tasse d’ogni genere e specie, alcune davvero inaccettabili e fastidiose: in epoca fascista, per esempio, i celibi erano costretti a pagare un tributo che variava da 70 a 100 lire, sulla base di età e reddito; in precedenza, non erano mancate le tasse sul taglio dell’erba o sull’abbeveraggio degli animali. Il sostantivo tassa proviene dal latino medievale taxa. L’italiano, in quanto lingua romanza, ha tratto la forma che conosciamo. La forma classica, invece, è taxāre, che nasce dal greco τάσσειν (tàsso): ordinare, disporre, collocare, valutare, stimare, calcolare, determinare, ma anche toccare spesso o ripetutamente.
È evidente che non si può pretendere che ogni giornalista che si occupi di economia si metta a studiare greco e latino, per carità. Sarebbe una follia indicibile. Tuttavia, lo si accetti o meno, noi siamo eredi del patrimonio linguistico della famiglia indoeuropea e parliamo una lingua romanza, pertanto quella consapevolezza che abbiamo posto a fondamento d’un ‘consumo’ responsabile della lingua dell’economia può ottenersi unicamente attraverso l’esplorazione delle lingue originarie: almeno questo, se non altro.
Non è un caso, pertanto, che, molto di frequente, l’ufficio del commentatore o del cronista, pur non svolgendosi in malafede, sfoci in clamorosi spropositi, trasformando le lucciole in lanterne. In questo contributo introduttivo, proveremo a dare degli spunti di superficie, delle suggestioni, mettendo in scena alcuni bizzarri e divertenti lògoi; nel corso del libro, invece, tratteremo, con perizia sistemica, le principali voci dell’economia, esaminando il loro etimo e il modo in cui sono state acquisite dai parlanti.
Qui, prima di allestire la scena promessa, vogliamo richiamare l’attenzione del lettore sul termine crisi, che, purtroppo, gode d’immensa fortuna linguistica, ma che, nello stesso tempo, è oggetto di gravi fraintendimenti. Il sostantivo greco kρίσις (krìsis), da cui si origina il nostro termine, deriva da κρίνειν (krìnein), il cui principale significato è quello di separare, tanto da essere connesso con la trebbiatura. L’attività in questione consisteva nel separare la granella del frumento dalla paglia e dalla pula. Successivamente, si è passati, per traslazione, al significato di scegliere. La sua accezione negativa, invece, potrebbe essere legata proprio alla natura della separazione e del taglio, all’ipotesi di dover rinunciare a qualcosa.
A ogni modo, ci siamo abituati a bollare come crisi qualsiasi periodo difficile, tanto da scambiare spesso crisi con recessione e viceversa. Non sono la stessa cosa. Basterebbe consultare con un po’ di diligenza un buon vocabolario per sapere che una crisi si materializza solo in brusco passaggio di stato dalla prosperità alla depressione. Ciò che ne deriva non è più crisi: calo dell’occupazione, eccesso di offerta, conseguente difficile allocazione delle risorse e inevitabile riduzione dei consumi, tassi svantaggiosi con cui uno Stato colloca i propri titoli et similia ne sono le caratteristiche. Dopo un certo periodo di crisi, si va in recessione. In particolare, come preciseremo più oltre, nel capitolo di pertinenza, quando, per due trimestri consecutivi, si registra una variazione congiunturale negativa del Prodotto Interno Lordo, cioè una riduzione del valore di beni e servizi, allora si può parlare di recessione.
L’economia, più di qualsiasi altra disciplina, purtroppo, è afflitta dal male della mediazione. In altri termini, essa raggiunge il vasto pubblico principalmente attraverso l’opera di sintesi fatta dai giornalisti; i quali, pur volendo agire in buona fede e con scrupolo scientifico, sono costretti a semplificare. Chi è interessato a Dostoevskij, molto probabilmente, legge I fratelli Karamazov o L’idiota; chi vuole sapere che cos’è il Prodotto Interno Lordo, invece, in genere, non apre un libro di macroeconomia, ma va su internet e fa una ricerchina alla bell’e meglio. Ne consegue la commediola cui ormai siamo tutti abituati.
Certamente, non si può revocare in dubbio ciò che ha affermato Tullio De Mauro, in un proprio contributo all’interno dell’opera di Bocciarelli e Ciocca, Scrittori italiani di economia (1994): l’indice di leggibilità dei testi di economia è il più basso tra quelli delle lingue specialistiche e settoriali. Comunemente, d’istinto, si cerca un colpevole, qualcuno che abbia artatamente oscurato la storia e i suoi intrecci, cosicché si additano entità occulte d’ogni genere e specie e si finisce col concentrarsi sul dato, ignorando o dimenticando il processo di formazione. Si badi bene che per formazione s’intende non già il modo in cui la notizia è stata divulgata, ma come s’è generata realmente. La lingua è mobile, viva: ogni sua riduzione a un qualsivoglia meccanismo di causa ed effetto è un vero e proprio verbicidio, sebbene non si possa escludere che qualche autore, di tanto in tanto, si diletti coi garbugli e giochi col mistero. È vero: accusare qualcuno di qualcosa è un atto compensatorio, ‘salva’ parecchie coscienze e, parimenti, fa parte di un rituale antico, quello della messa a morte, dell’eliminazione fisica del ‘diverso’.
Tra la designazione del presunto reo e l’utopia della trasparenza universale s’insinua spesso la voga della rieducazione, ormai sulla bocca di tutti, quasi fosse un mantra di liberazione. Tuttavia, non è sufficiente invocare l’alfabetizzazione finanziaria, che, se promossa sulla base dell’attuale lessicografia, non produrrebbe altro effetto, fuorché quello dell’estensione dei malintesi. Se prendiamo come primo esempio il sostantivo costo
, comprendiamo immediatamente che, per il lettore comune, esso esiste unicamente in associazione con un’immagine e una ‘irrinunciabile’ azione: ho acquistato un chilogrammo di pasta, è costato un euro
. Dunque, segno e predicato sono tangibili. Se invece trasferisco il significante costo
nell’ambito economico-aziendale, il valore del segno diventa simbolico e, soprattutto, la sua tangibilità è rinviata perché costo
è una voce di bilancio, fa parte dell’analisi di gestione e – cosa ancora più importante – della programmazione, del principio di competenza; non può, in definitiva, essere assimilato alla singola spesa di pagamento di un prodotto fatta in un giorno qualsiasi.
Pertanto, nella lingua dell’economia e della finanza, bisogna rilevare, anzitutto, la mancanza di una base pragmatica, almeno rispetto alla lingua della quotidianità. Tale deficit non consentirebbe all’educatore di alfabetizzare facilmente l’utente, tranne che si trovasse un nuovo codice di comunione. La lingua dell’economia e della finanza e il fruitore comune, infatti, in origine, hanno solo un legame d’assenza e, talora, un riscontro fonosimbolico. L’eventuale percorso di alfabetizzazione dovrebbe includere una sorta di ‘lingua di mezzo’ che, prima d’ogni cosa, proteggesse il cittadino dai pericoli che lo circondano.
A tal proposito, proponiamo la lettura di un prezioso frammento tratto da un articolo di Alfredo Gigliobianco, Capo della divisione Storia economica del servizio studi della Banca d’Italia, pubblicato proprio dall’Accademia della Crusca.
Prendiamo l’esempio delle pensioni. Una volta, con il sistema a ripartizione, il trattamento di ciascuno dipendeva più che altro da equilibri politici, e, salvo eccezioni, non era poi fonte di spiacevoli sorprese; oggi, con il sempre più diffuso sistema ad accumulo, ognuno diviene responsabile del proprio piano pensionistico. Anche per questo l’analfabetismo economico è molto pericoloso: chi sbaglia paga
.
La difesa dai pericoli è indubbiamente essenziale, specie se si considera la quantità di minacce disseminate nel web, come fossero mine anti-uomo. Con una banalissima attività di scorrimento su un qualsivoglia social network, si rintracciano agevolmente messaggi come i seguenti:
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In questi casi, come in tanti altri, si utilizzano l’iperbole, la metafora, la metonimia, l’analogia, la litote, l’eufemismo et similia, ovverosia figure dell’ordine e del significato che determinano il totale aggiramento dell’oggetto e della sua tangibilità. In pratica, tra l’esigenza di ‘toccare e vedere’ e quella specialistico-settoriale della conoscenza, s’impone una sorta di prolessi fantasmagorica, un’anticipazione emotiva d’eventi improbabili e con la quale, pure nell’irreale assenza di riscontri empirici, si mira ad ingannare l’utente. Qui, però, è appena il caso di porre fine alla (in-)cultura dominante, in base alla quale il fruitore del messaggio è visto come una vittima sacrificale, giacché ciascuno di noi è libero di documentarsi adeguatamente. Il web, oggi, rappresenta uno dei più grandi equivoci della comunicazione. Si è pensato infatti che avrebbe ridotto le distanze, laddove, probabilmente, le ha dilatate in modo patologico. Come s’è già detto, il lettore cerca la notizia, vuole il dato, ma trascura origine e processo di formazione.
È vero e inconfutabile: l’economia è astrusa, talora ‘cabalistica’, talaltra inesatta, ma la complessità non autorizza alcun interprete ad inventare un codice mediano per semplificare le cose. Spesso, la semplificazione, in economia, è un reato linguistico. Purtroppo, in materia di codice, esiste un problema la cui soluzione non è certamente a portata di mano: si tratta della polisemia complessa nella relazione tra la lingua economico-finanziaria e quella della quotidianità. Che intendiamo per polisemia complessa? Se usiamo la parola cane
, sappiamo facilmente che essa può indicare un animale e, nello stesso tempo, un componente della pistola. Se invece usiamo il termine bolla
, scopriamo che si tratta di una cavità sferoidale piena di gas, mentre, in economia, in genere, pensiamo subito a un aumento considerevole, eccessivo e ingiustificato del valore di un bene o un asset, aumento che potrebbe condurre gl’investitori al collasso. A queste due aree semantiche se ne aggiunge una terza, proveniente dal sentire comune e che associa il termine bolla
con un imprecisato reato, commettendo comunque un errore madornale, dato che le cosiddette bolle speculative, in sé, non presentano alcunché d’illecito. Se poi, all’origine, troviamo la frode, ciò non dipende dal concetto di bolla ed è naturale che qualsiasi evento economico possa essere falsato. Ciò che c’interessa, a questo punto, è il fatto che abbiamo a che fare con una tripartizione semantica e non sappiamo come ridurla a unità per offrire a chi non è addentro alla disciplina una valida mediazione di senso. E inoltre tutti e tre i significati sono scollegati tra di essi. Ci serve, dunque, un quarto significato, quello relazionale, d’insieme.
Quando si fosse risolta tale questione problematica, ci si dovrebbe poi occupare dei prestiti dall’inglese, che impongono un grosso grattacapo: quello interpretativo.
L’aspetto interpretativo può essere esplicitato con un esempio piuttosto semplice. In linguistica, il termine swap può essere considerato un iperonimo, cioè come una parola il cui significato all’interno del discorso è ampio e imprecisato rispetto a un’altra che ne possiede uno specifico e determinato. Nella frase, i pesci sono pericolosi
, non facciamo fatica a rilevare un uso erroneo del sostantivo plurale pesci
(iperonimo), specie se lo valutiamo in relazione alla frase gli squali possono essere pericolosi
, in cui il sostantivo plurale squali
, in quanto iponimo, rivela caratteristiche biologiche e comportamentali precise e note. Di conseguenza, ogni qual volta in cui il blogger di turno si erge a paladino della libertà economica dicendo, per esempio, che gli swap sono la causa del disagio finanziario globale, egli dice tutto e il contrario di tutto, giacché dovrebbe specificarne la tipologia. To swap, in inglese, vuol dire scambiare, pertanto, in modo sbrigativo, potremmo concludere che si tratta di contratti che determinano uno scambio. Considerando tuttavia che il contratto è l’istituto giuridico per eccellenza dei mercati, non si fa fatica a immaginare che un qualsivoglia contratto generi sempre una specie di scambio. Qualcuno aggiunge pure che gli swap sono caratterizzati dallo scambio di flussi di cassa. Anche in questo caso, il campo semantico è generico; la qual cosa non ci consente di comprenderne appieno la fenomenologia. Dunque: o diciamo credit default swap, commodity swap, interest rate swap et similia, specificandone, per l’appunto, la tipologia, oppure restiamo in debito di significati.
Scena 1 – A lungo o più lungo termine
Notazione 1 – La generosità dei progenitori indoeuropei non sempre viene accolta di buon grado; l’inglese, originatosi da quei popoli che si stanziarono ai confini dell’Impero Romano, è una lingua germanica e, in quanto tale, più nobile di quanto s’immagini, eppure il parlante mediano se ne appropria spesso senza riguardo e ne estrae espressioni, locuzioni e sintagmi di copertura, come se fosse necessario farne bella mostra, anche a costo di dire delle castronerie.
Fatta questa notazione, possiamo procedere oltre.
Quaestio 1
Forward Policy Guidance: se volessimo tentare una traduzione che eccellesse per pertinenza e congruenza, molto probabilmente ci imbatteremmo in un nodo gordiano; e – si badi bene! – ciò accadrebbe non perché quest’inglese sia intraducibile, ma perché il suo significato, guida alle politiche d’avanzamento o qualcosa di simile, non è un modo come un altro per servirsi del ‘macrocodice’ economico-finanziario. È invece un’espressione che rappresenta sostanzialmente e concretamente l’attuazione delle politiche monetarie della Banca Centrale Europea. In altri termini, la BCE ricorre alla comunicazione pubblica e, in particolare, al linguaggio, per condizionare con un