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La storia della ricchezza: L'avvento dell'Homo Habens e la scoperta dell'abbondanza
La storia della ricchezza: L'avvento dell'Homo Habens e la scoperta dell'abbondanza
La storia della ricchezza: L'avvento dell'Homo Habens e la scoperta dell'abbondanza
E-book478 pagine6 ore

La storia della ricchezza: L'avvento dell'Homo Habens e la scoperta dell'abbondanza

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Info su questo ebook

La nostra società è ossessionata dai debiti. Tuttavia, la riflessione senza tempo – economica, sociologica, religiosa – su questo aspetto appare monca perché non concentra uguale attenzione alla sua controparte naturale: il credito. Se la storia del debito è la storia della miseria, infatti, il credito racconta la storia della ricchezza. I sentimenti ambivalenti nutriti dall’Occidente per la ricchezza, che alimentano la critica sociale, hanno condotto i poveri sul palcoscenico della storia. Perciò il Debito è diventato protagonista. Ai ricchi è stata riservata un'invidia silenziosa, quando non un’esecrazione, certo non una storia. Per questo si glissa sul Credito. Il libro racconta come dalla società della miseria, dove governavano solo i ricchi, siamo passati alla società della ricchezza, dove governano anche i ricchi, non più da soli. Quindi come la tirannide si sia trasformata nella democrazia. Un'evoluzione sorprendente della nostra società, però non scevra da rischi e pericoli: la crescita disordinata del credito può facilmente generare l’autodistruzione della ricchezza. E quindi diminuire la nostra libertà.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita7 apr 2023
ISBN9788836162895
La storia della ricchezza: L'avvento dell'Homo Habens e la scoperta dell'abbondanza

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    Anteprima del libro

    La storia della ricchezza - Maurizio Sgroi

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    Maurizio Sgroi

    La Storia della ricchezza

    L’avvento dell’Homo Habens e la scoperta dell’abbondanza

    Nel testo troverete molti dati, che necessitano però di alcune avvertenze. Tolta l’epoca più vicina a noi, quindi l’ultimo secolo a essere generosi, la qualità dei dati, specie quando fanno riferimento a grandezze moderne come il prodotto pro capite o la misura della diseguaglianza, peggiora man mano che retrocediamo lungo la linea del tempo.

    Gli studiosi dai quali ho attinto ne sono pienamente consapevoli e lo premettono ampiamente nei loro lavori. Mi sembrava giusto fare lo stesso, visto che, parafrasando Simon Kuznets, l’economista che ha inventato il pil, nessuno dovrebbe pensare «di poter giungere a conclusioni utilizzando dati insoddisfacenti».

    Nel dubbio, per i miei ragionamenti, ho utilizzato i dati con grande parsimonia. Specie per i tempi più antichi le fonti coeve, storiche o letterarie, sono assai più informative di certe statistiche tirate per i capelli, che più di quei tempi, raccontano del nostro.

    Preparativi

    Foreword

    Questo è un libro di storia. Quindi parla del presente, mentre prova a immaginare un futuro.

    Dal presente prende a pretesto un’ossessione: quella per il debito. Da questa ossessione sviluppa un’indagine, che comincia osservando come di rado chi discorra di debito concentri uguale attenzione sulla sua controparte naturale, ossia il credito.

    Verità elementare: non può esistere un debitore senza un creditore. Corollario: un debitore è quasi sempre anche creditore di qualcun altro. Questa verità elementare bisogna leggerla assieme a una verità di fatto: i nostri debiti hanno raggiunto un massimo storico. Quindi lo stesso vale per i crediti.

    Si fatica a comprendere il significato di queste ovvietà, che tuttavia è trasparente: il debito racconta la storia della miseria, così come il credito racconta quella della ricchezza. L’attenzione sui debiti piuttosto che sui crediti è una delle conseguenze dei nostri sentimenti ambivalenti nei confronti della ricchezza, alla quale si riservano desideri in privato e pudori pubblici. Certo non una storia.

    Questo implica un errore di prospettiva. Non riusciamo a vedere che la ricchezza è una delle manifestazioni della rivoluzione che ci ha condotto dal governo di pochi a quello di molti. Anzi: la ricchezza stessa è l’esito di questa rivoluzione. Una rivoluzione permanente.

    L’aumento della ricchezza, infatti, si è accompagnato al graduale passaggio dalla tirannide alla democrazia. Alcune società hanno imparato a governare tramite la ricchezza. Perciò chi governa creando miseria – ossia i tiranni – le trova intollerabili e lavora per impoverirle, pensando così di spezzare la loro libertà.

    L’aumento progressivo della ricchezza, a sua volta, non è esente di rischi. Come la democrazia può degenerare nell’oclocrazia, che è la sua nemesi, così una crescita disordinata può generare l’autodistruzione della ricchezza. E quindi della libertà. Ogni crisi ce lo ricorda.

    Questo libro racconta del passato per ricordare al presente che questo è uno dei rischi che abbiamo di fronte nel futuro. Rischio che aumenta in ragione del rendimento, come insegna la legge aurea della finanza. E perciò elevatissimo oggi, quando la ricchezza, della quale il debito è la controparte, ha raggiunto uno zenit.

    La buona notizia è che siamo ben attrezzati per la sfida.

    L’enigma della ricchezza

    Potremmo cominciare questa racconto ricordando il celebre inizio dell’Apologia della storia di Marc Bloch. Interrogato da uno dei suoi bambini, su cosa fosse la storia, un genitore, storico di professione, si trovò in serio imbarazzo, perché come tutti quelli che studiano troppo aveva smarrito la poesia di una risposta semplice. A Bloch servì un libro, purtroppo mai terminato, per provare a rispondere.

    Adesso immaginiamo che un bambino ponga al padre una domanda meravigliosamente semplice: «Papà, noi siamo ricchi?»

    Il nostro genitore finalmente capisce l’imbarazzo di Bloch. Sa che qualunque risposta a questa domanda suonerebbe falsa. Così, dopo tanto tergiversare, dice: «No, non siamo ricchi. Ma non siamo neanche poveri». Il figlio rimane sconcertato: lo spazio dei suoi pochi anni non può ancora contenere le mezze misure.

    Così il padre si rassegna a dilungarsi un po’ di più. E inizia a scrivere questo libro.

    Che cos’è la ricchezza?

    Domanda non scontata. Il senso comune lo sa d’istinto, ma provate a spiegarlo. Essere ricchi significa avere tutto il denaro che si desidera per fare ciò che si vuole. Ecco: questa probabilmente è la risposta più comune. Chi è ricco ha tutto, chi è povero ha niente: eccone un’altra. Paperone è ricco, Paperino è povero. Tutto chiaro, che c’è da aggiungere?

    Senonché ragionare per assoluti funziona nei fumetti, ma non nella realtà. La realtà è tremendamente complicata. Perché esistono sicuramente i Paperoni, senza contare i tanti Paperini, ma tutti gli altri sono più numerosi. Per questo nel tempo abbiamo dovuto imparare a misurarla, la ricchezza.

    Se ne occupò, fra gli altri, sir William Petty, in pieno XVII secolo, chiamato a ragionare su come misurare il valore di alcuni terreni per fini squisitamente impositivi – le tasse del governo – finendo col contribuire alla nascita dell’aritmetica politica. Si comprese subito che misurare la ricchezza era una cosa terribilmente difficile. E perciò è difficile sapere anche quanto siamo ricchi. O, senza un termine di paragone, addirittura se lo siamo davvero.

    Pensate a quanto varrebbero i fantastiliardi di Paperone se improvvisamente la moneta che li denomina non valesse più nulla. Durante la terribile inflazione del 1923 in Germania erano tutti fantastiliardari. Eppure non riuscivano a comprare il pane. Per fortuna c’è il mattone, direbbe sempre il caro vecchio senso comune. O la terra, meglio ancora. «Vedi la terra dove arriva il tuo occhio», si usava dire in certi romanzi popolari del XIX secolo, «quella è tutta mia». Bene: sei ricco di terra. Ma la terra, a meno di non essere coltivata, non sazia la fame. E se nessuno la lavora, la terra diventa il paradiso dei parassiti. Il mattone non è così diverso.

    Inizia allora a sorgere il sospetto che la ricchezza non abbia a che fare solo con i soldi. E neanche con la terra, il mattone o i gioielli, i cosiddetti beni reali. Per dirla meglio: queste cose sono usualmente simboli della ricchezza. Ma anche questo è vero fino a un certo punto. Alcune società, ad esempio quelle nomadiche, misurano la ricchezza in greggi. Altre – l’antropologia è piena di esempi istruttivi – con altri beni ancora. Che dobbiamo dedurne?

    Proviamo così: la ricchezza ha a che fare con l’abbondanza di alcuni beni ai quali un certo tipo di società assegna un’importanza primaria, perché dotati di potere di liberazione dai bisogni che quella stessa società esprime. Diciamolo meglio: sono tanto più ricco quanto più posso disporre di mezzi per assicurarmi il benessere. Su cosa sia il benessere, però, ne parliamo in un altro libro.

    La definizione di questi mezzi ha a che fare con la struttura istituzionale di una società. Una società di pastori conta le pecore, una società di capitalisti conta i soldi. Noi occidentali siamo capitalisti da alcuni secoli, fra svariati alti e bassi; il resto del mondo più di recente, e forse per questo ha meno soldi di noi. Il che è sicuramente molto spiacevole, ma non è certo un destino. La ricchezza autentica ha sempre margini di miglioramento.

    Oggi la ricchezza è quella che – per rimanere in casa nostra – Bankitalia e Istat misurano ogni anno attingendo ai conti nazionali e alle indagini campionarie (Banca d’Italia, 2022). La ricchezza degli italiani è una serie statistica ormai ultradecennale che dovrebbe appartenere al senso comune, almeno come accade al nostro famigerato debito pubblico, che ci accompagna da quando siamo neonati.

    E invece non è così. Sappiamo tutti di avere più di due trilioni e mezzo di debito pubblico, ma tendiamo a ignorare che le famiglie italiane – e tralasciamo le imprese – hanno ricchezza per dieci trilioni fra attivi finanziari e beni reali, che al netto dei debiti privati – fra i più bassi d’Europa – ci classificano quantomeno fra i benestanti. Ma guai a dirlo: arriverà subito qualcuno che squadernerà l’ultima rilevazione Istat sulla povertà, dove emerge che il 17 per cento delle famiglie, 922 mila, vive in povertà assoluta (Istat, 2021). A seguire la storiella del pollo di Trilussa, ad onta dell’uso spregiudicato delle medie semplici, e infine il grande convitato di pietra: la Diseguaglianza.

    Le nostre cronache si somigliano tutte e servono poco a svelare l’enigma della ricchezza. Forse perché è una storia che parte da lontano. Perciò conviene riavvolgere il nastro. Tornare da dove tutto è cominciato.

    Ouverture: l’alba dell’Homo Habens

    Gli ammirevoli e ingegnosi tentativi che diverse generazioni di studiosi hanno compiuto per dare, se non un volto, almeno un contorno al passato remoto dell’umanità, non riescono a celare il fatto che si tratti di congetture. Pregevolissime quanto volete, ma congetture.

    Non è certo un segreto. Lo sa per primo chi le concepisce, e ci è stato ripetuto più volte. Il fatto è che la nostra storia, con documenti più solidi di ciò che può raccontare uno strato archeologico, ci porta non più lontano di una trentina di secoli prima di Cristo, quando sorsero le grandi civiltà conosciute, a Oriente come a Occidente. Ma quando proviamo a scrutare quello che è successo prima, improvvisamente si alza una nebbia che si infittisce in ragione diretta del nostro retrocedere nel tempo.

    La storia ci ha insegnato che a un certo punto di questo percorso misterioso l’uomo paleolitico è diventato neolitico, tramutandosi da cacciatore-raccoglitore in agricoltore e pastore. Ma anche questa transizione va intesa con grande cautela. Gli studiosi più avveduti sanno perfettamente che fu un percorso millenario, e anche quando sorsero i primi insediamenti stanziali, dove si svilupparono la pastorizia e l’agricoltura, non è che improvvisamente si smise di cacciare o raccogliere. Perché i bisogni primari degli uomini – nutrirsi, difendersi, riprodursi – non erano mutati. Avevano trovato altri metodi di soddisfazione.

    Questo però non vuol dire che non ci sia stata un’evoluzione: al contrario. Ma questa evoluzione affondava le sue radici in un tempo ancora più lontano, che possiamo solo tentare di immaginare e che ha a che fare con quello che Schumpeter chiamò il problema economico: la soddisfazione di un bisogno in un contesto di risorse scarse (Schumpeter 1945).

    Immaginiamo perciò il nostro cacciatore–raccoglitore, vagabondo nel Levante, mentre scopre che i chicchi d’orzo, che già usava per nutrirsi, generano una pianta nuova una volta coperti di terra. Il pensiero astratto, che già da tempo fa parte del suo corredo di uomo, gli suggerisce che esista un modo per replicare quel prodigio. Scienziato senza saperlo, scopre la semina.

    Ma in realtà scopre molto di più. Scopre che può produrre di che nutrirsi, anziché doversi limitare a mangiare quello che trova. Questa scoperta, che avrà avuto bisogno di chissà quante generazioni per diventare patrimonio comune, può essere considerata l’equivalente, per il nostro pensiero astratto, dell’aver appreso il corpo la posizione eretta. L’Homo Erectus aveva scoperto l’orizzonte, e quindi lo Spazio; l’Homo Sapiens, imparando a produrre il cibo, alza lo sguardo dalla terra e ne scopre un altro. L’orizzonte del Tempo.

    È in questo passaggio che il problema economico, per il quale il tempo è variabile ontologica, trova la sua forma più compiuta. Diventa possibile il calcolo. E il calcolo consente al Sapiens di moltiplicare i pani e i pesci senza far miracoli: semplicemente imparando a programmare il tempo del raccolto e inaugurando la divisione del lavoro, che implica la suddivisione in quelle che saranno chiamate classi sociali. Ne derivarono scambi e, soprattutto, accumulazione.

    Dall’Homo Sapiens si originò l’Homo Habens.

    Avere e (è) Potere

    Ed eccola qui, la ricchezza, fare capolino. A preparare i grandi conflitti che verranno fra chi ha molto e chi ha nulla, fino a condurci al tentativo di risolverli, questi conflitti, generando un ordine politico. Avere e Potere camminano a braccetto. Perché Avere è Potere. È stato sempre così, con un’interessante variante nell’alto Medioevo che andremo a osservare.

    Ovviamente, trattandosi di un’equivalenza, la relazione fra Avere e Potere è perfettamente biunivoca. Chi ha è potente, proprio come chi è potente di solito ha. Vedremo come e perché sia mutata nella storia l’intensità di questa equivalenza. Intanto ricordiamo che Avere e Potere rappresentano l’identità originaria fra Economia e Politica.

    Su come questa equivalenza si sia formata, possiamo solo fare altre congetture. Alcuni ne individuano la genealogia nella transizione fra il villaggio e la città, laddove il villaggio viene rappresentato come una sorta di paradiso comunitario e la città il prototipo del nostro inferno quotidiano. Ma bisogna sempre non credere troppo a queste rappresentazioni. Sono punti di osservazioni utili, ma rimangono congetture.

    Lewis Mumford, ad esempio, che alla storia urbana ha dedicato volumi ricchissimi, ipotizza che la città, che prenderà la forma a noi nota circa cinquemila anni fa, sia nata per ibridazione fra il villaggio neolitico e la cittadella paleolitica, ossia il luogo che custodiva, anche con la forza, i santuari di quelle prime comunità (Mumford, 1956). I cacciatori, insomma, che avevano il vantaggio di saper usare le armi e soprattutto di disporne, molto facilmente usarono questo potere per farsi re, e quindi custodi non solo dei luoghi sacri, ma anche delle scorte alimentari prodotte.

    Ecco che avviene la saldatura tra Avere e Potere. E quella fra Palazzo del re, Mercato e Tempio, che poi diventerà Chiesa: fisionomia della città antica classica e più tardi di quella medievale, la quale porta nella sua memoria il burgen germanico – radice del borgo italiano o del borough inglese –, che come le sue analoghe manifestazioni antiche – la polis greca piuttosto che l’oppidum etrusco – era una specie di recinto dove la popolazione affluiva quando necessario, per cerimonie, ad esempio, o in caso di difesa (Pirenne, 2007).

    Congetture, appunto. Ma che ci portano dritti verso l’economia palaziale o verso i templi mesopotamici e, per logica conseguenza, alla scoperta della scrittura. Un altro fatto economico per eccellenza.

    Conto, quindi scrivo

    Ed eccoci già in piena modernità, almeno in apparenza. Nella proto-città l’eccedenza della produzione, frutto dell’evoluzione neolitica, e quindi della crescente capacità di produrre cibo (Liverani, 2006), si accompagna a un ceto chiamato ad amministrarla – i burocrati – e a uno strumento organizzativo – la scrittura – che insieme danno forma a una redistribuzione dei beni frutto di un ordine politico. Economia e politica. E quindi cultura.

    La scrittura nasce da un potente sforzo immaginativo, intrinsecamente utilitaristico e quindi economico. Il fine era contare sacchi di alimenti: cereali, olio, vino. E quindi rendicontarli. Una normale contabilità di magazzino.

    L’economia templare e poi palaziale, con notevoli varianti, si diffonde nell’ecumene conosciuta, incorporando e replicando un ordine politico sostanzialmente simile. Il faraone egiziano non è tanto diverso da Sargon di Akkad: si tratta di regnanti assoluti, uomini-dèi che tutto hanno e tutto possono. Si circondano di guerrieri, sacerdoti e scribi, ossia di strumenti di dominio e controllo, che nel tempo si replicheranno a dismisura. Si creano le prime grandi burocrazie. E ogni burocrazia necessita del suo codice. I mandarini cinesi, fin dai tempi della dinastia Han, faranno concorsi letterari per accedere ai privilegi di casta della loro professione. Una tradizione che in Cina durerà fino all’ultimo imperatore del XX secolo.

    La scrittura nasce in Egitto, Mesopotamia, Creta, Cina… Gli storici congetturano su dove sia nata prima, ma sono dettagli ininfluenti per il nostro discorso. Quel che serve sapere è che il procedere della ricchezza, quindi dell’accumulazione, si accompagna a una sua forma politica e a una sua cultura che richiede la nascita della scrittura, e quindi a una letteratura, ancora privilegio di pochissimi, in una società fondata sull’oralità.

    Ma quei pochissimi bastano per regalare all’umanità il suo primo poema. La saga sumera di Gilgamesh, il costruttore delle mura di Uruk che persegue l’immortalità. Una sinossi dei tempi moderni.

    La ricchezza della città

    Per viaggiare alla scoperta della ricchezza abbiamo bisogno di una mappa. Il nostro peregrinare ci condurrà verso alcuni dei luoghi, distribuiti nella lunga linea del tempo, dove la storia ha osservato il suo addensarsi. Sono luoghi particolari, che spesso hanno in comune una caratteristica: sono città.

    Le città, fin dal loro consolidarsi come fenomeno sociale, sono state un luogo di compensazione di istanze antagoniste, e quindi naturalmente esplosive. La ricchezza è una delle tante conseguenze di queste deflagrazioni, motore della Storia, che, come ha scritto qualcuno (Liverani, 2011), inizia proprio con la rivoluzione urbana.

    La città attrae masse indistinte di affamati, di cibo o di gloria, che rappresentano il combustibile della sua espansione. Costoro sono gli interlocutori naturali dei ceti che ambiscono a creare nuovi ordini politici per sostituire i vecchi. Furono i diseredati a guidare la rivolta contro la città ellenistica. Furono i newcomers a favorire l’assolutismo e sconvolgere l’ordine medievale. Cambiano le maschere, ma la città rimane. E ogni volta la città registra nella sua topografia queste vicende.

    La linea del tempo viene scandita dai suoi monumenti. Le città sono il motore della Storia e la sua memoria. Sono le biblioteche di una comunità e insieme il deposito della loro ricchezza, che è insieme materiale e spirituale. Nelle città convivono il capitale fisico e quello umano. Soprattutto la città è uno strumento delle internazionalizzazioni. Sempre vicino alle vie di comunicazione, sulle rotte delle carovane, delle reti fluviali o davanti al mare. La città è lo strumento più efficace della globalizzazione.

    Civi(li)tas

    Soprattutto, ogni grande città racconta la storia di una civiltà, nel suo comporsi polifonico di istanze che sono politiche, economiche, religiose, artistiche, amministrative. Una città è molto di più delle sue pietre. Una città ha un suo calendario, le sue unità di misure, il suo denaro, le sue arti e i suoi mestieri; i suoi dèi e i suoi regnanti. Una civiltà, appunto.

    Ce lo ricorda la distinzione latina fra urbs e civitas, la prima indicando le strutture materiali della città, la seconda includendovi anche i cittadini e quindi il vasto corpo di norme che regola la loro convivenza: le regole della cittadinanza. I cittadini costituiscono la città al pari dei palazzi. Perciò dalla civitas, che in epoca medievale finì con l’identificarsi non certo a caso con il vescovato, deriva la civilitas.

    Queste caratteristiche, individuate sommariamente per disegnare una fisionomia generale di una città, apparvero in forma primitiva già dal comparire dei primi grandi insediamenti urbani. Gli storici osservano che sarebbe fuori luogo pensare che tutti questi elementi siano fra loro in un rapporto di causalità. Fra loro esiste un’interazione sistemica. Si può al massimo credere che esista come «presupposto logico, non cronologico» (Liverani, 2011) una notevole accumulazione di eccedenze.

    La ricchezza, appunto. Una civiltà, per svilupparsi, ha bisogno di accumulazione. Quindi maggiore è la ricchezza, maggiore è la complessità sistemica che una civiltà può generare. Ricordiamocelo quando oggi osserviamo che nel sistema finanziario globale circolano circa 300 trilioni di obbligazioni (IIF, 2021). Che sono debiti, e quindi crediti di qualcun altro. Ossia ricchezza.

    Ma quando tutto cominciò, all’alba dell’Homo Habens, l’eccedenza era puramente alimentare. La ricchezza era fatta da cibo e animali che arrivavano dalla campagna e finivano dietro le mura cittadine, perché da lì qualcuno li avrebbe redistribuiti. Il sovrappiù generava dei servizi. Quindi un’organizzazione politica che istituiva una burocrazia chiamata ad amministrarla, un sistema di pesi e misura, un denaro, e così via.

    La campagna diventa in qualche modo tributaria della città, alla quale si rivolge in cerca di protezione in cambio di nutrimento. E questo ci porta a un’altra caratteristica mai troppo sottolineata delle città: offrono sicurezza. Offrire sicurezza significa anche offrire opportunità, favorire l’operosità. Il detto medievale tedesco «L’aria di città rende liberi» (Weber, 2007) va inteso anche in questo senso.

    Ma al tempo stesso il desiderio di sicurezza alimenta anche il timore, che spesso zavorra l’operosità. Da questo timore sorge la nostalgia. In ogni epoca le città alimentano il rimpianto per il tempo passato e la bramosia verso il futuro. Ne sono scaturiti infiniti conflitti fra chi vuole conservare e chi vuole cambiare. Fra chi vuole star fermo e chi vuole muoversi, retaggio delle due grandi popolazioni che abitano la Storia: gli stanziali e i nomadi.

    La città è stata sempre il centro e al centro di queste scorribande. Ancora oggi lo è.

    L’Antichità.

    Da Uruk a Roma solo andata

    Dove tutto è cominciato: Uruk

    La prima megalopoli

    Tutto quello che le città sarebbero state è stato prima a Uruk, nella Mesopotamia meridionale.

    Questa epopea, secondo le cronologie più accreditate, si sarebbe consumata lungo circa mezzo millennio, fra il periodo Antico-Uruk, stimato fra il 3500 e il 3200 prima di Cristo, quando la città raggiunse un’estensione di circa 70 ettari, e il periodo Tardo-Uruk, fra il 3400 e il 3000, quando le mura arrivarono a cingere un’area di 100 ettari. In pratica, la prima megalopoli.

    Alcune datazioni collocano la scoperta della scrittura in Mesopotamia nell’epoca anteriore a quella in cui Uruk si affermava come città di riferimento del vasto territorio sumerico, quindi nella fase più tarda dello sviluppo cittadino. A Uruk semmai, nella sua fase di maggiore splendore, si ipotizza che la scrittura si sia specializzata divenendo da pittografica a cuneiforme. Segno evidente di una crescente divisione del lavoro, e quindi di una notevole produzione di ricchezza. I documenti degli archeologi, infatti, attestano una lista di mestieri e professioni nel periodo Tardo molto dettagliate che abbracciano tutto l’universo delle possibilità professionali.

    A Uruk, nel corso del suo lungo sviluppo, si elaborarono tutte le forme della rivoluzione urbana che seppure con alcune varianti, rimasero costanti per tutta la durata dell’età del Bronzo. All’economia centralizzata, basata sul lavoro di alcuni agricoltori liberi, spesso in forma di corvée per le aziende templari, di schiavi e di altri impiegati nelle terre del Tempio, corrispose quindi un culto, quello del dio Anu e poi della dea Inanna, amministrato da sacerdoti – una burocrazia redistributiva, che cedeva servizi in forma di assistenza alimentare in cambio di sottomissione fiscale (le corvée) – e anche un commercio di lunga distanza, necessario perché i bisogni di una città che diventava enorme non potevano più essere soddisfatti dal semplice cibo.

    Servivano legname per i tetti del tempio, rame e stagno per le armi, pietre dure per le decorazioni dei palazzi. Materiali che ne richiedevano altri da scambiare, che potevano essere beni primari – orzo soprattutto, ossia una delle monete, insieme all’argento, dell’età mesopotamica – o manufatti della città.

    Soprattutto servivano coloro che si incaricavano di effettuare questi scambi, quelli che un giorno diventeranno i mercati-avventurieri, ma che all’inizio erano poco più che agenti al servizio del Tempio, ai quali venivano affidate le merci da scambiare e magari una scorta armata, visto che l’epoca delle comunicazioni sicure era ancora lungi dal venire. Questi viaggiatori navigavano il Tigri o l’Eufrate, oppure il Golfo Persico, dirigendosi verso le città lontane che non gravitavano nella grande superficie di Uruk, che ormai aveva aggregato alle sue mura molti dei villaggi vicini. Oppure, a dorso d’asino, seguivano i sentieri scavati nel deserto, per itinerari che duravano mesi. Questo sistema sociale era profondamente ineguale, quanto alla distribuzione della ricchezza concentrata ai vertici della piramide sociale, e insieme paternalistico.

    Il pacchetto cittadino che vede a Uruk la sua versione originaria non poteva essere privo di una sua letteratura. Il fondatore della città, secondo alcune iscrizioni, è il mitico Gilgamesh, a cui fu dedicata la prima saga scritta dall’uomo.

    Duplicità della ricchezza, nuove tendenze

    Bisogno di sicurezza e istinto predatorio rivelano la duplicità della ricchezza. Si erigono mura per proteggersi – mura che nel tempo diventeranno dazi, tariffe o altro – ma al tempo stesso si aspira all’espansione per saziare l’insaziabilità.

    La ricchezza perciò è condannata al mutamento, che prende la forma di un costante peregrinare lungo le coordinate del mondo seguendo, classicamente, le ragioni del più forte.

    Arricchirsi non è lavoro per persone delicate, non lo è mai stato. Gli imperi fioriscono, diventano potenti e ricchi. Quindi appassiscono e muoiono. Puri epifenomeni. Mentre la ricchezza, con le sue contraddizioni, trasmigra. E scrive una nuova pagina della sua storia.

    Perciò la ricchezza, la cui vicenda per convenzione abbiamo fatto iniziare nel paese di Sumer, nello spazio di alcuni secoli – il battito di ciglia della Storia – inizia a muoversi verso nord, nella Mesopotamia di mezzo, la futura terra di Akkad, dove insieme alla ricchezza si sposterà anche l’egemonia, sempre perché avere e potere viaggiano insieme. Ma intanto si manifestano alcune nuove tendenze che andranno a far parte del resto della nostra storia.

    La prima: il degrado della prima rivoluzione urbana verso una forma di proto-medioevo. Anzi, il primo medioevo, potremmo chiamarlo così se intendiamo tale parola con il significato autentico di età di mezzo, che gli diede alla fine del XVII secolo della nostra età Cristoforo Keller per connotare il medioevo cristiano. Molti insediamenti, specie verso le montagne, regredirono verso il villaggio. Gli scambi esterni si ridussero significativamente. Il controllo centralistico, stante l’indebolimento dei nuclei di comando, si affievolì.

    Ma l’esperienza di Uruk non fu dimenticata. Si inaugurava la seconda tendenza: la riproduzione, per assimilazione, delle forme passate in forme nuove, che le reiterano apportando cambiamenti sostanziali.

    Nel periodo proto-dinastico II e III, nella zona a Nord di Uruk, quindi grossomodo nei quattro secoli dopo il 2750, si sviluppa la cultura del Palazzo, la nuova struttura amministrativa che si affianca al Tempio come struttura redistributiva. Ciò comporta una sostanziale evoluzione dell’ordine politico, che ha profonde conseguenze di ordine sociale. Accanto al personale del Tempio sorge un’altra categoria di cittadini con funzioni amministrative, attorno ai quali si addensa una varia umanità in cerca di opportunità. Sono i creatori di ricchezza, sui quali si addensa da sempre il sospetto che si riserva ai predatori. Li ritroveremo spesso nel nostro viaggio, a ruotare attorno ai centri di potere.

    Quindi emerge una terza tendenza che fornirà una cornice istituzionale a molte delle espansioni future: la costituzione di imperi. L’espansione porta a una crescente integrazione e organizzazione territoriale, che a sua volta genera nuove necessità burocratiche, amministrative, militari.

    Andando verso nord prevale l’elemento semitico-accadico che prepara una nuova evoluzione istituzionale, e quindi genera una nuova forma di ricchezza.

    Organizzazione e forma della ricchezza

    Rimane da osservare, in questo esordio della nostra storia, il modo col quale si organizzavano in queste società il possesso e la proprietà. Solo un abbozzo da tenere a mente.

    Intanto cominciamo da qui: ogni cosa, in quel tempo, apparteneva a una casa (Liverani, 2011). Una casa privata, in caso di cittadini liberi. Alla casa di un dio, nel caso del Tempio, e più tardi alla casa di un qualche regnante, una volta che il Palazzo incarnò il potere.

    Esistevano diversi ordini di relazioni, innanzitutto di natura impositiva fra le case che organizzavano la produzione e la distribuzione di viveri, e fornivano i territori di infrastrutture – ad esempio canalizzazioni – richiedendo in cambio il versamento di imposte. Tutto ciò ovviamente corrispondeva a una precisa gerarchia di funzioni, e quindi a diverse gradazioni di potere e di ricchezza.

    Quanto alla forma di questa ricchezza, primeggiava per ragioni evidenti la terra, dalla quale scaturivano i beni primari, a cominciare da orzo e frumento. E poi greggi e armenti.

    Esistevano già alcuni beni di lusso, oggetto di commercio di lunga distanza, che venivano esibiti per ragioni di rango e arricchivano i corredi funerari. Ciò implicava l’esistenza di artigianato (armi tessuti, manufatti vari), i cui livelli di specializzazione crescevano in ragione diretta della capacità di centralizzazione di chi li amministrava, e capacità commerciale, anche questa fortemente centralizzata fra Tempio e poi Palazzo.

    Era una ricchezza naturale, tuttavia, ancora fortemente legata alla materialità e solo scarsamente simbolica. Infatti il denaro era una merce. Le pratiche finanziarie erano molto rudimentali e legate al commercio. La stragrande maggioranza della popolazione cittadina galleggiava sopra il livello di sussistenza.

    Organizzazione e forme del potere

    A una struttura produttiva molto centralizzata corrispondeva logicamente una forte centralizzazione del potere, che nelle città mesopotamiche del tempo – eredi di Uruk – veniva affidato a un dinasta, che con diverse sfumature di significati, a seconda dell’ideologia che lo aveva espresso, era di fatto il regnante del luogo. Una sorta di superamministratore a vocazione tirannica.

    Ogni città, quindi, esprimeva un suo nucleo politico e perciò economico, la cui origine era solitamente religiosa. Il re rappresentava il dio e quindi la sua forza – del dio – quando faceva bene, la sua debolezza – del re – quando faceva male. E questo ci porta al contraltare del suo potere: il dovere di rappresentare il culto.

    Tutto questo originava una complessa attività di costruzione culturale capace di celare le evidenti sperequazioni sociali che generava questo modello di amministrazione economica, tipico di una società estrattiva (Acemoglu, Robinson, 2013), dietro le ragioni religiose, a maggior ragione alla presenza di un re che le legittima. Una società viene definita estrattiva quando le ricchezze prodotte con lo sfruttamento di molti rimangono in grandissima parte nella disponibilità di pochi, che tendono a perpetuare le inefficienze del sistema per garantirsi la sopravvivenza. Storicamente tendono a finire molto male.

    Non è un caso che in quest’epoca appaiano le prime iscrizioni regie sopra opere edilizie o oggetti sacri. La scrittura, strumento dell’avere, scopre molto presto la sua utilità al servizio del potere, inaugurando una tradizione che dura fino ai nostri giorni.

    Il primo impero

    L’uomo nuovo

    Ci si potrebbe facilmente smarrire viaggiando verso nordovest, fino alla Palestina, seguendo le vicissitudini della seconda urbanizzazione che succedette alla prima. Leggere la storia di Ebla, o di Mari, ad esempio, insediamenti che esprimono forme nuove di civilizzazione, e quindi diverse organizzazioni sociali, economiche e politiche, pur nella costanza della cornice di fondo che abbiamo già delineato.

    Ma dobbiamo correre più veloci di quanto non suggerisca la nostra curiosità, e puntare dritti versa un’altra pietra miliare che segna un’interessante evoluzione istituzionale che da questo momento in poi entrerà di fatto nei sogni di ogni regnante espressione di una collettività: la costruzione di un impero.

    Questa evoluzione si manifestò in territorio accadico. L’autore, per quanto possa un uomo fare la storia e non il suo contrario, si chiamava Sargon. Il primo imperatore.

    Interludio. Gli storici insistono sulla novità rappresentata da Sargon rispetto ai regnanti sumeri che lo precedettero. Era nuovo l’elemento etnico che primeggiava – semitico e non più sumerico – dopo una lunga convivenza. Era nuova la formazione del sovrano, che proveniva da una biografia oscura, attestata – e chissà quanto fondatamente – solo in epoca più tarda. Era nuova l’importanza che si dava alla figura del regnante: non più amministratore del culto, ma uomo di valore. Conquistatore. Era nuovo perché a un certo punto si autonominò dio accanto agli dèi. Non direttamente Sargon, ma uno dei suoi successori sì. L’uomo nuovo aspirava alla divinità. Si originava un’altra tendenza.

    Akkad. Il primo impero

    Nella formazione dell’impero universale di Sargon – così almeno era nelle sue intenzioni, visto che ambiva a congiungere il Golfo Persico al Mediterraneo – si consolidano le caratteristiche dei circa 150 anni di storia della sua dinastia, all’incirca a partire dal 2350 prima di Cristo, ma che già si intravedevano nelle epoche precedenti. Sargon semplicemente funzionò da catalizzatore.

    Era figlio del suo tempo, e il tempo richiedeva una diversa organizzazione dell’egemonia. Che però percorreva le strade del passato. Letteralmente. Le vie commerciali, ad esempio, che sono una delle componenti di un’egemonia, nell’epoca di Sargon ricalcavano quelle di Uruk. E d’altronde, sarebbe strano il contrario: a differenza dei paesaggi umani, che sono mutevoli come i rapporti di forza che incorporano, quelli della geografia tendono a permanere. E una rotta commerciale è qualcosa di più che una semplice veduta. Non è certo un caso che oggi si riesumi la Via della Seta aperta dai cinesi secoli fa. Una via commerciale spesso è una modalità dell’egemonia. Pacifica, di solito, ma non sempre.

    Perciò non stupisce che dopo la fase dell’espansione militare, che dell’impero di Sargon fu l’autentica novità – prima le guerre erano considerate frutto della rivalità fra dèi, adesso erano dovute alla volontà conquistatrice di un uomo nuovo –, più solida al Sud, meno al Nord, Sargon si dedichi al consolidamento degli scambi di lunga distanza collegando Akkad, che poi diventerà la sua capitale, la prima capitale imperiale, dotata di porto fluviale, con il paese di Dilmun (attuale Bahrein), Magan (Oman) e Melukhkha (Valle dell’Indo).

    L’imperatore riuscì ad estendere i traffici, economici, ma non ancora egemonici, tramite l’Anatolia, fino al Mediterraneo. Una globalizzazione in miniatura. Ma il mondo mesopotamico non andava molto oltre questi confini.

    Il sogno di Sargon di unire i due mari, collegando finalmente le vie commerciali all’egemonia politica, fu realizzato dal nipote, Naram-Sim, lo stesso che si nominò dio, irritando non poco i sacerdoti. Nasceva la tradizione del re-empio, alimentata dalle popolazioni meridionali. Ma anche loro più tardi adottarono questa innovazione. Il re accadico era stato solo il primo degli empi.

    Economia imperiale

    L’unificazione politica, quantomeno tentata e per un certo periodo riuscita, conduce facilmente alla creazione di un’economia imperiale che si manifesta nell’incorporazione delle terre del Sud nel patrimonio della corona, premessa per un ribollire di tensioni che successivamente condurranno al disfacimento. Gli accadici, semplicemente, non riescono a controllare un territorio ampio e differenziato come quello che ambiscono dominare. Ma finché possono, ne estraggono ricchezza.

    La grande novità dell’istituzione imperiale imposta manu militari, accompagnata da una robusta ideologia, non genera un’innovazione altrettanto rilevante dal punto di vista socioeconomico. Le strutture produttive e organizzative rimarranno sostanzialmente stabili, con l’eccezione non trascurabile della lingua. L’accadico si affiancò al sumerico fino a sostituirlo come lingua del potere, inaugurando una consuetudine destinata a durare per secoli in tutta l’area vicino-orientale.

    Più di mille anni dopo, quando i misteriosi Popoli del mare (e chissà cos’altro) devastarono i poteri costituiti della fase finale dell’età del Bronzo, l’accadico era ancora usato come lingua diplomatica. Il suo tramonto, che avverrà nell’Età del ferro con l’invenzione dell’alfabeto fenicio – altro esito squisitamente economico delle esigenze commerciali di questa popolazione – segnerà il termine di quella che possiamo chiamare la globalizzazione mesopotamica, con lo spostamento dell’asse sempre più verso Ponente.

    Intanto l’accentramento della proprietà terriera, acquistata o conquistata, sotto l’insegna imperiale allargava il divario fra il potere del Palazzo, ormai in straordinaria crescita, e quello del Tempio. La deificazione dell’imperatore suggellerà l’assedio finale.

    Il cuore dell’economia imperiale però, lo abbiamo visto, era il controllo delle rotte commerciali. Sargon e i suoi successori avevano capito che il controllo degli approvvigionamenti era fondamentale per poter tenere insieme un mondo composito come quello che ambiva a governare. E dove non arrivava con le armi, poteva arrivare con uno strumento che gli accadici avevano capito essere estremamente funzionale: la ricchezza.

    Ricchezza + propaganda = cultura

    Il patto silenzioso che gli scribi avevano siglato col potere politico raggiunse

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