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La nave dei folli: Un diario di bordo
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La nave dei folli: Un diario di bordo
E-book229 pagine2 ore

La nave dei folli: Un diario di bordo

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«Per la scrittura e per la storia in sé, La nave dei folli è irriducibile a ogni genere o definizione, non ha padri né padrini letterari, solo nella classicità è possibile trovare una voce che le somigli; forse Luciano di Samosata o Apollonio Rodio. Questa nave parte da un ignoto e arriva a un altrove. Allora, che tipo di romanzo è La Nave dei folli di Steiner? Storico, fantastico, d’avventura, mitologico, poetico? È un Romanzo, un gran bel Romanzo».
Emiliano Ventura (saggista)

«Le donne e gli uomini della nave dei folli di Marco Steiner: un lampo di luce sul chiaro e sulle ombre che abitano ciascuno di noi e che costringono a rispecchiarci nell’inquietudine delle nostre molteplici frammentazioni e nella fragilità della nostra identità. Nel corso di questo memorabile vagabondaggio è possibile ritrovare, o trovare finalmente, noi stessi».
Antonio Dragonetto (psicologo e psicoterapeuta)

Marco Steiner vive fra Roma e New York. Lo pseudonimo “mitteleuropeo” gli è stato suggerito da Hugo Pratt con il quale ha collaborato dal 1989 al 1995 e da cui ha imparato a scrivere storie. Con fotografi come Gianni Berengo Gardin e Marco D’Anna ha imparato a vedere luci e ombre. Nel 1996, dopo la morte di Pratt, ha portato a compimento il romanzo Corte Sconta detta Arcana, edito da Einaudi. È autore di numerosi romanzi: Il Corvo di Pietra (2014), Oltremare (2015, Premio di Letteratura Avventurosa Emilio Salgari), Il gioco delle perle di Venezia (2016), Miraggi di memoria (2018), Passi silenziosi nel bosco (2020), Nella Musica del Vento (2021). Per Marcianum Press: Isole di ordinaria follia (2019).
LinguaItaliano
Data di uscita16 set 2022
ISBN9788865128916
La nave dei folli: Un diario di bordo

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    Anteprima del libro

    La nave dei folli - Marco Steiner

    PREFAZIONE

    E da un’Isola parte, la Nave dei folli

    Caratteristica dell’operare di Marco Steiner è quella di trascendere il genere. Di conseguenza il critico o l’esegeta non può limitarsi ad applicare categorie o generi a una tale opera, suo compito è semmai quello di capirne l’essenza e spiegane le caratteristiche uniche, non ci si può limitare all’assegnazione di un genere.

    Date queste premesse c’è da dire cosa sia questa Nave dei folli che l’autore congeda e che ci consegna. Prima di tutto è un’opera letteraria, già con questa definizione potremmo essere soddisfatti e avremmo dato lo «spaccio» a tutta la bigiotteria editoriale che da almeno venti anni imperversa in editoria e in libreria.

    Non sarebbe sbagliato parlare di racconto fantastico per questo testo di Steiner, ma non sarebbe neanche una definizione esaustiva, un conte philosophique, potrebbe essere più adatto, ma non potrei escludere il romanzo picaresco. Come si può vedere ci troviamo tra le mani un’opera letteraria complessa e ricca di aspetti eterogenei, eppure è un racconto godibile, fruibilissimo, che ha però il difetto di non partecipare alla strategia della narrativa italiana coeva, il suo fine non è la serialità televisiva o il cinema, il suo è un fine salutare.

    Dovendo rintracciare un precedente, un’affinità con altre storie o testi, è necessario risalire di circa due millenni, è nell’ambito della classicità e non nella contemporaneità che questa Nave trova i suoi predecessori. Penso a Le Argonautiche di Apollonio Rodio o alla Storia vera di Luciano di Samosata, al De reditu suo di Claudio Rutilio Namaziano, è tra questi autori e tra queste storie che il lettore potrà riscontrare le analogie e le varie simpatie così evidenti. In tempi a noi più vicini si trovano suggestioni e affinità con Il prato in fondo al mare di Stanislao Nievo. Come dire; il mitico, il fantastico, il poetico e lo storico, il futuro recensore potrà trovare in queste categorie e in questi autori un terreno fertile da cui attingere, mentre il lettore attento vi scorgerà una genealogia letteraria.

    La congiunzione con cui inizia il titolo di questo breve scritto indica una continuità e un legame pregresso, La nave dei folli infatti, nella sua unicità e fruibilità indipendente, parte da un altro testo dello stesso Steiner, Isole di ordinaria follia.

    È in quel libro infatti che si incontra l’equipaggio di questa Nave di ‘folli’, esso è rinchiuso a San Servolo, l’isola veneziana adibita ad uso manicomiale fino a qualche decennio fa. Personaggi come Guglielmo, Lilith, Elisa (e poi Pietro) li incontriamo prima in Isole, ognuno dentro la propria storia, e ora li ritroviamo insieme all’Indio, il protagonista della Nave dei folli, proiettati in questa navigazione fantastica, non priva di mistero.

    Si potrebbe dire che la Nave inizia dove finisce l’ Isola, una formula che ha una sua tautologica realtà (da dove può partire una nave se non da un’isola, anche un continente alla fine è un’isola) ma non così in letteratura. I due testi dialogano ma non hanno una relazione seriale, non sono l’uno il seguito dell’altro, al contrario sono unici e indipendenti, ciò che continua è semmai l’epistemologia dei libri, ciò che si vuole conoscere, ciò che si vuol capire. In qualche modo l’autore sentiva che alcune storie andavano approfondite, conosciute e risolte; a volte alcuni libri, alcune storie, fanno fatica a lasciare l’autore, seducono a lungo e chiedono ulteriore spazio.

    In Isole Steiner ha fatto quella che io interpreto come un’azione orfica, ha riportato alla luce e alla memoria la storia di quattordici folli, o quattordici ‘non ragioni’; nella Nave dei folli è sceso nel profondo di una particolare follia, sotto l’epidermide dell’Indio, il protagonista di questa storia fantastica.

    Sono due movimenti contrastanti, quelli che emergono in Isole e nella Nave, uno riporta alla luce (alla superfice), l’altro scende nel profondo, un motivo in più per considerare i due testi come correlati uno all’altro.

    Per nulla scontato ma per nulla improbabile è il paragone con altri due testi, non di uno scrittore ma di un filosofo; Michel Foucault.

    Autore importante e fondamentale di cui non si può riassumere il pensiero in questa sede, i due testi focaultiani a cui ci si riferisce sono Storia della follia nell’età classica [1] e Nascita della clinica [2] .

    Nella sua prima opera importante, Storia della follia, come afferma egli stesso, ha tracciato la storia di un’esperienza della follia, della malattia, della criminalità e della sessualità: «I greci erano in rapporto con qualcosa che essi chiamavano hybris [...] l’uomo europeo fin dal fondo del Medioevo è in rapporto con qualcosa che egli chiama confusamente: Follia, Demenza, Sragione» [3] .

    Fondamentalmente il lavoro è la storia di un dialogo interrotto, tra l’uomo di città e il folle, tra un sapere e quella forma generica di non-sapere in cui cade il folle; l’internamento in quanto fenomeno massiccio è un affare di police, ovvero l’insieme di misure che rendono il lavoro necessario a tutti coloro che non saprebbero viverne senza. Prima che per un motivo apertamente medico, l’isolamento e poi l’internamento del folle non è dovuto alla ricerca della guarigione, in verità si è reso necessario per un imperativo economico, per il lavoro (siamo nel XVII secolo): «Decaduta dai diritti della miseria e spogliata della sua gloria, la follia appare ormai molto seccamente, con la povertà e l’ozio, nella dialettica immanente degli Stati» [4] .

    Il testo di Foucault è una storia non più disegnata con la ragione o una fenomenologia dello spirito, con la sua conseguenzialità, è al contrario una storia dirupata e interrotta. Il secondo testo è legato alla Storia ed è Nascita della clinica [5] , qui Foucault intende dimostrare che la medicina clinica è in grado di stabilire cosa sia indice di patologia e cosa non lo sia. È in questo contesto che l’anatomia assume un’importanza fondamentale per la medicina, grazie a questa rivoluzione dello sguardo clinico che tutto vede. È il visibile ad essere oggetto della scienza medica. Fino a questo momento, la clinica e l’anatomia non si erano mai incontrate. In questo ambito, Foucault, mette in evidenza un cambiamento repentino nel rapporto malattia e morte e tra medicina e morte; la morte ora ricopre un ruolo essenziale:

    «Pensata rispetto alla natura, la malattia era l’inassegnabile negativo le cui cause, forme e manifestazioni si offrivano solo di sbieco e su uno sfondo sempre arretrato; percepita rispetto alla morte, la malattia diviene esaustivamente leggibile, irresidualmente aperta alla dissezione sovrana del linguaggio e dello sguardo» [6] .

    È con l’espropriazione della morte che la medicina moderna assume lo sguardo sovrano, rendendo visibile l’invisibile, il prezzo pagato è quello di aver cadaverizzato la vita; più semplicemente è lo studio del cadavere, l’autopsia, a permettere di capire la malattia e ad offrire maggiori possibilità alla salute.

    Tornando all’opera di Steiner Isole di ordinaria follia sta alla Storia della follia come La nave dei folli sta alla Nascita della clinica.

    Se Isole racconta e denuncia, in una prosa mitico-poetica, lo sragionare di quattordici reietti dispersi nella reclusione manicomiale, la Nave è uno scendere in profondità, sotto l’epidermide, conoscere il fondo per risalire alla superfice, è uno spazio clinico che si nutre di mitologia, respira poesia e intravvede la salubrità. Fedelmente alla tradizione ogni destino mitico ha i suoi mostri, non importa quale sia, se drago, serpente o leviatano, una volta sconfitto, catturato o ucciso l’eroe ha superato un tabù, un blocco mentale o un ostacolo simile; si dirada una radura, balugina il vero, o quantomeno l’autentico.

    Entrambi i testi hanno il medesimo scopo o fine, la salute, in Isole era presente una coralità di voci che aspiravano a essa, nella Nave è uno solo, l’Indio, ma il fine è il medesimo. Senza sottrarre il lettore dal gusto della scoperta non posso fare a meno di evidenziare che l’esperienza di Indio e della sua Nave è una volontà di salute, una devastante volontà salutare.

    Emiliano Ventura


    LA NAVE DEI FOLLI

    Un diario di bordo

    1. L’inizio di tutto

    Fin da piccolo ho letto tante favole e, in giro per il mondo, ho ascoltato molte storie fantastiche.

    Ha iniziato mia nonna, lei ogni sera mi leggeva un racconto che sceglieva fra quelli che trovava in un libro, Le mille e una notte, lo faceva per farmi addormentare; dicevano che ero un ragazzino un po’ strano, sempre agitato, ma lei mi voleva bene lo stesso.

    Da allora non ho mai smesso di vagare con la fantasia.

    Mia nonna Gumersinda mi diceva che i racconti portano sempre sollievo al cuore e alla testa, alimentano la fantasia, fanno compagnia quando si è soli e, un giorno, aggiunse che, in alcune storie, certe frasi entrano nell’anima di chi legge e la rinfrescano d’aria nuova come fa una finestra aperta al mattino.

    Certe volte – aggiungeva – possono perfino salvarti la vita.

    È quello che successe a Sherazade, la protagonista di Le mille e una notte.

    Quello era l’unico libro che mia nonna riuscisse a leggere in mezzo agli strani libri di mio padre e tuttora è il ricordo più intenso che mi rimane di lei.

    Le radici del mio passato si concentrano e riassumono in quel libro.

    Sherazade era una ragazza che aveva iniziato a raccontare le sue storie fantastiche al sultano Shahryar, il Re di Persia, per un motivo molto singolare.

    Quell’uomo ricco e potente era stato umiliato dal tradimento di sua moglie e si era incattivito nei confronti del genere femminile, per questo decise che la vendetta nei confronti di tutte le donne che avrebbe incontrato sarebbe stata esemplare e crudele.

    Shahryar stabilì che ogni notte avrebbe posseduto una giovane schiava e all’alba l’avrebbe fatta decapitare.

    Fu per questo motivo, per tentare di mettere fine a quell’assurda e sanguinosa vendetta, che la principessa Sherazade, la figlia del Gran Vizir, si offrì volontariamente di diventare la sposa di quel re così ingiusto e idiota.

    Il suo fu un gesto istintivo, non aveva un’idea precisa, ma quella storia doveva finire, lei non riusciva ad accettare una situazione simile, pensò che avrebbe dovuto inventare qualcosa, qualsiasi cosa pur di porre fine a quell’insensata violenza.

    Sherazade era una ragazza sensibile, ma era anche astuta e piena di fantasia.

    Fu così che ogni notte iniziò a raccontare al sultano una storia affascinante che lo incantava. Sherazade riusciva a condurlo lungo la trama cambiando abilmente il tono della voce e il ritmo del racconto in modo da tenere sempre viva l’attenzione del sultano, ma allo stesso tempo lo faceva restare sulle spine, sapeva come modulare il susseguirsi delle vicende e come trascinarlo nell’atmosfera delle storie; poi, puntualmente, all’alba di ogni giorno interrompeva il racconto e prometteva al sultano che l’avrebbe completato la notte successiva.

    Sherazade manteneva le sue promesse, una volta finita una storia ne cominciava un’altra e la nuova storia era ancora più coinvolgente della precedente, tanto che questo accadde per mille e una notte, fino a quando, un bel giorno, il sultano si rese conto di amare Sherazade.

    Shahryar era certo che quella donna fosse speciale e non avrebbe potuto rinunciare alla bellezza dei suoi racconti, per questo decise di vivere con lei per continuare ad ascoltarla.

    Il sultano arrivò a pentirsi di aver ucciso tutte quelle ragazze senza aver dato loro la minima possibilità di esprimersi, insomma, cambiò e sposò Sherazade riconoscendone il valore e l’intelligenza.

    Lei sola, con il semplice uso della fantasia era stata capace di vincere l’ottusità di quell’uomo raccontandogli pazientemente e mirabilmente storie fantastiche che avevano arricchito la sua vita e avevano salvato quella di tante altre ragazze.

    Io non ero certamente come il sultano, ero solo un ragazzino un po’ diverso dagli altri e spesso mi addormentavo perché la maniera di leggere di mia nonna non era poi così affascinante e ricca di sfumature come quella della bella Sherazade.

    La mia situazione era completamente diversa, eppure ogni notte, quando mia nonna raccontava quelle storie, io rimanevo incantato come probabilmente era rimasto il sultano e ogni giorno non vedevo l’ora che calasse la sera per ascoltare un nuovo racconto.

    Purtroppo, fin da allora, mi resi conto che le storie belle non durano e quando finiscono bruscamente il colpo è ancora più crudele.

    Mia madre morì in quel periodo e, poco tempo dopo, la nonna dovette lasciare la nostra casa perché mio padre, che era un tipo piuttosto violento e prepotente, la cacciò dicendo che non voleva mantenere un’inutile vecchia chiacchierona che aveva sopportato anche troppo a lungo.

    Fu così che rimasi solo con mio padre; non durò a lungo in realtà, perché poco tempo dopo me ne andai; ma questo fa parte del resto della storia.

    L’ultima notte, prima di andarsene, la nonna Gumersinda mi lesse il racconto delle avventure di Sindbād.

    Quella fu la storia che mi colpì più di ogni altra, parlava di un marinaio e fu l’inizio di tutto.

    Da allora il mio sogno fu quello di diventare un viaggiatore come Sindbād, un uomo in grado di affrontare mirabolanti peripezie navigando in giro per il mondo conosciuto, oppure di spingermi come lui ancora più in là, oltre i confini segnati su mappe e atlanti.

    Ripensando alla mia vita, devo dire che forse ci sono riuscito, ma non tocca a me giudicare e allora, caro lettore, adesso mettiti comodo da qualche parte, molla gli ormeggi e inizia a leggere questa storia.

    È la mia storia, ma l’ho scritta anche grazie a te.

    Forse riuscirai a entrare fra le mie memorie oppure ti lascerai andare e ti perderai in un sogno che faremo insieme, forse potremo addirittura partire per un lungo viaggio e avventurarci nei territori della fantasia più libera.

    Personalmente, grazie ai racconti di Sherazade e a certe altre storie che mi sono accadute realmente, ho capito che in certe circostanze si può essere molto vicini alla morte o al momento in cui ci si sente spegnere come una candela sfinita, non importa quale sia stato il motivo che ci ha portati a quella soglia, ma ogni volta, attraverso un racconto, un incontro o una semplice frase si può ricominciare a sognare, cioè a vivere.

    2. Indio

    Mi chiamo Indio, o meglio, mi hanno sempre chiamato così perché sono mezzo sudamericano e mezzo italiano, ma il mio vero nome sarebbe Jorge.

    La mia faccia scura e spigolosa ricorda certe divinità maya o forse uno di quegli schiavi che hanno costruito le grandi piramidi di pietra.

    Sono nato ad Antigua, in Guatemala, mia madre veniva da là, mio padre, invece, era un marinaio arrivato per caso da Chioggia.

    Della

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