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I due popoli: Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna» contro il dualismo scolastico
I due popoli: Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna» contro il dualismo scolastico
I due popoli: Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna» contro il dualismo scolastico
E-book669 pagine9 ore

I due popoli: Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna» contro il dualismo scolastico

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Info su questo ebook

La scuola media italiana è stata – sin dall’avvìo – un oggetto ‘doppio’ della ricerca educativa: da un lato “ventre molle” – sociale, professionale, didattico – del nostro sistema scolastico, dall’altro dichiarata come l’unica, vera riforma scolastica della nostra Repubblica, dove il ‘vera’ sta ad indicare – pur con qualche riserva – un giudizio ampiamente positivo, con rare voci discordi. Un’ambivalenza che giustifica l’interesse per un’indagine mirata a comprendere le ragioni di questo doppio. Che fin dal dibattito fu motivo di divisione fra chi sosteneva la tesi risultata vincente con la L. 1859/1962, che affidava la scuola media ai professori, e quanti preferivano la postelementare assegnata ai maestri: una disputa che vide in prima linea Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna». Il libro ricostruisce lo sfondo storico di quella disputa, documenta la dialettica interna all’editrice La Scuola e ne identifica le matrici teoriche e le ispirazioni sociali e religiose. Si mettono in luce così le priorità che indussero i protagonisti dell’evento a strategie d’intervento opposte e le ragioni di un insuccesso che fa della nostra scuola un sistema tuttora incompiuto.

Elio Damiano, già ordinario di Didattica generale all’università di Parma.
Battista Orizio, già incaricato di Pedagogia comparativa presso le università di Verona e di Trieste.
Evelina Scaglia, ricercatrice a tempo determinato di tipo B in Storia della Pedagogia all'università di Bergamo.
LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2019
ISBN9788838248252
I due popoli: Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna» contro il dualismo scolastico

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    I due popoli - Evelina Scaglia

    Elio Damiano, Battista Orizio, Evelina Scaglia

    I due popoli

    Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna» contro il dualismo scolastico

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    L’idea di questo volume nasce all’interno del Gruppo di lavoro prof. Vittorino Chizzolini, promosso a Brescia dalla Fondazione Giuseppe Tovini, che lo sostiene quale dovuto omaggio a Colui che ebbe – fra l’altro – l’intuizione di costituirla come ente pedagogico, dalla valenza nazionale ed internazionale.

    La pubblicazione è supportata dalla Fondazione Giulio e Giulio Bruno Togni e Paolina Cantoni Marca, di Brescia, diretta al sostegno delle iniziative educative ‘chizzolinianamente’ significative.

    L’augurio e l’intento è che la testimonianza e l’intuizione del prof. Chizzolini possano essere compagne di viaggio per quanti, ad ogni livello, si occupano e impegnano nel settore della crescita umana, nell’accezione di San Paolo VI: di ogni uomo e di tutto l’uomo.

    Copyright © 2019 by Edizioni Studium - Roma

    ISBN 9788838248252

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838248252

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    INDICE

    Introduzione di Elio Damiano

    I. L’istruzione per la fascia d’età 10-14 anni e il dualismo invincibile. Storia di un rapporto controverso dalla legge Casati alla legge 1859/62, di Evelina Scaglia

    1. Alcune considerazioni di fondo

    2. Continuità e discontinuità nei primi decenni postunitari fra Destra e Sinistra storica

    3. L’avanzata di nuove istanze a inizio Novecento e la nascita del corso popolare

    4. La conferma del dualismo dai lavori della Commissione Reale agli interventi del ministro Credaro

    5. Il dibattito sull’istruzione 10/14 anni fra guerra e dopoguerra

    6. La riforma Gentile fra selezione dei migliori e scuole di scarico

    7. La permanenza del dualismo nel processo di fascistizzazione della scuola

    8. Il dualismo nella scuola bottaiana

    9. Ricostruire la scuola per far ripartire un Paese

    10. Cultura della riforma ed educazione popolare agli inizi del ministero Gonella

    11. La persistenza del dualismo nel dibattito sull’istruzione 11/14 anni nella fase consultiva della Commissione Gonella

    12. Le difficoltà incontrate nella fase costruttivo-sistematica della Commissione Gonella

    13. Il dualismo negli anni dello scontro fra AIMC e UCIIM e il fallimento della Commissione Rossi

    14. L’accelerazione del dibattito sull’istruzione 11/14 anni all’avvìo del boom economico

    15. L’approvazione della scuola media unica tra vecchie formule e nuove speranze

    16. Un dualismo carsico

    II. Sotto lo stesso tetto. La scuola per gli 11/14 anni tra «Scuola Italiana Moderna» e «Scuola e Didattica», di Battista Orizio

    1. L’Editrice La Scuola alla prova della ripresa postbellica

    2. Riviste per la scuola media. Progetti e attuazione: «Schola Iuventutis », «Adolescenza», «Scuola e vita»

    3. L’impegno di «Scuola Italiana Moderna» a sostegno della Post-elementare nel decennio 1945-1955

    4. Una decisione audace

    5. Settembre 1955: nasce «Scuola e Didattica»

    6. SIM a sostegno della Post-elementare

    7. Un argomento mancato: la Hauptschule tedesca

    8. Problemi di ordinamento e di didattica della scuola media

    9. Questioni di fatto e questioni di diritto

    10. Antiche trincee e urgenze scolastiche

    11. Quattro sezioni = quattro scuole. Contento Agosti ma non Agazzi

    12. La distinzione della laurea

    13. Anticipazioni

    14. Mostri scolastici

    15. Via libera a sperimentazioni di stato

    16. La speranza resiste

    17. «Scuola e Didattica» premia le circolari estive (1961) del ministro

    18. «Panorama da vigilia»

    19. Prima la politica, poi verrà la pedagogia

    20. Sul fronte opposto

    21. Dalla contrapposizione alla collaborazione

    22. Epilogo. Il misterioso silenzio di «Scuola e Didattica»

    23. Profili di sintesi

    III. Per la scuola unica. Pedagogia della scuola e riformismo scolastico nel secondo dopoguerra, di Elio Damiano

    1. Sergej Hessen e la pedagogia della scuola in Italia (1945-1962)

    1.1. Un libro di successo

    1.2. Nel contesto pedagogico del dopoguerra

    1.3. Una presenza incisiva

    1.4. Per una pedagogia della scuola

    1.5. La scuola unica secondo Hessen

    1.6. La scuola media secondo Aldo Agazzi

    2. La scuola media italiana

    2.1. Legge 31 dicembre 1962 n. 1859

    2.2. Orari e programmi d’insegnamento della scuola media statale

    2.3. Il popolino a scuola: due lettere ed una ricerca

    2.4. La stagione dei ‘ritocchi’

    2.5. La scuola media come caso internazionale

    2.6. Una riforma ‘politica’ che non è riuscita a diventare ‘pedagogica’

    3. L’opzione della scuola Post-elementare

    3.1. La Post-elementare come modello scolastico

    3.2. Le fonti psicologiche

    3.3. A chi tocca

    3.4. L’«altro popolo»

    3.5. Ricostruzione e movimento comunitario

    3.6. L’altro popolo abita ancora qui

    3.7 Congetture sulla Postelementare

    3.8. Abolire la scuola media?

    3.9. Istituti comprensivi e curricoli in verticale

    Appendice. Scuole per i giovani lavoratori, di Vittorio Chizzolini

    Introduzione

    L’intervento di Chizzolini

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA

    Studium

    166.

    Scienze dell’educazione, pedagogia

    e storia della pedagogia

    Elio Damiano, Battista Orizio, Evelina Scaglia

    I DUE POPOLI

    Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna» contro il dualismo scolastico

    Nel XXXV anniversario della scomparsa

    ricordiamo Vittorino Chizzolini

    architetto e cantore

    dell’educazione popolare

    Introduzione di Elio Damiano

    La scuola media italiana, nel formato istituito nel dicembre 1962, che – nonostante ‘ritocchi’ e adattamenti nel corso di oltre mezzo secolo – è rimasto sostanzialmente invariato, è stata – sin dall’avvìo – un oggetto ‘doppio’ della ricerca educativa: da un lato è venuta via via manifestandosi come il ventre molle del sistema scolastico nazionale, sotto i diversi profili – sociale, professionale, didattico – dai quali può essere considerata [1] ; dall’altro, è stata connotata – fin da prima che fosse codificata – come l’unica, vera riforma scolastica attivata dalla nostra Repubblica, dove il ‘vera’ sta ad indicare – pur con qualche riserva – un giudizio ampiamente positivo, con rare voci discordi [2] . Già questa ambivalenza può giustificare l’interesse per un’indagine mirata a comprendere come la scuola in questione sia potuta diventare un ‘doppio’: anzi, addirittura nella versione dell’opposto.

    Un ulteriore motivo di interesse – certamente non secondario – riguarda il contesto e la circostanza nei quali questo lavoro è stato ideato: il Gruppo Vittorino Chizzolini nel quadro delle attività della Fondazione Giuseppe Tovini. Mentre per il dettaglio rinvio al sito web della Fondazione [3] , qui mi limito a richiamare che Vittorino Chizzolini, insieme al suo partner pedagogico Marco Agosti, fu il tenace assertore della Post-elementare, l’opzione scolastica che si contrappose a lungo alla linea politica che – con la scuola media unica – risultò vincente: sullo sfondo di una egemonia pedagogica dei cattolici nella I Repubblica che si divisero più o meno nettamente – e polemicamente – intorno al modello scolastico da adottare. Con l’aggiunta che vide «Scuola Italiana Moderna» – rivista storica della scuola elementare, diretta da Vittorino Chizzolini – e «Scuola e Didattica» – rivista nata a sostegno della scuola media teorizzata, quando, nel 1955, questa era solo in gestazione, direttore Aldo Agazzi, il più battagliero fra i suoi ideatori – l’una e l’altra rivista della stessa editrice, La Scuola di Brescia: paradossalmente su trincee opposte.

    Sono motivi più che sufficienti per stimolare un deciso investimento nell’andare al fondo di quella vicenda. E con pregnanza del tutto peculiare, se due degli autori si dichiarano fra quei ‘meritevoli e privi di mezzi’ ai quali la Fondazione Tovini – cui dà vita nel 1957 Vittorino Chizzolini – ha consentito di ‘elevarsi’ con gli studi, diventando – fra l’altro – allievi, presso l’Università Cattolica di Milano, proprio di Aldo Agazzi. Un intreccio di ragioni – oggettive, contestuali e personali – che hanno ispirato l’impegno di ricostruzione di un evento che ha condizionato la vicenda scolastica italiana: senza riuscire a scalfire l’invincibile dualismo del nostro sistema scolastico, che ancora vige e si rivela – precocemente – proprio nella scuola media. Confermando l’attualità di una guerra dei trent’anni [4] e – più che l’opportunità – la necessità di non relegarla come un episodio minore, ma riconoscendolo nella sua rilevanza. Anche di più oggi, perché siamo ancora in ricerca di una soluzione ad un inaccettabile problema di struttura della nostra scuola. E pertanto, il lavoro che presentiamo – quale che sia l’occasione che lo ha generato – riguarda il dualismo scolastico, come già allude il titolo che gli abbiamo assegnato – I due popoli – rievocando un tema interpretativo di Vincenzo Cuoco [5] , a proposito di una divaricazione ancora più generale – e pur connessa a quella scolastica – e che riguarda il dualismo sociale, civile e politico.

    L’indagine che proponiamo è innanzitutto propriamente storica, perché il dualismo denota fin dall’origine il nostro sistema scolastico, fondato dal Casati che apprezzava il sistema prussiano e cercò in qualche modo di riprodurne, appunto, il dualismo precoce, privilegiando la scuola del grado secondario e l’università [6] . La conduciamo a due livelli: individuando il tema del dualismo alla scala del sistema generale, a cominciare, appunto dal Casati, con la I sezione, messa a punto da Evelina Scaglia; ricostruendo il dibattito interno all’editrice La Scuola, attraverso la documentazione delle tesi sostenute da «Scuola Italiana Moderna» e da «Scuola e Didattica», rispettivamente da Marco Agosti (Vittorino Chizzolini) e Aldo Agazzi, nel periodo che va dal 1955 al 1963 – ovvero quando maturò progressivamente la svolta che portò al varo della scuola media ‘unica’ – con la II sezione redatta da Battista Orizio.

    La duplice messa a fuoco – dall’alto e dal basso – ha consentito a me – nell’ultima sezione – di esplicitare i referenti teorici dei protagonisti di quell’evento, in particolare Sergej Hessen, con la sua pedagogia della scuola come istituzione, elaborata su basi comparativistiche, che offrì alla compagine pedagogica italiana una "idea di insieme’ in grado di rispondere plausibilmente alle attese di ricostruzione democratica del nostro sistema scolastico. Un’indagine che permette di evidenziare le divergenti interpretazioni dell’impianto hesseniano all’atto del suo adattamento al contesto italiano; soprattutto l’improntitudine della ricerca educativa, che vide solo negli anni successivi affermarsi discipline – come la sociologia, l’economia, la psicologia, applicate all’educazione – la didattica disciplinare, la ricerca sull’innovazione scolastica, la programmazione curricolare. Di qui l’inadeguatezza di quel taglio gordiano che si propose di eliminare un nodo complesso – la riforma di un segmento del sistema scolastico, nevralgico perché interessava la sua ispirazione fondamentale: il dualismo – semplicisticamente dichiarandolo sciolto con un editto legislativo. Senza supportarlo con una strategia di accompagnamento in grado di portarlo a concrezione nel lavoro di scuola e di aula; perché tale non riuscì a diventare la sequenza di ‘ritocchi’ con i quali le amministrazioni successive tentarono di correggere il primitivo allestimento. Una sindrome di illusion pédagogiste ideata al centro e affidata ad una ‘missione’ da realizzare in periferia. Dove le pratiche, invece, si incaricarono di accomodare la novità, reinterpretandola di volta in volta secondo il principio ispiratore di fondo che restò quello originario: ovvero il dualismo. Perpetuandolo.

    Per evitare anacronismi, va ricordato che all’epoca il problema da affrontare – la struttura ed il contenuto della scuola dagli 11 ai 14 anni – veniva collocato nella cornice dell’educazione popolare. Una categoria che è stata adottata in molti modi, a seconda del tempo e delle visioni del mondo, al punto da diventare espressione vaga, reperto storico, ai margini della semantica pedagogica corrente oggi, quando di ‘popolo’ si torna a parlare, ma in ben altri termini e contesti. Siamo dinanzi ad un concetto che si è regolarmente correlato a quelli di ‘uguaglianza’ e di ‘riforma’, anche queste variamente formulate a seconda delle congiunture e dei propositi, nell’orizzonte di una riflessione anche solo incipiente sulla morfologia sociale e sui suoi problemi di struttura. A cominciare, nell’era moderna, dalla Riforma – protestante e cattolica – all’educazione del popolo si sono dedicati quei movimenti – l’igienismo, il socialismo, l’anarchismo, il comunismo, il comunitarismo – che in chiave spesso utopica hanno mirato a declinare tempi e modi della storia generando iniziative ispirate dalla compassione e dalla solidarietà nei riguardi dei miseri e dei marginali, dei vinti e degli oppressi. Per riscattare la condizione dei quali l’educazione popolare è stata identificata – fra le strategie dirompenti – come una delle più plausibili. E tuttavia, non senza ambiguità, se è vero che essa è stata praticata anche come strumento di disciplinamento e di ricomposizione dell’ordine sociale, non solo dai movimenti opposti di restaurazione, ma anche da quegli stessi che avevano cercato di riordinarlo radicalmente.

    A ragione della sua matrice ‘integralista’, l’educazione preconizzata si definisce ‘popolare’ perché si riferisce agli esclusi, che rispetto alle élites sono massa ovvero maggioranza: quindi ‘popolo’. Da un lato a cominciare fin dall’età evolutiva, regredendo progressivamente fino alla prima infanzia, con la scolarizzazione precoce; dall’altro coinvolgendo gli adulti in debito scolastico. Di qui la coincidenza fra educazione popolare e scuola primaria, e – insieme – rattrapement dei ‘corsi’ per adulti, incuneandosi in tutti gli anfratti nei quali il popolo trovava o aspettava il lavoro. A documentazione di questa estensione, ripresentiamo, in appendice, una relazione di Chizzolini che auspica un autentico ‘sistema’ di azioni diffuse e articolate rivolte agli adulti, subito a ridosso del secondo conflitto mondiale, nella quale ci sono – fra gli adulti da occupare – anche gli insegnanti elementari. Educazione popolare, dunque, che oggi designeremmo come pedagogia compensativa ed educazione permanente (ovvero, più prudentemente e fattivamente, come educazione ricorrente).

    Sempre per evitare anacronismi, non bisogna trascurare un’altra componente dell’educazione popolare di quegli anni: l’acquisizione del ‘lavoro’ come contenuto diffuso e specifico dell’educazione scolastica. Più avanti avremmo parlato di ridefinizione dell’asse culturale dei curricoli scolastici, ricomprendendovi il lavoro. Si tratta di un tema pedagogico-sociale ‘classico’ che – a prescindere dalle sue anticipazioni prossime (la Carta del Lavoro del Bottai) – richiama il contributo di fonti del discorso pedagogico quali J.-J. Rousseau, J.H. Pestalozzi, G. Kerschensteiner [7] e che investe – nelle divergenti impostazioni del rapporto fra educazione e lavoro – il problema di struttura della scuola già identificato come focus di questo lavoro: il dualismo. Fin dall’origine della scuola burocratica, l’esclusione del lavoro ha costituito il suo indice di riconoscimento come scuola di ceto [8] : che denotava la distinzione di chi non aveva bisogno del lavoro – quello vile, in quanto manuale – per vivere. La differenziazione sociale maturata con la società moderna e fattori culturali connessi all’affermazione del ‘popolo grasso’ avevano individuato nel tipo di formazione ‘generale’ offerta dal Collegium la risposta commisurata alle ambizioni di riconoscimento pubblico del nuovo ceto arrembante. Un modello scolastico – forgiato dai riformatori religiosi, cattolici e luterani nel XVI secolo – il diretto erede del quale era proprio la scuola media che ci si proponeva di riformare. Mediante il lavoro, appunto, che da essa era stato –intenzionalmente e designatamente – escluso. Un’impresa titanica, anche perché se ne volle conservare il nomen (e quindi, ahimè, il numen). Ma l’innovazione voluta non era soltanto – e banalmente – una questione di contenuti e di metodi, bensì – molto più costitutivamente – di ‘forma’ di quell’educazione scolastica, che la sapienza pedagogica dei fondatori aveva voluto ‘separata’ dall’esperienza per liberarla dal ‘fare’ e assicurare – rispetto alla ‘prassi’ – la priorità, e la superiorità alla ‘rappresentazione’ [9] . E siccome il vino novello non può maturare in otri vecchi, la battaglia del cambiamento era persa in partenza. Battaglia tuttora in corso – si vedano le incertezze ed i rinculi dell’alternanza scuola/lavoro che tormentano ancora la scuola secondaria – anche se siamo meno ingenui al riguardo [10] .

    Agosti e Chizzolini condividevano con Agazzi le tesi dell’educazione popolare, per estrazione sociale e per orientamenti elettivi, anche per ragioni di appartenenza religiosa a monte delle loro concezioni pedagogico-sociali. E tuttavia, mentre Agazzi argomentava la necessità di concepirla in chiave di dover-essere democratico – ovvero come scuola universalista, aperta a tutti – al punto di non dover più parlare di ‘scuola popolare’, termine che evocava un dualismo superato dall’assetto democratico della neonata Repubblica, Agosti (Chizzolini) replicava che quel ‘popolo’ esisteva ancora – eccome – e bisognava prenderne in carico – specificamente – i problemi di scolarizzazione. E che a ragione della sua specificità, non potevano che essere i maestri – fatti della stessa pasta sociale – a farsene carico: ovvero non i ‘professori’, che quel popolo non era pronto a ricevere, se non a costi elevati di disadattamento reciproco. Un confronto, come si vede, fra sguardi diversi: fra chi (Agazzi) mirava al dover/essere della nuova scuola, dichiarando superata ormai – nel contesto democratico, con la fine della società delle classi e l’avvento della società delle categorie – l’idea stessa di educazione popolare – e chi (Agosti & Chizzolini) badava all’essere/di fatto degli alunni figli del ‘popolino’ (come si diceva allora). Due popoli, insomma, oppure un popolo solo?

    Ovviamente Agazzi non poteva non essere ben consapevole della stratificazione sociale: ma guardava al popolo che di diritto non c’era più, quello unificato da una politica scolastica già democraticamente realizzata con un sistema scolastico maturo. In realtà, anche lui di popoli ne vedeva due, ma di fatto il suo sguardo privilegiava quello che i figli li mandava a scuola, attribuendo a questa la funzione di talento da far fruttare per la sua mobilità sociale. Un popolo che già stava montando di numero sulla spinta del boom dei secondi anni ’50. Al contrario Chizzolini (Agosti) vedeva il popolo analfabeta, per il quale la scuola era un lusso che non poteva permettersi, e una istituzione di cui conosceva l’abbraccio ostile. Affinché questo secondo popolo si integrasse all’altro occorreva che se ne facesse carico chi era in grado di farlo: perché, almeno in parte, ci era riuscito. Non i ‘professori’, che – in una scuola ancora ‘media’, ovvero ‘in vista del proseguimento’ – aspettavano fra i banchi per discriminare chi fosse ‘adatto a studiare’, – ovvero ad andare oltre – bensì i ‘maestri’, che in qualche modo avevano reso l’italiano domestico agli italiani. Non era –come vedremo nella III sezione – la medesima battaglia, perché Agosti (Chizzolini) ed Agazzi combattevano in due campi di lotta diversi, a favore di due popoli ancora divisi. E tuttora – a più di mezzo secolo di distanza – ancora – nonostante tutto – separati. In un sistema scolastico – il nostro – che resta a tutt’oggi incompiuto.

    Così si spiega il titolo del volume. Lo storico Vincenzo Cuoco, riflettendo sulle vicende della Rivoluzione napoletana del 1799, portò a giustificazione del suo fallimento quella che gli è stata attribuita come la teoria dei due popoli. Era l’estraneità fra il primo popolo – i borghesi illuminati rivoluzionari – ed il secondo – la massa dei diseredati – che aveva portato alla catastrofe. Di qui la lezione a futura memoria: l’emancipazione dell’altro popolo come responsabilità del primo, mediante fraternità e amore: ovvero l’interpretazione dei suoi bisogni ‘effettuali’ e un’azione educativa dedicata. In questo modo, nella prospettiva del Cuoco, la politica si faceva pedagogia. [11] Una tesi che non doveva dispiacere a Chizzolini (Agosti). Insieme anche alla predilezione patriottica del Molisano, che guardava con sospetto i francesi esportatori della ‘loro’ rivoluzione e preferiva – anche nella storia nazionale italiana – le originarie culture pre-romane, anticipando in qualche modo quel primato del Gioberti, tanto caro ai nostri due bresciani.

    Se il problema del dualismo precoce è ancora senza soluzione, non significa che avrebbe potuto essere risolto dalla Post-elementare, la quale non sarebbe stata una scelta senza contro-indicazioni, soprattutto se fosse stata adottata – secondo il cànone della nostra politica scolastica – fuori da una strategia di accompagnamento e sviluppo capace di raccordare virtuosamente centro e periferia. Strategia di cui ancora oggi siamo in cerca, anche se proprio la preoccupazione per il secondo popolo ha generato quella ricerca valutativa che oggi – pur nelle forzature di una comparazione globalizzante – ci consente di conoscere più a fondo i luoghi critici dei sistemi scolastici [12] . Se la scuola media è a tutt’oggi un problema attuale è perché – per la ricerca educativa – c’è ancora tanto da fare e da capire: perché – sulla scorta dei protagonisti di quella vittoria incompiuta e di quella sconfitta immeritata – il dualismo scolastico resiste e quel popolo abita ancora qui.

    Prima di chiudere sono doverosi due ringraziamenti. Uno al Gruppo Chizzolini, perché – soprattutto con le obiezioni – ci ha aiutato a esplicitare a fondo con lucidità le motivazioni che ci spingevano a questa ricerca. In particolare al Presidente, Michele Bonetti, che ha guidato con tenacia la discussione e ha fatto sintesi degli orientamenti emersi favorendo il finanziamento della pubblicazione da parte della Fondazione Tovini. Un altro a Giuseppe Bertagna, che ci ha aiutato a recuperare – nella comprensione dell’educazione popolare – la componente, essenziale, del lavoro.

    ED, febbraio 2019


    [1] L. Ribolzi, In medio sta(ba)t virtus. Gloria e decadenza della scuola media, in «FGA working paper», n. 42, Fondazione Agnelli, Torino 2012, p. 3.

    [2] Per la bibliografia intorno ai giudizi sulla riforma della scuola media, rinviamo al testo: v. in particolare pp. 303-309. Qui facciamo notare che tale giudizio positivo poggia sul presupposto implicito di un giudizio oltremodo negativo circa l’impotenza riformista della politica scolastica nazionale.

    [3] www.fondazionetovini.it.

    [4] T. Codignola, La guerra dei trent’anni. Com’è nata la scuola media in Italia, in M. Gattullo-A. Visalberghi (a cura di), La scuola italiana dal 1948 al 1983, La Nuova Italia, Firenze 1986, pp. 120-148.

    [5] V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli [1799] di Vincenzo Cuoco, premessavi la vita dell’autore scritta da Mariano d’Ayala, Barbera, Firenze 1865.

    [6] Pur concedendo non poco – si veda il centralismo – all’altro modello, quello francese, come illustrato in: F. Targhetta, Uno sguardo all’Europa. Modelli scolastici, viaggi pedagogici ed importazioni didattiche nei primi cinquant’anni di scuola italiana, in M. Chiaranda (a cura di), Storia comparata dell’educazione. Problemi ed esperienze tra Otto e Novecento, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 155-176. Da notare che la Legge Casati cominciava, insolitamente, con le prescrizioni relative all’Istruzione superiore – Titolo II – relegando quelle riguardanti l’Istruzione elementare al Titolo V.

    [7] Si vedano, rispettivamente: J.J. Rousseau, Emilio, libro I, p. 36 della tr.it. a cura di M. Casotti, La Scuola, Brescia 1963; J.H. Pestalozzi, Come Geltrude istruisce i suoi figli, tr.it., La Nuova Italia, Firenze 1974; M. Soetard, Pestalozzi, PUF, Paris 1995; G. Kerschensteiner, Il concetto della scuola di lavoro, [1912], tr.it., Marzocco, Firenze 1959; C. Winch, Georg Kerschensteiner founding the dual system in Germany, in «Oxford Review of Education», n. 3, July 2006, pp. 381-396.

    [8] A. Petitat, Production de l’école – Production de la société, Droz, Genève 1982.

    [9] E. Damiano, Società e modi dell’educazione. Verso una teoria della scuola, Vita e Pensiero, Milano 1989 ².

    [10] G. Bertagna, La pedagogia della scuola. Dimensioni storiche, epistemologiche ed ordinamentali, in G. Bertagna-S. Ulivieri (a cura di), La ricerca pedagogica nell’Italia contemporanea. Problemi e prospettive, Studium, Roma 2017, pp. 34-111; Id., Plaidoyer del sistema duale, in «Professionalità», n. 4, 2018, pp. 5-8. Da un punto di vista epistemologico e didattico, si vedano: E. Damiano , Il sapere della competenza, in M. Baldacci-M. Corsi (a cura di), Un’opportunità per la scuola: il pluralismo e l’autonomia della Pedagogia, Tecnodid, Napoli 2009, pp. 126-156; Id., La mediazione didattica. Per una teoria dell’insegnamento, FrancoAngeli, Milano 2013, pp. 145-209.

    [11] «La nazione napoletana si potea considerare divisa in due popoli diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte cólta si era formata sopra modelli stranieri, così la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltà. Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi, e coloro che erano rimasti napolitani, e che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Come la cultura di pochi non aveva giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’era utile, e che non intendeva» (cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli [1799] di Vincenzo Cuoco, premessavi la vita dell’autore scritta da Mariano d’Ayala, cit., pp. 171-172).

    [12] Per la ricostruzione delle origini ‘compensative’ della ricerca valutativa internazionale, si vedano: B.S. Bloom-M.D. Engelhart-E.J. Furth, Taxonomy of educational objectives: the Classification of Educational Goals, David Mc Kay Company, New York 1956, Handbook I; R.M.W. Travers, How research has changed American schools? A history from 1840 to the present, Mythos Press, Kalamazoo (MI) 1983; M. Lawn, An Atlantic crossing? The work of international examination inquiry, its researchers, methods and influence, Symposium Books, Oxford 2008.

    I. L’istruzione per la fascia d’età 10-14 anni e il dualismo invincibile. Storia di un rapporto controverso dalla legge Casati alla legge 1859/62, di Evelina Scaglia

    1. Alcune considerazioni di fondo

    La scelta di dedicare spazio alla ricostruzione delle principali vicende che hanno interessato la storia dell’istruzione per la fascia d’età 10-14 anni nel primo secolo di vita dell’Italia unita nasce dall’interesse di tracciare i tratti principali della cornice, all’interno della quale ha trovato collocazione a partire dagli anni Trenta del Novecento l’opera educativa ed assistenziale promossa da Vittorino Chizzolini a favore dell’istruzione del popolo, lungo la scia tracciata fin dai primi decenni postunitari dal campione del cattolicesimo bresciano Giuseppe Tovini [1] (cfr. Battista Orizio, pp. 119-223).

    In tale direzione, risulta di particolare importanza riflettere su come il problema dell’istruzione preadolescenziale venga affrontato dal R.D. Lgs. 3725 del 13 novembre 1859, meglio noto come legge Casati, approvato dal governo sabaudo in regime di pieni poteri e poi esteso con l’Unità d’Italia all’intera Penisola. Ispirato al modello prussiano [2] , il sistema scolastico della Casati si caratterizzava per la suddivisione in tre ordini di studi (elementare, secondario, superiore), in rapporto gerarchico fra loro, data la natura elitaria e selettiva dell’istruzione secondaria e, ancor più, di quella superiore. In particolare, gli studi successivi al biennio superiore di scuola elementare vedevano una biforcazione dei percorsi di istruzione in due principali canali, quello della filiera ginnasio-liceo classico riservato alla formazione culturale delle future classi dirigenti e quello della filiera scuola tecnica-istituto tecnico pensato per la preparazione speciale delle classi subalterne agli impieghi minori. Del tutto assente risultava un terzo potenziale canale, rappresentato dalle scuole di formazione tecnico-professionale promosse da varie realtà locali (enti religiosi, associazioni professionali, società private, ecc.), che da decenni nelle zone centro-settentrionali operavano a favore di un’utenza eterogenea dai 10 anni d’età in avanti. Nonostante il patrimonio di sapere pratico di cui erano portatrici, furono escluse dal sistema scolastico nazionale in quanto considerate non scuole, per la loro funzione utilitaristica di formazione a mestieri artigianali o, più recentemente, industriali.

    La legge Casati aveva il proprio fulcro culturale nel ginnasio-liceo classico, l’unica scuola designata con il termine secondaria in quanto destinata a preparare la futura élite nazionale con gli studi di cultura classica (latino e greco, letteratura italiana, filosofia). Eppure la situazione socio-economica del neonato Regno d’Italia era tale da renderlo un paese in bilico tra arretratezza e sviluppo, con forti disequilibri fra Nord e Sud e tassi di analfabetismo elevati.

    L’istruzione elementare, concepita quale principale strumento per «fare gli Italiani» – secondo una nota espressione di Massimo d’Azeglio, poi ripresa da Francesco De Sanctis – non riuscì a fungere da trampolino di lancio, poiché essendo a completo carico dei comuni che ne avevano la giurisdizione assoluta e su cui gravavano tutte le spese, fu particolarmente carente nei territori che più ne necessitavano, per la mancanza di adeguate risorse economiche in circa il 70% dei municipi italiani. Fra l’altro, solo il biennio inferiore doveva essere istituito per legge da tutti i comuni, per ottemperare all’obbligo di istruzione previsto fino all’età di 8 anni, mentre il biennio superiore era da istituirsi solamente nei comuni con un numero di abitanti superiore ai 4.000 o con scuole secondarie proprie. Eppure, in diverse zone del Sud e delle Isole a fronte di questa carenza strutturale dell’istruzione elementare non mancavano i ginnasi, molti dei quali isolati, cioè senza la contestuale presenza del liceo classico in cui poter proseguire gli studi, a riprova di quanto il prestigio culturale e il lustro di cui erano portatori avessero spinto diverse personalità o entità locali ad impiegare risorse economiche nella loro apertura.

    Un sistema scolastico che si premurava, principalmente, dell’istruzione avanzata delle élite non avrebbe potuto garantire le basi di un progresso economico generalizzato, perché quest’ultimo avrebbe avuto bisogno del ruolo propulsivo dell’istruzione popolare, come era accaduto in alcune zone dell’Italia settentrionale nei primi decenni dell’Ottocento, quando la nascente industrializzazione trovò un valido alleato nella prima alfabetizzazione offerta dalle scuole elementari festive parrocchiali e nella formazione speciale data dalle scuole tecnico-professionali. Solo in un secondo momento, in sede di consolidamento ed ampliamento dello sviluppo economico, l’istruzione di livello secondario e superiore si sarebbe rivelata decisiva [3] .

    La scarsa rispondenza della legge Casati all’esigenza di istruire il popolo, facendo leva prevalentemente su una strategia di «popolarizzazione» della cultura elitaria alle masse, fu strettamente legata anche alla sua tendenza di tipo «accentratore» nell’esercizio del principio dell’istruzione pubblica [4] . Questa scelta, a fronte dell’eterogeneità di sistemi politici, economici, scolastici e di costumi degli Stati preunitari, anziché favorire l’assorbimento delle disparità, le accentuò. Le resistenze scaturite a livello locale nei confronti di un intervento tacciato di «piemontesizzazione», aggravato dalle «diversità di regime e di sentire politico fra le varie parti d’Italia», contribuirono a depotenziare sul nascere qualsiasi eventuale impulso di rinnovamento [5] . I liberali al potere erano convinti del fatto che solo una scuola, concepita come apparato investito di una «funzione pubblica e civile» [6] , avrebbe potuto giustificare un intervento diretto dello Stato nella promozione di un ambito, quello dell’istruzione, che fino a quel momento era stato nei vari territori per lo più monopolio del clero, delle congregazioni religiose e di enti locali [7] . La scuola pubblica, al pari dell’esercito, era concepita come istituzione deputata in primis a realizzare il processo di «italianizzazione» del Paese, cioè di costruzione di quell’unità linguistica, culturale e valoriale di cui era ancora sprovvisto [8] .

    Da qui alla trasformazione della scuola in un dispositivo di «riproduzione» delle disuguaglianze sociali il passo fu breve [9] , come dimostrato anche dall’oscillazione fra il primato del principio di selezione e il primato del principio di socializzazione nell’esercizio della funzione scolastica, particolarmente evidente nell’ambito dell’istruzione per la fascia d’età 10-14 anni, che vedeva incontrastata la priorità accordata alla scuola di cultura classica [10] . Nulla di più lontano da quello spirito di elevazione a nuova dignità civile delle «umili fatiche dell’officina» e di liberazione degli operai dalla condizione di «semoventi ordini d’un’arte non intesa» [11] , che aveva animato istanze presenti nel dibattito risorgimentale grazie a uomini come Carlo Cattaneo, tra i maggiori sostenitori del trinomio scienza-tecnica-sviluppo economico. Lontane dal realizzarsi parevano anche le raccomandazioni, più volte espresse in sede parlamentare da uno dei padri fondatori dell’Italia unita, Camillo Benso conte di Cavour, a favore dell’urgenza di promuovere l’istruzione popolare e professionale in vista della costruzione di un sistema educativo nazionale in accordo, e non in disaccordo, con le esigenze della società nazionale.

    La legge Casati mostrò in questo modo un suo nervo scoperto, identificabile nel mancato superamento della contrapposizione fra cultura liberale e scientifica da un lato ed attività manuale e sapere strumentale dall’altro. Dietro ad esso si celava una duplice tendenza, che risultò particolarmente esacerbata nei percorsi di studio successivi alla scuola elementare: quella di continuare a pensare la scuola come dispositivo di selezione, e non di promozione, e quella di concepire l’aggettivo pubblico come sinonimo di statale. Si spiega così come mai, nonostante la precedente legge Boncompagni (1848) prevedesse un canale di scuole speciali (= professionali) accanto alle scuole secondarie, la legge Casati considerò la neonata scuola tecnica come parte integrante dell’ordine elementare, in quanto culturalmente inferiore, nonostante fosse stata investita del compito di «dare ai giovani che intendono dedicarsi a determinate carriere del pubblico servizio, alle industrie, ai commerci ed alla condotta delle cose agrarie, la conveniente cultura generale e speciale» [12] . Sempre nell’ambito di tale operazione, si giunse a porre ai sensi dell’art. 308 la pre-esistente costellazione di scuole pratiche e di perfezionamento (in campo commerciale, industriale, agricolo, nautico, ecc.) sotto il diretto controllo del Ministero dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio, in quanto considerate come istituzioni di serie C, non degne di essere riconosciute nel loro ruolo formativo, ma solamente utilitario, empirico e di applicazione di un sapere tecnico-pratico. Eppure, come illustrato da Mario Alighiero Manacorda, molte di queste scuole furono espressione delle Società di mutuo soccorso che si richiamavano alla libertà tutelata dallo Statuto Albertino del 1848 [13] . Per non parlare delle scuole sorte per volontà di ordini religiosi, come i Lasalliani e i neonati Salesiani, tutte considerate scuole degli ignorantelli in mano al clero, da escludere da qualsiasi forma di riconoscimento da parte del sistema scolastico pubblico.

    In queste scelte, secondo Giuseppe Castelli, la classe dirigente italiana mancò di una «visione dei bisogni, delle tendenze, delle attitudini reali del paese», tale da comportare la diffusione nell’opinione pubblica del pregiudizio che le «scuole del lavoro e dei negozi» fossero soltanto «semplici conservatorii caritatevoli di assistenza per i fanciulli meno privilegiati dalla fortuna», lasciati alla «buona volontà dei privati, delle opere pie, delle amministrazioni locali», ma non degni di un intervento statale [14] .

    Lo stesso discorso va, infine, esteso anche all’apprendistato, che pure rappresentava un’esperienza comune a numerosi bambini e ragazzi provenienti dalle classi più umili, spesso costretti ad evadere l’obbligo di istruzione per un precoce avvio al mondo del lavoro. Promosso all’interno di realtà tradizionali (botteghe artigianali, banchi mercantili) o industriali (opifici, filande, ecc.) attraverso forme di apprendimento del mestiere per imitazione on the job, o di addestramento al lavoro all’interno di opere pie, orfanotrofi e case di correzione, interessò nei primi anni postunitari circa 13.329 allievi. Nei decenni successivi, i Salesiani, i Giuseppini, i Pavoniani, gli Artigianelli, i Fratelli delle Scuole Cristiane si contraddistinsero, nell’incrementare tali esperienze, per l’offerta sistematica di strumenti e conoscenze adeguate per far fronte alle esigenze del nuovo contesto industriale capitalista, a partire da quelle sensibilità culturali che sarebbero confluite nel 1891 nell’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII, in risposta alla diffusione fra le masse operaie delle ideologie laiche e materialiste di ispirazione socialista [15] .

    Dietro la condizione di «indeterminatezza» e «silenzio» in cui queste occasioni formative per i preadolescenti italiani furono lasciate dalla legge Casati è possibile scorgere l’«ispirazione «smaccatamente elitaria e gerarchica » di tutto il mondo liberale (moderato e radicale) italiano, affetto da una sorta di «classismo sociale» che ebbe fra i suoi effetti anche una «aristocratizzazione» della mentalità di molta borghesia, pronta ad ingrossare le fila dei pochi privilegiati che avevano accesso al ginnasio-liceo, in nome di un presupposto principio di «distinzione sociale» alla Bourdieu [16] . Da qui nacque la tendenza a definire con il termine «zavorra» tutti coloro che, provenendo dai ceti piccolo borghesi e artigianali, furono iscritti dai genitori al ginnasio o alla scuola tecnica per l’incauta aspirazione di poter intraprendere un’ascesa sociale con un futuro impiego nel campo della pubblica amministrazione, con il rischio di trasformare a lungo andare il ginnasio in una scuola passepartout e la scuola tecnica in una scuola di cultura generale dalle finalità professionali di modesta aspirazione.

    L’«inadeguatezza» con la quale la legge Casati affrontò il problema dell’istruzione 10-14 anni può essere, a questo punto, riletta come sintomo dell’«incompiutezza» della rivoluzione borghese in Italia e dell’«impossibilità» da parte della scuola di governare da sola l’emergere tumultuoso dei ceti popolari. Paradossalmente, però, rappresentò il «migliore coefficiente» in grado di allungargli la vita, dando il via ad una condizione di riformismo permanente, dovuto all’«incapacità» della legge stessa di rispondere al processo di modernizzazione che, seppur lentamente, solcò la società italiana nel Centro-Nord. Il suo sistema scolastico mancò di aggiornati strumenti culturali in grado di sancire un auspicato connubio fra istruzione di cultura ed estensione della sua utilità pratica [17] . I diversi tentativi di modifica annunciati e quasi mai realizzati andarono di pari passo con la difficoltà a concepire «forme scolastiche meno rigide e più aperte», ma anche con il rifiuto a valorizzare quanto già era stato messo in campo da iniziative non statali, in termini di prima alfabetizzazione e preparazione professionale delle maestranze, indispensabili per rompere il circolo vizioso fra disoccupazione/sotto-occupazione e arretratezza sociale e culturale del Paese.

    I dati statistici parlavano chiaro: il censimento del 1871, a dieci anni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia, segnalava ancora un dato preoccupante di analfabetismo, pari al 72,96% della popolazione di ambo i sessi, con punte negative soprattutto nelle regioni più remote del Meridione, come la Calabria e la Lucania. Il dato rilevato al primo censimento, nel dicembre 1861, era stato del 78%, mentre nel 1863 il tasso di scolarità della popolazione italiana compresa fra i 6 e i 12 anni, di ambo i sessi, era pari al 43%, con una forte disparità fra l’83% rilevato in Lombardia e il 14% in Sicilia [18] . Il fatto che i territori lombardi dell’ex Regno Lombardo-Veneto presentassero un tasso di alfabetizzazione più elevato che altre zone d’Italia va letto in stretta relazione a quanto già affermato poco sopra, a proposito della presenza pluridecennale di una rete di scuole parrocchiali per la formazione del popolo incentivate dalla legislazione asburgica e di una rete di scuole tecnico-professionali per la preparazione delle maestranze. Un patrimonio che la legge Casati non seppe valorizzare ed estendere ad altre regioni.

    A fronte di questo dato di realtà, anche Dina Bertoni Jovine, nota studiosa comunista, non esita ad affermare che: «si ebbe paura, nel 1859, di accettare la lezione che veniva da Cattaneo, da Sacchi, da De Sanctis, si ebbe paura della scienza moderna e della tecnica, timore di staccarsi dagli schemi della scuola gesuitica, diffidenza del contadino istruito e sottratto alla superstizione e alla sottomissione, anche se tutte queste remore finivano col consacrare, in un momento in cui si sarebbero dovuti impostare esattamente, con la mente rivolta al futuro, i più gravi problemi nazionali, un ritmo così ritardato di progresso da dare l’impressione di una stasi» [19] .


    [1] Sulla figura di Tovini (1841-1897), la fondazione della rivista magistrale «Scuola Italiana Moderna» e il suo apostolato per la scuola popolare pubblica, si rimanda ad una bibliografia essenziale: A. Cistellini, Giuseppe Tovini, La Scuola, Brescia 1954; Id., La vita e l’opera di Giuseppe Tovini, La Scuola, Brescia 1962; A. Cistellini et al., Giuseppe Tovini nel suo tempo, La Nuova Cartografica, Brescia 1977; A. Fappani-R. Conti (a cura di), Protagonisti del movimento cattolico bresciano, Ed. del Moretto, Brescia 1981, pp. 240-243, ad vocem; M. Taccolini, Giuseppe Tovini e la nascita di «Scuola Italiana Moderna», in M. Cattaneo-L. Pazzaglia (a cura di), Maestri educazione popolare e società in «Scuola Italiana Moderna» 1893-1993, La Scuola, Brescia 1997, pp. 53-81; L. Pazzaglia (a cura di), Editrice La Scuola, 1904-2004: catalogo storico, La Scuola, Brescia 2004, pp. 53-81, ad vocem; G. Scanzi, Giuseppe Tovini. Le opere e i giorni, La Scuola, Brescia 1999.

    [2] Dietro l’impostazione generale della Casati era rinvenibile - in parte - il modello scolastico prussiano, che offriva dopo gli studi elementari un percorso di studi umanistici costituito dal Gymnasium (scuola classica) e un percorso di studi utilitari nella Realschule (scuola tecnica); vi era, inoltre, una terza opzione rappresentata dalla Bürgerschule (scuola cittadina o scuola borghese), pensata come scuola di scarico della Realschule, non ripresa però dal sistema casatiano (si veda quanto osservato a tal proposito da: A. Gabelli, Le riforme urgenti dell’istruzione, in «Nuova Antologia», fasc. III, 1° febbraio 1883, p. 483).

    [3] V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1990), Il Mulino, Bologna 1990, pp. 250-251.

    [4] «Lo spirito della legge era senza dubbio nettamente accentratore, mirava cioè a stabilire una decisa prevalenza dell’amministrazione centrale su tutta l’organizzazione scolastica. Il che è dimostrato, a nostro avviso, non da pretesi poteri eccezionali che avrebbe avuto il ministro, ma dal fatto che gli organi che avrebbero dovuto limitare e controllare le prerogative del responsabile del dicastero, per il modo stesso con cui erano costituiti, non erano in grado di assolvere alla loro funzione» (cfr. G. Talamo, La scuola dalla legge Casati alla Inchiesta del 1864, Giuffré, Milano 1960, pp. 14-16).

    [5] V. Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, [1995], nuova ediz. accresciuta, Einaudi, Torino 2006, p. 4.

    [6] G. Bertagna, Autonomia. Storia, bilancio e rilancio di un’idea, La Scuola, Brescia 2008, pp. 25-26.

    [7] M.C. Morandini, Da Boncompagni a Casati: la costruzione del sistema scolastico nazionale (1848-1861), in L. Pazzaglia-R. Sani (a cura di), Scuola e società nell’Italia Unita. Dalla Legge Casati al Centro Sinistra, La Scuola, Brescia 2001, pp. 9-10.

    [8] T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, [1963], Laterza, Bari 1991, pp. 108-109.

    [9] Cfr. P. Bourdieu, J.-C. Passeron, La riproduzione: teoria del sistema scolastico ovvero della conservazione dell’ordine culturale, [1970], trad.it., Guaraldi, Rimini 1972.

    [10] M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Il Mulino, Bologna 1974, pp. 18, 21.

    [11] C.G. Lacaita, Istruzione e sviluppo industriale in Italia 1859-1914, Giunti-Barbera, Firenze 1973, pp. 17-18.

    [12] Secondo quanto affermato dall’art. 272 della legge Casati, che dedicava l’intero Titolo IV al tema «Dell’istruzione tecnica». Per approfondimenti, si vedano le diverse prospettive di: A. Tonelli, L’istruzione tecnica e professionale di stato nelle strutture e nei programmi da Casati ai giorni nostri, Giuffré, Milano 1964; F. Hazon, Storia della formazione tecnica e professionale in Italia, Armando, Roma 1991; C.G. Lacaita-M. Fugazza (a cura di), L’istruzione secondaria nell’Italia unita 1861-1911, FrancoAngeli, Milano 2013.

    [13] M.A. Manacorda, Storia illustrata dell’educazione. Dall’Antico Egitto ai giorni nostri, Giunti, Firenze 1992, p. 202.

    [14] G. Castelli, L’istruzione professionale in Italia, Vallardi, Milano 1915, p. 41.

    [15] C.G. Lacaita, Istruzione e sviluppo industriale in Italia 1859-1914, cit., pp. 72-73.

    [16] G. Bertagna, L’istruzione tecnica e la formazione professionale, in M. Bocci (a cura di), «Non lamento ma azione». I cattolici e lo sviluppo italiano nei 150 anni di storia unitaria, Atti del convegno di studi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 24-25 novembre 2011, Vita e Pensiero, Milano 2013, pp. 62-63.

    [17] G. Gonella, Dalla legge Casati alla Costituzione democratica, in Id., Cinque anni al Ministero della Pubblica Istruzione, vol. 1: La rinascita della Scuola dopo la seconda guerra mondiale, Giuffré Editore, Milano 1981, pp. 74-100 [discorso tenuto dal Ministro Gonella il 24 ottobre 1949 al Senato della Repubblica a conclusione del dibattito sul Bilancio della P.I.].

    [18] G. Vigo, Istruzione e sviluppo economico in Italia nel secolo XIX, ILTE, Torino 1971, p. 74, prospetto n. 30: Tasso di frequenza scolastica in Italia negli anni 1863, 1881 e 1901, ricavato dai dati statistici riportati rispettivamente in: Statistica del Regno d’Italia, Istruzione pubblica e privata, Istruzione primaria, Firenze 1866; Statistica dell’istruzione elementare per l’anno scolastico 1881-82, Roma 1884; Statistica dell’istruzione primaria e normale per l’anno scolastico 1901-902, Roma 1906.

    [19] D. Bertoni Jovine, La legge Casati nella critica contemporanea, in «I problemi della pedagogia», n. 1, a. V, 1959, p. 117. Della medesima autrice si veda anche il saggio: Storia dell’educazione popolare in Italia, [1954], Laterza, Bari 1965, pp. 131-240.

    2. Continuità e discontinuità nei primi decenni postunitari fra Destra e Sinistra storica

    Il dato della scarsa diminuzione dell’alto tasso di analfabetismo in Italia nel primo decennio unitario confermava quanto i limiti dei criteri gerarchici ed elitari adottati dalla legge Casati avessero contribuito al suo fallimento, soprattutto sul piano della formulazione di una risposta adeguata alla cosiddetta «quistione sociale», come l’avrebbe definita lo storico positivista Pasquale Villari all’interno dell’intervento intitolato La scuola e la quistione sociale in Italia nella «Nuova Antologia» del 1872 . Fin dalle prime battute, egli mise in evidenza il nodo critico rappresentato da un sistema scolastico nazionale spezzato dopo la scuola elementare in due ordini di scuole, classiche e tecniche, fra loro gerarchicamente poste, ad immagine e somiglianza della divisione della società italiana in due popoli. Come tanti altri esponenti della classe liberale più avveduta, fra i quali Aristide Gabelli, Villari rifiutava di appellarsi alla «facile e retrograda scorciatoia del controllo sociale attraverso l’ignoranza», preferendo concepire la scuola come «un potente fattore di regolazione sociale» e «una via obbligata alla modernizzazione» [1] . Tale posizione non comportò, parimenti, l’adozione di nuove strategie di azione nei confronti del popolo, che sempre più premeva alle porte del palcoscenico nazionale, continuando a ritenere che il miglioramento delle sue condizioni di vita – pur necessario, per far fronte alla piaga della miseria – non dovesse mettere in discussione gli equilibri sociali pre-esistenti. E, ancor più, non riconobbe il valore formativo della «cultura popolare» e del «sapere delle mani» di cui era portatore, indispensabile per superare quella concezione dell’istruzione come processo governato dall’alto, strettamente legato alla funzione di socializzazione politica delle masse.

    Il riferimento a Villari rappresenta l’occasione per riflettere attorno a come l’allargamento delle basi sociali dello Stato, prefigurato dall’ampliamento del suffragio maschile con la legge del 1872 e dall’innalzamento dell’obbligo di istruzione con la legge Coppino del 1877, non intese mettere in discussione un’idea di popolo come «anima collettiva che si manifestava in forme prerazionali e mitiche e, non di rado, in scomposti e pericolosi episodi d’insubordinazione», oggetto di costante disciplinamento attraverso la scuola elementare e l’esercito [2] . Tale limite continuava a persistere, nonostante l’interesse del positivismo pedagogico italiano ad avviare un processo di rinnovamento dei metodi di insegnamento-apprendimento, di miglioramento della preparazione degli insegnanti, di ampliamento dei contenuti dei programmi di insegnamento e, più in generale, di attenzione alle condizioni ancora precarie (sul triplice piano materiale, morale e culturale) in cui si faceva scuola. Segno ne era quanto affermato ancora da Villari in un altro passo del suo intervento nella «Nuova Antologia»: «Che volete che faccia dell’alfabeto colui, a cui manca l’aria e la luce, che vive nell’umido e nel fetore, che deve tenere la moglie e le figlie nella pubblica strada tutto il giorno? Non otterrete mai nulla. E se un giorno vi riuscisse d’insegnare a leggere ed a scrivere a quella moltitudine, lasciandola nelle condizioni in cui si trova, voi apparecchiereste una delle più tremende rivoluzioni sociali. Non è possibile che, comprendendo il loro stato, restino tranquilli. Ecco dunque un problema sociale della più alta importanza, messo davanti a voi» [3] .

    La tendenza al mantenimento dello status quo fu corroborata negli anni di governo della Sinistra storica dalla scelta di intervenire in campo scolastico per via esclusivamente burocratica, attraverso circolari e regolamenti ministeriali [4] , e anche da un minor investimento in termini economici, decisione quest’ultima su cui aveva pesato la maturazione di un nuovo atteggiamento nei confronti dell’istruzione,

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