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Sentieri ripresi: Studi in onore di Nadia Boccara
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E-book510 pagine8 ore

Sentieri ripresi: Studi in onore di Nadia Boccara

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Info su questo ebook

Raccogliamo in questo omaggio a Nadia Boccara una serie di testi che i colleghi e amici dell’allora Facoltà di Lingue e dell’attuale Dipartimento di Scienze Umanistiche, del Turismo e della Comunicazione hanno fortemente voluto per celebrare gli intensi anni passati insieme e per donare una ennesima dimostrazione di stima, affetto e riconoscenza. Gli articoli qui raccolti sono incentrati non tanto sugli approfondimenti filosofici sui quali Nadia Boccara ha basato buona parte della sua carriera accademica, quanto quelli legati al secondo amore della nostra collega: quello cioè del viaggio e della scrittura di viaggio da intendersi come momento di scoperta dell’altro e del diverso, ma per converso, anche di conoscenza e approfondimento di sé. Storici, letterati, anglisti, francesisti, lusitanisti e quant’altri trovano infatti sul terreno comune delle esperienze di viaggio quel luogo immateriale di incontro e confronto che Nadia Boccara ha sempre frequentato. 
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2022
ISBN9788878535046
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    Anteprima del libro

    Sentieri ripresi - Stefano a cura di Pifferi

    PREMESSA

    Per sempre me ne andrò per questi lidi,

    Tra la sabbia e la schiuma del mare.

    L’alta marea cancellerà le mie impronte,

    e il vento disperderà la schiuma.

    Ma il mare e la spiaggia dureranno

    In eterno

    Kahlil Gibran, poeta libanese.

    Potrei iniziare il ricordo di Nadia Boccara dai versi di Gibran per far comprendere quanto sia stato ed è forte il legame che ci unisce. La sabbia, la schiuma del mare cancellano le impronte e quindi potremmo pensare che tutto sia effimero oppure sia fugace ma ciò non è del tutto vero.

    Le impronte spariscono ma il mare e la spiaggia durano in eterno. Così è il legame che unisce Nadia e la mia persona. Siamo mare e spiaggia e dunque la nostra amicizia eterna.

    Ho conosciuto Nadia fin dal lontano 1989 e mi ha accolto con simpatia, come se ci conoscessimo da sempre. Ho trovato in lei una Collega intelligente, colta, amabile e sensibile. In lei spesso mi sono rifugiato e in me Nadia ha trovato rifugio. Amica e studiosa di Jean Starobinski che ha fatto conoscere agli studenti dell’allora Facoltà di Lingue, ha fortemente indirizzato i suoi studi su Montaigne, Rousseau e tanti altri dopo essere partita dal ’700 scozzese ed aver analizzato la teoria e fenomenologia delle passioni in David Hume e le sue fonti letterarie francesi.

    Nel campo della problematica morale del noto scozzese ha scandagliato la differenza tra Filosofia profonda, coltivata dai filosofi astratti, e Filosofia facile espressa nei moralisti francesi quali, ad esempio La Rochefoucauld, La Bruyère; ma ha anche studiato il tema delle Passioni altruistiche e Passioni egoistiche sempre in David Hume.

    Solo in questi ultimi anni ho scoperto una nuova Nadia studiosa di se stessa ovvero personaggio che ha cercato nel suo io e nel suo passato le risposte ai tanti perché della vita, della sua propria vita. Dunque un viaggio a ritroso, un viaggio verso casa.

    Il tema del viaggio non era, e non è certamente nuova a Nadia Boccara. É un tema che ha affrontato da studiosa della Filosofia morale con passione e dedizione offrendo a studenti e studiosi pagine originali e indimenticabili.

    Nadia Boccara in tutti questi anni di servizio prima presso la Facoltà di Lingue e poi migrata come tanti altri suoi colleghi nel Dipartimento DISUCOM è stata per me un punto di riferimento. Sapevo che potevo contare su di lei che mai sarebbe venuta meno alla parola data. Infine proprio per sottolineare quanto siamo uguali per certi aspetti, Nadia Boccara ha posto sempre al centro della sua azione educativa lo studente ed ha sempre condiviso con me la convinzione che noi esistiamo in quanto docenti perché ci sono gli studenti che hanno sentito parlare di questo o di quel docente ed hanno letto questa o quell’opera.

    A nome del Dipartimento e mio personale voglio ringraziare Nadia Boccara per tutto il lavoro fatto, la voglio ringraziare per la sua amicizia, la sua vicinanza sapendo che il suo pensionamento è solo una tappa del viaggio che ci accomuna.

    Il Direttore

    Prof. Gaetano Platania

    INTRODUZIONE

    A far da collante in questo omaggio che il Disucom vuole giustamente spendere a favore della collega Nadia Boccara c’è ovviamente il legame affettivo e professionale che a vari livelli e a vario titolo ha unito tutti gli appartenenti al Dipartimento di Scienze Umanistiche, della Comunicazione e del Turismo e prima alla Facoltà di Lingue alla squisita e sempre disponibile amica. Ad osservare, però, più approfonditamente la raccolta di contributi che ho avuto l’onore di curare, c’è anche qualcosa d’altro. Ad amalgamare gli interventi di studiosi così diversi per interessi accademici, provenienza e finalità, a divenire terreno comune in grado di omogeneizzare i vari linguaggi dei numerosi scritti è infatti un terreno per sua natura di confine, multidisciplinare, aperto a commistioni e deflagrazioni tra materie: quello che genericamente chiameremmo del viaggio e delle scritture di viaggio.

    È infatti questo il terreno d’incontro sul quale gli amici e i colleghi hanno deciso di incontrarsi perché è su quel terreno che le ricerche filosofiche di Nadia Boccara si sono sviluppate negli ultimi anni d’accordo con una scelta di Facoltà, prima, e di Dipartimento, poi, che ha prediletto in maniera quasi naturale e simbiotica, com’è possibile in una terra di transito come quella della Tuscia viterbese, l’approfondimento e l’analisi di una tematica insieme così vasta e suggestiva, varia e stimolante quale è quella legata al fenomeno del viaggio: affrontata di volta in volta dal punto di vista storico o letterario, filosofico o antropologico, in grado di interessare l’esperto del documento così come il traduttore, il filologo come l’italianista, lo storico delle società, l’informatico umanista, l’anglista, il lusitanista ecc ecc..

    È così che leggendo gli eterogenei contributi dei colleghi si noterà come questa tendenza sottotraccia – fortemente voluta tra gli altri dalla stessa Nadia Boccara sul finire degli anni ’90, quando con un seminario intercattedra si affrontò per la prima volta, nella allora Facoltà di Lingue, la tematica del viaggio attraverso le numerose prospettive e sfaccettature che le varie discipline coinvolte potevano offrire – sia in realtà un vero e proprio asse portante su cui la Facoltà e il Dipartimento hanno costruito e stanno costruendo la propria credibilità. Ecco così un Dottorato incentrato sui temi del viaggio e dell’Odeporica in Età Moderna, affrontato, col supporto e l’impegno della stessa Nadia Boccara, attraverso la lente dello sviluppo teorico-metodologico così come da quello della storia del documento, della filosofia come dell’antropologia, a testimonianza di questa apertura e dei vari travasi tra discipline che una tematica così ampia può offrire. Ecco così l’affastellarsi di indagini in apparenza distanti cronologicamente e tematicamente ma in realtà figlie di una unica sensibilità verso l’alterità, passando con nonchalance dall’area degli anglisti (la Livorno di Addison, l’Inghilterra dei nuovi inglesi come Naipaul, lo Swift viaggiatore tra le parole offertoci da Alba Graziano, ecc.) a quella della francesistica (il Valery italiano propostoci da Anna Del Giudice) o della lusitanistica (il viaggio nell’arabistica portoghese di Maria Antonietta Rossi o le esplorazioni portoghesi in terra d’Africa di Mariagrazia Russo), attraversando l’Età Moderna degli outsider (penso agli interessi e alle scritture di viaggio di Mariana Candidi Dionigi e Gianbattista Brocchi analizzati da Cinzia Capitoni) e quella contemporanea, passando per l’Europa dell’Est (i diplomatici moscoviti diretti verso la città Caput Mundi di Platania così come gli sguardi altri donati da Raffaele Caldarelli e Beata Dagmara Wienska), coinvolgendo dottorandi e collaboratori (Cristina Carosi, Alessandro Boccolini, Selena Perco, Piera Cipriani, Francesca Romana Stocchi) come colleghi e amici, allungando lo sguardo su scritture di viaggio particolari come la guidistica o filtrando quello sguardo altro attraverso la lente fotografica ed amatoriale di un uomo della contemporaneità come Luigi Ciofi degli Atti. Una serie infinita di frammenti, tessere di un mosaico che si riuniscono in un affresco più ampio e in continua evoluzione da cui non è e non è mai stata esente anche Nadia Boccara stessa.

    Quello del viaggio filosofico, infatti, è stato anche uno dei temi di ricerca e approfondimento prediletti dalla collega Boccara, di cui il titolo della presente raccolta non è che una minima testimonianza. Dal caro Michel de Montaigne, sviscerato come pensatore in movimento, al viaggio come conoscenza e riconoscimento di sé, come momento di (auto)identificazione nella ricerca di una posizione nel mondo o, per rubare le parole al Direttore Platania, di scavo nel proprio io e nel proprio passato alla ricerca delle "risposte ai tanti perché della vita, della sua propria vita. Dunque un viaggio a ritroso, un viaggio verso casa".

    Stefano Pifferi

    THE ENIGMA OF ARRIVAL IN VIAGGIO CON V.S. NAIPAUL VERSO L’INASPETTATO CUORE DI TENEBRA

    Cristina Benicchi

    immagine 1

    Giorgio De Chirico, L’enigma dell’arrivo, 1912

    Il cuore di tenebra – cui il titolo fa riferimento – evoca intenzionalmente il romanzo di Joseph Conrad, Heart of Darkness, sebbene, distinguendosi come approdo inatteso, anticipi un’intertestualità rovesciata. Marlowe – personaggio archetipico del colonizzatore/esploratore – compie il suo viaggio di scoperta in un continente, l’Africa, che Conrad raffigura come ‘il grande ignoto’, lo spazio sconosciuto nel quale ogni cosa non può che essere inaspettata, oscura, per lo più impenetrabile. Contrariamente a Marlowe, il protagonista di Naipaul, ha – o meglio, crede di avere – una profonda conoscenza del luogo di arrivo del suo viaggio, l’Inghilterra appunto. Non uno spazio qualunque su una mappa, ma il luogo di cui, nelle scuole di Trinidad, ha appreso la geografia, la storia, la cultura, la letteratura e certamente la lingua. Se l’Africa è per Marlowe il cuore di tenebra, l’Inghilterra è per il narratore di Naipaul la luce, la proiezione di tutte le sue conoscenze e aspettative. Tuttavia, in un complesso intreccio narrativo, Naipaul decostruisce questo paradigma e trasforma il viaggio in un capovolgimento della scoperta [1] , in cui l’arrivo – anziché essere conferma delle conoscenze del protagonista – ne esaspera drammaticamente l’inconsistenza e l’inattendibilità, rendendole mendaci quanto i preconcetti di Marlowe sull’Africa. È allora che l’Inghilterra si rivelerà come il grande enigma e da allora avrà inizio il vero viaggio della scoperta verso la consapevolezza dello spazio, ora drammaticamente e inaspettatamente ignoto, ma soprattutto di se stesso. Anche per Naipaul, dunque, come accade per numerosi scrittori post-coloniali, lo sviluppo della conoscenza di sé e la conseguente definizione della propria identità passa attraverso la conoscenza empirica della realtà, rifuggendo qualunque storica e retorica (pre)determinazione.

    L’intertestualità del titolo di questo contributo non prescinde, certamente, da quella palesemente suggerita dal titolo del romanzo, The Enigma of Arrival, dichiaratamene ispirato, in effetti, dall’omonimo quadro del pittore surrealista Giorgio De Chirico del 1912, e nel quale il protagonista di Naipaul si imbatte, sfogliando le polverose pagine di un vecchio libro ritrovato in un cottage inglese:

    The booklet, from a series called ‘The Little Library of Art’, was about the early paintings og Giorgio de Chirico. There were about a dozen reproductions of his early paintings. [...] But among these paintings there was one which, perhaps because of its title, cauht my attention: ‘The Enigma of Arrival’. I felt that in an indirect, poetical way the title referred to something in my own experience. (91)

    A catturare l’attenzione del narratore è soprattutto il titolo dell’opera di De Chirico, che più tardi scoprirà ideato dal poeta Guillaume Apollinaire. Si cimenta, poi, in una minuziosa analisi del quadro, con dovizia di particolari da storico dell’arte:

    A classical scene, Mediterranean, ancient-roan – or so I saw it. A dwarf; in the background, beyond walls and gatways (like cut-outs), there is the top of the mast of an antique vessel; on an otherwise deserted street in the foreground there are two figure, both muffled, one perhaps the person who has arrived, the other perhaps a native of the port. The scene is of desolation and mystery: it speaks of the mystery of arrival. It spoke to me of that, as it had spoken to Apollinaire. (91-92)

    Nella scena ritratta da De Chirico, il narratore – forse non del tutto immune dall’influenza dell’interpretazione di Apollinaire – scopre una fertile simbologia, evocativa dell’esperienza del viaggio e in particolare del grande mistero celato dall’arrivo. Due sono le figure ammantellate che egli riconosce nella scena e che, simbolicamente, rappresentano il viaggiatore, colui che è appena arrivato, e il nativo, colui che né arriva né parte. Il primo, con la veste rossa, dà le spalle all’oceano – ben immaginabile al di là di quel muro che, lasciando intravedere la vela della barca, ne rende certa la presenza – e appare in procinto di muoversi ancora; l’altro, invece, pur diretto verso l’oceano, sembra immobile e, lievemente chino su se stesso, suggerisce una non volontà di scorgere oltre il muro che ha di fronte. Al di là della dicotomia viaggiatore-nativo, o piuttosto colonizzato-colonizzatore, il narratore percepisce un dualismo che al lettore più attento suggerisce non soltanto l’opposizione di due individui differenti, bensì quella lotta interiore vissuta dal soggetto coloniale tra identità e alterità, il qui e l’altrove, il presente e il passato. È da questa lotta che scaturisce il vero enigma dell’arrivo e ad essa cercherà di porre fine il narratore di The Enigma of Arrival.

    Il carattere semi-autobiografico di The Enigma of Arrival impone una doverosa digressione sulla biografia [2] dell’autore che, peraltro, è paradigmatica delle realtà coloniali come i Caraibi in cui la pluralità culturale e linguistica rende complessa e al contempo inverosimile qualunque definizione che non le contempli.

    Vidiadhar Surajsprasad Naipaul – vincitore del premio Nobel per la Letteratura nel 2001 e oggi considerato il più grande scrittore vivente di lingua inglese – nasce nel 1932 a Chaguanas una piccola città nel cuore di Trinidad. Nel 1938 la famiglia abbandona la zona rurale dell’isola, adibita per lo più alla coltivazione della canna da zucchero, e si trasferisce a Port of Spain. I genitori di Naipaul sono immigrati indiani di seconda generazione, discendenti di una famiglia dell’alta casta dei Bramani. Tuttavia, proprio l’appartenenza ad una casta nobiliare Indù non rende agevole la loro vita a Trinidad ,dove il concetto stesso di casta, non solo sembra non avere alcun significato, ma si scontra con la ampia e composita comunità creola dell’isola. È forse per questa stessa ragione che Naipaul, ancora giovanissimo, rifiuta l’Induismo e incapace di inserirsi nella comunità indo-caraibica di Trinidad sente di non appartenere a quell’isola, di non poterla riconoscere come la sua casa. Naipaul trova rifugio nello studio e al Queen’s Royal College di Port of Spain, tra il 1943 e il 1949, riceve quell’istruzione coloniale che pone al centro del suo percorso formativo la cultura inglese, stimolando in lui un profondo senso di ammirazione e curiosità verso l’Inghilterra. E proprio nel cuore dell’Inghilterra lo condurrà la sua passione per lo studio. Nel 1950, infatti, vince una borsa di studio quadriennale per lo University College di Oxford. Giunto nella cattedrale della cultura britannica, nel centro indiscusso dell’Impero, Naipaul intraprende un percorso di formazione accademica e personale che contribuisce ad aumentare la distanza tra lui e il suo mondo originario, forgiandone un’identità irrimediabilmente sospesa e in continuo divenire. Dopo essersi laureato, infatti, entra, come giornalista freelance, in un altro tempio della cultura britannica, la BBC per conto della quale, tra il 1954 e il 1956, dirige il programma radiofonico Caribbean Voices. Nel 1955 sposa Patricia Ann Hale. Nel 1970 si reca a Trinidad intenzionato a vivere nell’isola natale, ma, dopo mesi di continue peregrinazioni tra un paese e l’altro, alla fine dello stesso anno tornerà in Inghilterra per trascorrere lì la sua vita. Negli anni Settanta, Naipaul è spesso all’estero, in Africa, in India, in Sud America e negli Stati Uniti, ma nonostante i suoi innumerevoli viaggi la maggior parte del tempo la trascorre nello Wiltshire, in Inghilterra, dove decide di ambientare anche The Enigma of Arrival.

    L’influenza delle vicende personali nella scrittura è qualcosa che appartiene alla dimensione autoriale ed emerge in ogni opera, a prescindere dal genere, non meno di quanto accada in quella dichiaratamente autobiografica. Nel caso di Naipaul, dunque, se il dato autobiografico è evidente in The Enigma of Arrival – una sorta di biografia autografa e romanzata del narratore – lo è altrettanto nell’intera sua produzione letteraria in cui Timothy F. Weiss [3] delinea tre fasi distinte riconducibili a tre diverse fasi esistenziali dello scrittore, il cui punto di vista tripartito risulta outside prima, in-between poi e infine among. Secondo l’analisi di Weiss, da lui stesso considerata efficace ma semplicistica, alla prima fase appartengono le opere in cui Naipaul osserva la colonia, Trinidad in particolare, da fuori – da qui outside – dall’Inghilterra, dallo spazio appena raggiunto e, quindi, da una prospettiva che sembra rivolta ad un pubblico britannico o comunque occidentale. Il suo sguardo è decisamente critico nei confronti di Trinidad e delle colonie in generale; questo stesso atteggiamento critico persiste anche nella seconda fase, focalizzata però su Trinidad tanto quanto sull’Inghilterra, sospesa, appunto, come ricorda la definizione in-between di Weiss; e infine nella terza fase, Naipaul dà ampio spazio agli aspetti più intimi e personali dell’esperienza multiculturale. A questa terza fase appartiene The Enigma of Arrival, un’autobiografia romanzata nella quale l’autore – pur trovandosi among, cioè in mezzo ad una molteplicità di realtà differenti – guarda dentro di sé, per scoprire quanto il suo vissuto e la soggettiva esperienza del mondo circostante abbiano modellato la sua identità come uomo e, soprattutto, come scrittore. La consapevolezza di Naipaul di non essere più sospeso tra ma piuttosto in mezzo a, muta radicalmente il suo punto vista. Egli non avverte più l’ansia di appartenenza all’una o all’altra parte dei due estremi, della irriducibile dicotomia che per anni ha dominato la sua esistenza e la sua scrittura, opponendo Trinidad all’Inghilterra. In questa terza fase, Naipaul ha raggiunto una maturità intellettuale, tale per cui quella dicotomia non ha più ragione di esistere ora che gli elementi da essa contrapposti – Oriente e Occidente – trovano entrambi rifugio nello spazio interiore dello scrittore. Egli è perfettamente adagiato in mezzo a questo multiculturalismo, non lo rifiuta e non cerca di annullarne l’essenza, ma ne ha piena coscienza, ragion per cui non va alla ricerca di un punto di vista univoco e predeterminato.

    The Enigma of Arrival non solo può essere collocato nella fase della maturità letteraria di Naipaul, bensì analizzato come il racconto del percorso che proprio fino a qui ha condotto l’autore. Il romanzo, da questo punto di vista, è riconducibile al genere del romanzo di formazione, dal momento che narra la formazione del protagonista, il suo farsi uomo e scrittore al tempo stesso e, soprattutto, la presa di coscienza di questo processo. Per questa ragione, probabilmente, Judith Levy [4] rintraccia nel romanzo i motivi del mito delle origini e l’autobiografia dell’ io post-coloniale di Naipaul, del quale l’autore acquisisce piena cognizione soltanto scontrandosi e confrontandosi con l’Inghilterra, quella terra dolorosamente enigmatica in cui, al momento della stesura del romanzo, vive ormai da vent’anni e che, non a caso dunque, è scenario per lo più esclusivo e personaggio essa stessa della narrazione.

    Il romanzo, sebbene autobiografico, non rispetta nessuna linearità cronologica e le cinque parti che lo compongono – ‘Jack’s Garden’, ‘The Journey’, ‘Ivy’, ‘Rooks’ e ‘The Ceremony of Farewell’ – si susseguono in una diegesi narrativa ricca di analessi e prolessi per cui gli eventi e le informazioni sui luoghi e i personaggi, compreso il protagonista, si svelano al lettore gradualmente e al momento stesso della lettura, costringendolo a mettere in discussione costantemente quanto era stato dato per certo fino alla pagina precedente. Il romanzo si apre con ‘Jack’s Garden’, ambientato nei primi anni Settanta, a circa vent’anni dall’arrivo di Naipaul in Inghilterra. Prosegue con ‘The Journey’, in cui, invece, la narrazione torna indietro di vent’anni per raccontare il viaggio del narratore da Trinidad all’Inghilterra e soffermarsi, poi, sul suo primo mese a Londra. Le due sezioni successive, ‘Ivy’ e ‘Rooks’, seguono cronologicamente ‘Jack’s Garden’ e i dettagli temporali, seppur non espliciti, sono comunque inseriti nel racconto, affinché il lettore possa rintracciare dei punti di riferimento – in ‘Ivy’, ad esempio, il protagonista conta gli anelli di un tronco di ciliegio, da cui si evince l’anno, il 1977 – e afferrare la circolarità del racconto. Nell’ultima parte, ‘The Ceremony of Farewell’, che è anche la più breve, il narratore, come a chiudere il cerchio appunto, inizia a scrivere The Enigma of Arrival. La complessità della struttura diegetica del romanzo sollecita una lettura attenta e minuziosa, mai (pre)determinata, bensì volubile e in costante ridefinizione. Caratteristiche queste che sembrano legarla indissolubilmente al contenuto che va diffondendo, ovvero il complesso, enigmatico e interminabile processo di tras-formazione dell’identità post-coloniale incarnata non già da un migrante qualunque, ma da un giovane scrittore migrante. Il viaggio che egli compie, da Trinindad all’Inghilterra, è rappresentativo della ricerca di un’identità che egli scoprirà fluida e mutevole alla fine di un articolato percorso dentro la Englishness e, inevitabilmente, dentro se stesso. Rifiutando il ruolo tanto di soggetto coloniale, immigrato o piuttosto uomo di colore quanto l’assimilazione alla bianca Inghilterra, il protagonista di The Enigma of Arrival metterà in discussione le barriere e i limiti della cultura inglese, verso la quale sin subito dopo l’arrivo a Londra nutrirà sentimenti di familiarità e alienazione [5] .

    Se il punto di vista del protagonista e la sua stessa esperienza narrativa lo rendono indiscutibilmente l’alter ego di Naipaul, resta tuttavia da capire quale sia il confine tra la narrativa autobiografica e l’autobiografia [6] . Mark McWatt, a questo proposito, sostiene l’esistenza di un nesso imprescindibile tra la storia coloniale dei Caraibi e il genere autobiografico, come se l’unico personaggio narrativo possibile fosse un io fortemente autobiografico e reale. Inoltre, presupposto fondamentale del colonial discourse [7] è la costruzione concettuale dell’alterità, per cui i «mondi abitati dai colonizzati sono stati parzialmente immaginati o generati per loro dal discorso europeo» [8] . L’assenza di un discorso pre-coloniale da opporre al discorso europeo è colmata dall’autobiografia narrativa, che rappresenta, come ricordato da Levy, una sorta di mito delle origini in cui il confine tra realtà e finzione è estremamente labile. Accade, dunque, che per quanto la vita del protagonista ricordi quella di Naipaul, sia comunque privata di avvenimenti decisamente fin troppo significativi per essere esclusi da un’autobiografia, ma assolutamente sacrificabili alle esigenze della narrazione autobiografica. Il giovane narratore, dopo tutto, non è Naipaul e la sua esistenza narrativa richiama alla memoria quella dello scrittore di Trinidad, ma di fatto non lo è. Non desta stupore, pertanto, che dal racconto della vita nella campagna inglese sia completamente esclusa la moglie del narratore, la donna che, invece, nella vita reale di Naipaul ha condiviso con lui quest’esperienza. Rob Nixon riconduce le ragioni di una simile scelta all’esigenza di isolare il protagonista nella realtà rurale inglese:

    [...] to achieve that elevated solitude – to survey his own presence in that pastoral scene [...] Her acknowledged presence would have jeopardized the uninterrupted ‘I’ who is wedded to the Wiltshire landscape and, through it, gains entry into the lineage of romantic English pastoral [9] .

    L’isolamento – necessario a delineare l’intensa relazione tra il giovane scrittore e il paesaggio inglese dello Wiltshire cui egli risulta devotamente ‘sposato’– verrebbe addirittura minato dalla presenza della moglie, da qui il suo sacrificio letterario. Non l’unico, inoltre, dal momento che se si volesse considerare The Enigma of Arrival come una vera autobiografia di Naipaul, numerosi risulterebbero gli avvenimenti e i personaggi esclusi. Tuttavia, il carattere fittizio, seppur indiscutibilmente autobiografico, legittima certe omissioni a favore di una narrazione in cui luoghi, eventi e personaggi sono tratteggiati secondo il punto di vista esclusivo del protagonista, per cui la loro assenza o la loro percezione è del tutto ancillare alla definizione dell’identità del narratore.

    A differenza di molti romanzi post-coloniali ambientati nella città occidentale e in particolare a Londra, The Enigma of Arrival si svolge quasi interamente nella campagna inglese, ritenuta probabilmente la vera custode della Englishness, la cui autenticità, invece, risulterebbe minacciata dal multiculturalismo metropolitano, come afferma Jean Popeau:

    The English village may be said to be the last redoubt and container of the peculiarity which is Englishness. The towns and cities have long become multicultural reflections of various migrations and movements […]. It is the English village which may legitimately claim the rural dreams and aspirations of those Englishmen hankering after a pastoral Eden associated with a certain strain of values encapsulated by ‘Englishness’ [10] .

    Inoltre, per quanto inusuale, la scelta di Naipaul gli consente di inventare un nuovo genere letterario, il «pastorale post-coloniale», in cui il narratore rivela un privilegiato ed esclusivo punto di vista soggettivo ed interiore sull’esperienza coloniale:

    In composing The Enigma of Arrival, Naipaul invents postcolonial pastoral. There is decidedly no other British writer of Caribbean or South Asian ancestry who would have chosen a tucked away Wiltshire perspective from which to reflect on the themes of immigration and postcolonial decay. It is a place where Naipaul stands alone as an oddity, and the result is a self-engrossed, deeply solitary, almost evacuated, though powerful work [11] .

    Il primo capitolo, ‘Jack’s Garden’, si apre nel contesto rurale di Waldenshaw, l’isolato villaggio dello Wiltshire, dove il protagonista ha deciso di trasferirsi a venti anni di distanza dal suo arrivo in Inghilterra. Sono sufficienti i primi due paragrafi a definire lo spirito di osservazione del narratore e quel carattere contemplativo e descrittivo che accompagnerà l’intero racconto:

    For the first four days it rained. I could hardly see where I was. Then it stopped raining and beyond the lawn and outbuildings in front of my cottage I saw fields with stripped trees on the boundaries of each field; and far away, depending on the light, glints of a little river, glints which sometimes appeared, oddly, to be above the level of the land.

    The river was called the Avon; not the one connected with Shakespeare. Later – when the land had more meaning, when it had absorbed more of my life than the tropical street where I had grown up – I was able to think of the flat wet fields with the ditches as water meadowsor wet meadows, and the low smooth hills on the background, beyond the river, as downs. But just then, after the rain, all that I saw – though I had been living in England for twenty years – were flat fields and a narrow river [12] .

    Ma in questo incipit c’è molto più di una dichiarazione di poetica. In esso sono racchiusi i fondamenti tematici del romanzo: dal senso di alienazione alla dicotomia Trinidad / Inghilterra, dalla mappatura geografica all’appropriazione linguistica e, ancora, dalla percezione del luogo a quella dell’io, passando per la malinconica presa coscienza dell’incapacità di comprenderli appieno entrambi. Nonostante siano trascorsi vent’anni dal suo arrivo, il narratore continua a percepire la sua estraneità al luogo, confermata dal ricordo della «strada tropicale» sovrapposto all’immagine di una campagna inglese che trasuda Englishness, perfino dai suoi elementi naturali, a partire dal fiume Avon, evocativo del luogo natale di Shakespeare. Il tempo, il narratore sembra esserne certo, porrà fine alla distanza tra lui e il luogo e questo spartiacque verrà segnato da una maturità linguistica che gli consentirà di nominare lo spazio attorno a lui, attraverso la padronanza della più autentica toponomastica inglese. Ma per adesso, nonostante il ventennio trascorso, il protagonista si guarda intorno e ciò che vede è solo un paesaggio sfuocato dalla pioggia, in cui sembra impossibile distinguere ogni cosa, compresa la sua stessa persona. Le sue parole – «Riuscivo a stento a vedere dov’ero» (9) – sono dominate da una profonda incertezza, che persiste ancora più avanti nel testo quando afferma: «Vedevo tutto con estrema chiarezza ma non capivo ciò che guardavo» (10). Guardare e non vedere, dunque, osservare e non capire, perché nulla di ciò che si osserva è riconducibile a qualche reminescenza, interpretabile attraverso una conoscenza pregressa, magari pre-determinata dalle letture o piuttosto dagli studi passati. Quando il narratore realizza che nulla di quel paesaggio trova appiglio nella sua memoria, egli avverte una dolorosa precarietà: «Ero ancora come in una specie di limbo» (11), a cui cerca subito di porre rimedio rifugiandosi nell’apparente sicurezza della conoscenza letteraria, artistica e linguistica di ciò che lo circonda:

    There were certain things I knew, though. I knew the name of the town I had come to bytrain. It was Salisbury. It was almost the first English town I had got to know, the first I had been given some idea of, from the repreoduction of the Constable painting of Salisbury Cathedral in my third-standard reader. Far away in my tropical island, before I was ten. A four-color reproduction which I had come to was in one of the river valleys near Salisbury.

    Apart from the romance of the Constable reproduction, the knowledge I brought to my setting was linguistic. I knew that avon oiginally meant only river, just as hound originally meant a dog any kind of dog. And I knew that both elements of Waldenshaw – the name of the village and the manor in whose grounds I was – I knew that both walden and shawmeant wood. One further reason why, apart from the fairytale feel of the snow and the rabbits, I thought I saw a forest. (12-13)

    Il rifugiarsi nella conoscenza pregressa e non empirica o percettiva del luogo, non dà comunque stabilità al protagonista, il quale non manca di sottolineare l’assoluta soggettività della descrizione, scandendo il ritmo del racconto con la ripetizione costante del pronome I, come d’altra parte vuole la lingua inglese; un io che emerge visivamente dalla pagina e domina la narrazione con un punto di vista univoco e sicuro, quando esterna la sua cultura scolastica, eccedendo nell’uso del verbo sapere; ma irrimediabilmente instabile, quando si affida alla conoscenza sensoriale della realtà, limitandosi a credere o supporre di vedere una foresta o un fiume di fronte a lui.

    Al di là dell’inettitudine del narratore a sentirsene parte, il paesaggio è comunque protagonista di questo capitolo, e dell’intero romanzo, sin dal titolo. ‘Jack’s garden’, infatti, non solo presenta un personaggio, stimolando da subito la curiosità del lettore su chi egli sia veramente, ma lo associa al suo giardino, alla terra, anticipando quel legame tra l’uomo e il luogo vissuto, che per il narratore sarà fondamentale nel percorso di definizione di sé. Jack, infatti, si mostra al lettore, solo dopo che il narratore ne ha descritto il giardino, il cottage e perfino il fattore, quasi a vincolarne l’esistenza al suo essere parte integrante dello spazio. Condizione questa, che consente al narratore di afferrare l’umanità di Jack, ora non più «una figura nel paesaggio» (31) bensì un «uomo appropriato al paesaggio» (19). La trasformazione di Jack e la sua progressiva acquisizione di umanità lasciano trasparire un crescente e profondo senso di ammirazione nei suoi confronti da parte del narratore. Egli rimane affascinato dalla capacità di Jack di far parte dello spazio in cui vive, fino al punto di renderlo la sua casa, il suo mondo:

    The narrator admires Jack for his courage and dedication, but even more important, because he creates his home, his world [13] .

    Jack ha domato l’ambiente selvaggio, plasmandone la natura in uno spazio umano e naturale al contempo, come il giardino, non a caso rappresentativo di un autentico fenomeno culturale inglese. Nella dedizione di Jack alla terra, dunque, si ritrova una complessa simbologia che intreccia i molteplici e già citati temi del romanzo di Naipaul, consacrandolo a tutti gli effetti come il mito delle origini. Nella desolata campagna dello Wiltshire, il narratore vede tracce di umanità contrapposte al grande vuoto primordiale «di una terra disabitata, di principio di tutte le cose» (14) in cui il lavoro di Jack assume un enorme valore:

    The hedge was regularly clipped, the garden was beautiful and clean and full of changing colour, and the goose plot was dirty, with roughly built sheds and enamel basins and bowls and discarded earthenware sinks. Like a medieval village in miniature, all the various pieces of the garden Jack had established around the old farm buildings. This was Jack’s style, and it was this that suggested to me (falsely, as I got to know soon enough) the remnant of an old peasantry surviving here like the butterflies among the explosions of Salisbury Plain, surviving somehow Industrial Revolution, deserted villages, railways, and the establishing of the great agricultural estates in the valley. (22)

    Valore che si acuisce quando il narratore realizza che Jack – contrariamente a quanto immaginato, come anticipato nel brano precedente – non è originario dello Wiltshire, bensì un outsider, uno straniero proprio come lui che, dunque, può sentirsi sollevato e rassicurato dalla consapevolezza della fugacità della vita, segnata da un inarrestabile flusso che determina il cambiamento di tutto e di tutti.

    La maturità emotiva e la realizzazione come scrittore del protagonista avvengono, pertanto, nello Wiltshire, scenario praticamente esclusivo di una narrazione ciclica interrotta soltanto dal secondo capitolo ‘The Journey’, nel quale i molteplici viaggi narrati spostano lo scenario dalla campagna inglese ai Caraibi, passando per Londra e New York, con l’unico obiettivo di narrare gli eventi connessi alla scrittura, come ricorda Levy:

    The insertion of the section The Journey into the sequence of the cyclical sections on Wiltshire is a structural representation of the incorporation of the pre-Wiltshire existence into the rebirth at Wiltshire. This culminates a process both in the narrator’s life and in the strategy of the narrative as the creation of a myth of origin. It also focuses on the opposing tensions inherent in such a creation [14] .

    L’ambizione di studiare e diventare uno scrittore è la motivazione del viaggio iniziale da Trinidad all’Inghilterra e dei molti altri che seguiranno, compreso quello di ritorno nella terra natale, tutti contenuti nel secondo capitolo che più di ogni altro, tuttavia, racconta il viaggio interiore del protagonista alla scoperta di se stesso e della propria dimensione autoriale. In qualche modo, le vicissitudini di questi viaggi creano – come ricordato da Levy – il retroterra pre-Wiltshire necessario a valorizzare la rinascita del protagonista in Inghilterra certo, ma non a Londra – su cui la narrazione indugia per poche pagine – e non ad Oxford – addirittura esclusa completamente dal racconto, se non per un brevissimo cenno ai quattro anni che il protagonista vi ha trascorso – bensì nello Wiltshire. Qui approda il narratore dopo i suoi lunghi viaggi, ed esattamente nel villaggio di Waldenshaw si compie l’arrivo finale; non in un luogo reale, tuttavia, quanto piuttosto in uno stato mentale di pace, di consapevolezza di sé e, finalmente, di confortevole senso di appartenenza al luogo. La solitudine della campagna inglese è il grande catalizzatore dell’emotività del protagonista, a lei egli deve il «dono inatteso» (24) – per quanto agognato – della scrittura e della percezione più intima e profonda della propria identità:

    So the idea of antiquity, at once diminishing and ennobling the current activities of men, as well as the ideas of literature enveloped this world which [...] came to me as a lucky find of the solitude in which on many afternoons I found myself.

    [...] I suppose I had heard larks before. But these were the first larks I noticed, the first I watched and listened to. They were another lucky find of my solitude, another unexpected gift.

    [...] So in tune with the landscape had I become, in that solitude, for the first time in England. (24-25)

    Nell’ultima parte del romanzo, ‘The Ceremony of Farewell’, quando ormai cinquantenne il protagonista dichiara di voler scrivere The Enigma of Arrival, egli non fa mistero di come solo il ritorno nello Wiltshire, a seguito di un viaggio negli Stati Uniti nell’agosto del 1984 per partecipare alla Convenzione Repubblicana di Dallas, lo abbia spinto a farlo:

    It was only back in Wiltshire, away from the oppressiveness and handouts of the convention centre, that I began to be able to acknowledge what I had responded to: not the formal, staged occasion, but the things around the occsion. And suddenly, where there had been nothing to write about, there was a great deal: the experience of a week, all new, which, without the writing, would have vanished and been lost to me. With the discovery of that experience came the language and the tone appropriate to the experience. [...] I began immediately afterwards to write my book. I let my hand move. I wrote the first pages of many different books; stopped, started again. Then from apparently far away the memory of Jack, peripheral to my life, came to me; and with it the conviction to write of Jack was the best way to get strarted, to summon up the material of The Enigma of Arrival, to set the scene and themes, to indicate the timespread of the book I was intending to write. (310)

    Tuttavia, il tempo in cui è maturata – ovvero il triste momento della morte di Sati, la sorella del protagonista – ancor più dello spazio, rende significativa la genesi del romanzo. La morte irrompe nell’esistenza del narratore ricordandogli la transitorietà della vita umana. La scomparsa di Jack in Inghilterra e quella di Sati a Trinidad sono espressione di una caducità esistenziale che non conosce barriere di razza, genere o cultura, ma iscrive l’umanità tutta nel flusso ciclico, seppur imprevedibile, del cambiamento. Della medesima ciclicità si fa carico anche la struttura narrativa del romanzo che si chiude con il narratore in procinto di scrivere «molto rapidamente di Jack e del suo giardino» (356), ovvero la storia che il lettore, evidentemente, ha appreso nel primo capitolo. E d’altro canto, l’inizio e la fine del romanzo sembrano coincidere anche per quanto riguarda l’emotività del narratore. Nell’ultimo capitolo, assistiamo al suo ritorno a Trinidad per partecipare alla cerimonia funebre della sorella. Giunto sull’isola natale egli è assalito da un profluvio di emozioni contrastanti, che richiamano quanto già vissuto anni prima e ancora oggi in Inghilterra, come se entrambe queste realtà fossero pronte ora ad accoglierlo ora a respingerlo. Tuttavia, se l’Inghilterra dell’arrivo iniziale è uno spazio mai conosciuto empiricamente prima di allora, la Trinidad di questo ennesimo arrivo è invece la terra natale, già vissuta, sperimentata, e forse per questa stessa ragione irriconoscibile nei suoi mutamenti, quanto facilmente riconoscibile come la terra d’origine, con «la nostra fede e le nostre usanze» (350), ricorda il narratore:

    Something else was new to me: the pundit was being ‘ecumenical’in a way he wouldn’t have been when I was a child, equating Hinduism – speculative, many-sided, with animist roots – with the revealed faiths of Christianity and Mohammedanism [...] it was his way, in a changed Trinidad, of defending our faith and ways. (313)

    Eppure, oggi come allora, la

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