Il pozzo degli assassini
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Info su questo ebook
Romanzo intrigante, originale, che affronta il tema della memoria, l’ambiguità dei sentimenti umani, la potenza del destino. Si caratterizza per una prosa agile, fluida e ben dosata nella costruzione della suspense, in un calibrato sviluppo degli avvenimenti per giungere a uno scioglimento logico e avvincente.
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Anteprima del libro
Il pozzo degli assassini - Alberta Pungetti
1959
1
Antibes, domenica 4 marzo
Sotto un cespuglio di mirto dei poeti giaceva Camille, più morta che viva. Ma solo noi sappiamo che si trattava di Camille: per tutti, lei era soltanto una sconosciuta di cui si sarebbe cercata affannosamente l’oscura identità. Nel corso di alcuni giorni lei fu Juliette, Giselle, Pauline e altre donne ancora, in base alle molteplici voci, poi tutte smentite, che reclamavano il suo riconoscimento.
Priva di sensi, era coricata sul fianco destro, in una posizione fetale di tardiva autodifesa, con il volto girato di profilo, su un sentiero di ghiaia e pietrisco inclinato dolcemente verso il mare, che urlava gagliardo e bianco di spuma a un centinaio di metri da lei. Già, perché quella notte di inizio marzo, su quella tiepida, ospitale località della Costa Azzurra si era abbattuta una burrasca inconsueta e sorprendente. Un velo di neve aveva avvolto e in parte occultato il corpo della donna, come in un sudario naturale.
Eppure no, noi sappiamo che non si trattava di un sudario, ma solo di un temporaneo gelido mantello, perché il pugnale che aveva il compito di ucciderla non aveva portato a termine la sua impresa, lasciandole ancora un soffio di vita.
Fu una creatura notturna, Jamal, un clandestino nero, senza fissa dimora, che viveva aiutando i marinai a ricucire le reti in cambio di un piatto di minestra, a imbattersi in quel cumulo singolare, venato dal rosso del sangue che goccia a goccia stillava da una ferita all’altezza del ventre, e più abbondante scorreva tra i capelli da un taglio alla testa.
Il ragazzo si avvicinò, vide e subito comprese. La sua memoria corse ai cadaveri mascherati da un sottile strato di sabbia del deserto che aveva visto al suo paese, durante una guerra tribale. La curiosità o forse un presagio prevalsero sulla paura. Alla luce del cellulare soffiò via la neve da quei capelli e da quel viso, che subito rivelò lineamenti a lui noti. Incredulo, sbalordito, riconobbe la bella signora dagli occhi celesti che il sabato mattina gli aveva gentilmente offerto una sigaretta e poi nel pomeriggio aveva lasciato nelle sue mani scure l’intero pacchetto. Arretrò di qualche passo, inquieto: non era in grado di stabilire con certezza se la donna fosse viva o morta.
E ora lui, Jamal, il clandestino nero, cosa poteva, cosa doveva fare? La situazione era rischiosa, una minaccia alla sua vita già dura e insicura. Forse se si fosse trattato di una donna sconosciuta l’istinto gli avrebbe suggerito di scappare, di allontanarsi velocemente da quel luogo, teatro di un crimine. O forse no: chi può dire di conoscere con certezza l’anima di un clandestino? Di fatto per lei, la bella gentile signora dalla pelle bianchissima e gli occhi così chiari da sembrare trasparenti, Jamal sentì che doveva fare qualcosa e alla svelta. Compose sul cellulare un numero che conosceva a memoria e spiegò nel suo francese incerto il perché, il dove della chiamata.
Ora che aveva fatto la sua scelta, mise le mani in tasca e a testa alta attese l’arrivo della polizia.
A questo punto entro in scena io, cronista esterno e narratore per caso. Mi chiamo Gabriel Gautier, ho trentotto anni, un diploma all’Accademia di Belle Arti di Parigi, lavoro come vignettista satirico per il quotidiano Nice-Matin .
Il commissario Salvatore Lorrain, poco dopo mezzanotte, mi chiamò al telefono pregandomi di raggiungerlo al più presto al pronto soccorso dell’ospedale per tracciare l’identikit di una donna gravemente ferita, dato che, per il codice deontologico medico, non era lecito fotografarla senza l’autorizzazione di un parente accertato. Il primario per uno schizzo avrebbe chiuso un occhio.
Non era la prima volta che venivo incaricato di disegnare un identikit.
Si trattava solitamente di riprodurre l’immagine di un ricercato sulla base di testimonianze oculari. Ma questo caso era diverso e sul momento non compresi la necessità del compito che mi veniva affidato.
Tuttavia accorsi e giunto sul posto mi fu chiara la ragione del mio intervento e la relativa urgenza. Erano già in corso gli esami clinici necessari a diagnosticare le condizioni della donna, che giaceva in stato di coma, prima di portarla in sala operatoria. Per un minuto appena vidi il suo viso, o meglio quel che ne restava: il profilo sinistro, fatta eccezione per un ematoma, era integro, l’altra metà invece, sfigurata e violacea, era una maschera, un grumo di sangue scuro e di ghiaia, penetrata profondamente nella pelle in seguito alla violenta caduta; rotto il sopracciglio, bluastra e gonfia la zona oculare, una tumefazione sanguinante nei pressi dell’osso temporale, ben visibile sul cranio calvo, rasato dei suoi capelli biondi, per permettere il necessario intervento chirurgico.
Tracciai a grande velocità, in piedi, il profilo intatto: una mezza fronte spaziosa, la linea di un naso minuto con la narice piccola, un sopracciglio ad ala di gabbiano, l’occhio chiuso leggermente sporgente, una mezza bocca a ricciolo, il mento appena appuntito.
Il commissario Salvatore Lorrain, come lascia intendere il nome, era di padre francese e di madre italiana, pugliese per l’esattezza, e la sua fisionomia rispecchiava l’eredità materna. Moro, baffuto, di bassa statura, ma ben piantato e con un portamento eretto, trasmetteva già a prima vista una sensazione di solidità e di energia. Sul lavoro, infatti, si prodigava con zelo e diligenza meritando il rispetto e la considerazione dei suoi superiori. Con i suoi collaboratori era un uomo dotato di una tranquilla autorità. Lorrain era in definitiva uno di quegli uomini sempre più rari, di vecchio stampo, onesti e coscienziosi, che risultano preziosi in ogni campo di attività per la loro dedizione e senso di responsabilità.
Perché avesse scelto di entrare in polizia rimane tuttavia un mistero, dato che, nulla togliendo alla sua solerzia e al suo impegno, gli mancava forse, lo dico con una punta di malignità, un requisito importante, per non dire essenziale, in un detective: l’intuito, il cosiddetto sesto senso, che spesso determina il successo o il fallimento di un’indagine. Vero è che compensava tale mancanza di inventiva con il puntiglio e la tenacia, e anche con una qualità tutta sua, forse trasmessagli anch’essa dalla sua discendenza meridionale, vale a dire la tendenza al sospetto, la diffidenza che nutriva in abbondanza nei confronti di qualsiasi indiziato. Provava un piacere sottile a rovistare nella mente altrui.
Va detto per correttezza che nella nostra cittadina, tranquilla sotto il profilo del crimine, aveva avuto poche occasioni per impratichirsi; la delinquenza con cui solitamente doveva fare i conti l’attività del commissariato consisteva per lo più in qualche scasso, qualche ruberia, qualche rissa… L’ultimo omicidio risaliva a cinque anni prima, quando una donna era stata strangolata: l’assassino, però, si era costituito dopo poche ore; era, come da copione, il marito geloso.
Tale era il poliziotto, ma l’uomo aveva una risorsa in più. Fuori servizio, agli amici e ai collaboratori donava il suo gran cuore benevolo e sentimentale. Soprattutto praticava generosamente l’ospitalità, grande vanto della sua calda terra materna. Di là provenivano gli ingredienti delle cene che offriva a base di olive di Cerignola, di burrate di Gallipoli, di vino Primitivo di Manduria, di orecchiette alle cime di rapa, e ancora di carciofi, di fichi d’India e di altre golosità a seconda delle stagioni. Salvatore non era solo gran cuoco, ma anche buon intrattenitore; dopo qualche bicchiere di ottimo vino, con voce tenorile intonava canzoni italiane. Il suo repertorio era in verità un po’ sorpassato, molto romantico e strappalacrime. Erano i canti che sua madre aveva portato con sé dall’Italia. Qualcuno ricorda Ciuffetto
di Luciano Tajoli?
Piccolo bimbo va/ sperduto per il mondo/ la strada accoglierà/ un altro vagabondo/ ma se non hai mammà/ come ciascun bambino […]
Oppure Spazzacamino
di Folco Orselli:
Tu mi scacci lo so/ perché il volto più bianco non ho/ ma lo spazzacamino/ tiene il cuor come un altro bambino […]
Ma il gran finale era sempre riservato al suo pezzo forte, Signorinella Mia
di Carlo Buti:
Bei tempi di baldoria/ dolce felicità fatta di niente/ brindisi coi bicchieri colmi d’acqua/ al nostro amore giovane innocente// negli occhi tuoi passavano/ un sogno una speranza una carezza/ avevi un nome che non si dimentica/ un nome lungo e breve/