Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'orma dei passi perduti
L'orma dei passi perduti
L'orma dei passi perduti
E-book208 pagine3 ore

L'orma dei passi perduti

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il libro raccoglie cinque racconti e un romanzo corale ambientati nella lucchesia tra la Seconda guerra mondiale e gli anni Sessanta.
Al centro della narrazione la vita, la morte, l’amore, le inquietudini del nostro tempo e di ogni tempo. Domande radicali e passione civile, tra storie avvincenti di uomini e donne, di esistenze individuali trascinate nel turbine della grande storia del ‘900. Una narrazione di memoria in bilico tra realismo tagliente e fuga nell’immaginario, tra lirica ed epica. E poi il ruolo centrale della natura, sempre presente: da un lato la grande madre che rasserena e consola l’animo tormentato dei protagonisti, dall’altro la trepidazione e il dolore per le ferite che le vengono inferte da una civiltà dei consumi rapace e insensata.
 
LinguaItaliano
Data di uscita20 lug 2022
ISBN9788832281767
L'orma dei passi perduti

Correlato a L'orma dei passi perduti

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L'orma dei passi perduti

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'orma dei passi perduti - Paolo Buchignani

    Copyright

    © Copyright Tralerighe libri

    © Copyright Andrea Giannasi editore

    Lucca, luglio 2022

    1° edizione

    Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633).

    ISBN 978 88 32281 767

    I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito internet:

    www.tralerighelibri.com

    dedica

    A Rosanna e alla memoria di Esterina e dei miei genitori

    L’orma dei passi perduti

    A volte, da bambino, mi sorprendevo a fissare una nuvola bianca che navigava e fuggiva sospinta dal vento di primavera; la inseguivo con lo sguardo finché spariva dietro le gobbe verdi del Monte Romagna. Poi restavo a lungo a fissare il colle e l’azzurro, fra desiderio e paura di quello che immaginavo ci fosse al di là. La stessa sensazione mi prendeva quando, nell’estate, abbandonavo alla corrente d’un gorello una barchetta traballante scavata in una zucca e trepidavo per lei fin tanto che non svoltava dietro l’ansa del rigagnolo e si perdeva fra le giunchiglie e il gracidare delle rane.

    Che sia da ricercare in quei bambineschi episodi la genesi di una vocazione narrativa molto più repressa che assecondata? O non piuttosto in una precoce passione per le storie che nonna Esterina mi raccontava da bambino nelle sere d’inverno, quando sedevo sulle sue ginocchia davanti al fuoco acceso e guardavo le faville scoppiettanti inabissarsi nel buio del camino? Storie di maghi, di streghe, di fate, ma anche della sua giovinezza: queste le più belle, perché vere, perché mi parlavano di lei, del suo mondo, fra gli stenti della vita contadina e la tragedia della grande guerra che le aveva rubato il marito, e poi il duce, quel birbaccione, diceva, che per poco non le ruba anche i figli, scampati a stento alla furia nazista.

    Cercava, la nonna, di nascondere, di fronte al bimbo, il dolore che affiorava, ma una lacrima le sfuggiva; allora, pentita, cambiava registro: da dolente e indignato, il tono della voce si faceva allegro, spuntava un episodio buffo che mi faceva ridere.

    Il fascino della fuga, dell’ignoto, del mistero: sete di conoscenza e trasgressione insidiate dalla paura. Insieme, forse di conseguenza, la disperata ricerca delle radici, la roccia cui aggrapparsi, il culto della memoria e dei morti, la passione per la storia.

    Che la mia narrativa nasca dalla tensione tra questi due poli? Che sia il tentativo fragile e provvisorio di sanare una ferita provocata da quello scontro? Che sia un modo per sottrarre frammenti precari di vita al tempo inesorabile che tutto travolge e precipita nella morte?

    Domande che mi sorgono a distanza di tanti anni dalla stesura di questi primi testi, domande che restano senza risposta.

    Le inquietudini dell’adolescenza mi dettarono alcuni versi, andati perduti, forse cestinati qualche anno più tardi come manifestazioni di ingenuità e debolezze di cui vergognarsi.

    Quando irruppe la giovinezza, generosa e gagliarda, erano gli anni Settanta, la coda del Sessantotto, la Rivoluzione una bella donna che mi faceva ribollire il sangue. Una donna che ti voleva tutto per sé, sazia giammai, che non concedeva spazio alle divagazioni letterarie, trastulli borghesi, insidie del nemico di classe.

    Fu così che una notte, mentre tutti dormivano e una civetta singhiozzava sul tetto, afferrai un brogliaccio e lo gettai sul fuoco morente. La fiamma subito si ravvivò e inghiottì le pagine aperte. Il quaderno a righe, la copertina gialla istoriata, l’avevo vergato con la biro nera in altre notti, di strafugo, con una calligrafia nervosa ed ermetica che solo io capivo. Era la bozza di un romanzo autobiografico. Mentre il fuoco lo divorava, un brivido m’assalì: avevo amputato una parte di me, non un ramo secco, ma vivo e sanguinante. Strinsi i pugni e ricacciai indietro le lacrime, perché un rivoluzionario è tale se sa dominare le emozioni.

    Di tanto in tanto, la Musa mi tentava, ma io resistevo alle sue seduzioni. La letteratura mi accontentavo di leggerla, specie i classici francesi e russi, ma anche Dante: m’era entrata dentro, la Divina Commedia, e certi versi, all’improvviso, m’affioravano prepotenti alla mente e sulle labbra.

    E poi, quasi ogni giorno, davanti a casa mia passava Mario Tobino. Ancora lo vedo, scapigliato e assorto, i capelli al vento, un bastoncino in mano: non per aiuto al passo, che era spedito e sicuro, ma, si sarebbe detto, per compagnia. Il bastone, di tanto in tanto s’impennava, roteava, o frugava il ciglio della strada: più che il ritmo della camminata, pareva inseguire il turbinio dei pensieri che dovevano agitarsi nella mente dello scrittore. Scrittore e medico di manicomio, come lui stesso si definiva, in servizio da quarant’anni nell’ospedale psichiatrico di Maggiano, sulla collina di Fregionaia, già monastero agostiniano e, si dice, covo di eretici, visitato da Lutero in persona.

    Tutti lo conoscevano, dunque, nell’Oltreserchio, tutti lo salutavano, il dottore, e lodavano la sua cordialità. Lui spesso s’intratteneva coi paesani, voleva sapere di loro, li interrogava su accadimenti del presente e storie del passato, su particolari minimi, insignificanti e bizzarri per l’interlocutore comune, ma non per il medico dei matti, insieme narratore e poeta, avvezzo a chinarsi ogni giorno, in questa duplice veste, con umana empatica pietà, sul dramma della follia.

    Tobino scendeva da Fregionaia, raggiungeva la via Sarzanese e, proprio di fronte alla mia abitazione, attraversava la statale e s’incamminava a volte verso la certosa di Farneta, sulla via per Chiatri, più spesso imboccava il viale che conduce alla fattoria del Caprotti dei fratelli Bigongiari, occultata dai pini e da lecci secolari, assieme alla severa villa cinquecentesca.

    Il viale, dritto e sterrato, costeggia un immenso prato, dove, tutt’oggi, pascolano placide vacche. Un paesaggio fuori dal tempo, che trasmette pace e serenità. Dalla finestra della mia camera, spesso sorprendevo lo scrittore, immobile, a contemplare quella pace, oppure a intrattenersi con lo zio dei Bigongiari, un pittoresco vecchio dai lunghi capelli bianchi.

    Ero allora un adolescente e di Tobino avevo letto tutto, ma, timido com’ero, non avevo mai avuto l’ardire di avvicinarlo. Alla fine, un giorno, avrò avuto quindici o sedici anni, presi il suo libro da me più amato e lo raggiunsi sul viale del Caprotti.

    Impacciato, un po’ balbettante, mi presentai e gli chiesi la dedica. Lui estrasse una penna stilografica dal taschino della giacca e la vergò con mano sicura. Poi mi sorrise e cominciò a scherzare sulle forme procaci di una bella ragazza che ci sorpassò in bicicletta e sul fascino irresistibile delle belle donne. Da lì la conversazione scivolò sulla letteratura, su Beatrice e su Laura, sull’amatissimo padre Dante, di cui declamò alcuni versi, e su Francesco Petrarca. Autori che avevo appena incontrato sui banchi della scuola e che avevano affascinato anche me. Volle sapere dei miei studi e della mia vita di ragazzo, della mia famiglia. S’accese quando scoprì che un portiere del manicomio, suo carissimo amico, scomparso da molti anni, era fratello di mia nonna. Con quattro parole ne fece un ritratto fulmineo, fisico e psicologico, ne lodò la bontà e aggiunse che non s’era mai piegato ai fascisti; i quali lo temevano, perché era un gigante e sferrava pugni da accoppare un bue. Uno così, con quella forza, con quella salute, con quel coraggio – sospirò - era morto di tetano per il graffio di un coniglio: una infezione che lui, il dottore, a cui si era rivolto troppo tardi, non era riuscito a curare.

    Scosse la testa e ci lasciammo, ma seguirono altri incontri nelle settimane e nei mesi successivi. A volte lo accompagnavo fin dentro il manicomio, fra i suoi matti, che mi presentava e coi quali fraternizzava.

    Intanto era esploso il Sessantotto, ma io non me ne accorsi, preso com’ero dalla passione per la pesca e da un amore adolescenziale che una invincibile timidezza m’impediva di esprimere ed appagare. M’addolorai e m’indignai, quello sì, per l’assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy, vicende che avevano suscitato, in casa mia, una grande emozione e sulle quali la professoressa di italiano ci aveva assegnato un tema.

    Ad aprirmi la mente, ad accendermi la passione per lo studio e per la politica, contribuì in misura rilevante, l’anno successivo, un nuovo docente di lettere, il professor Giorgio Porrotto, un socialista spezzino, molto bravo, che aveva partecipato alla rivolta di Genova del 1960 al tempo del governo Tambroni sostenuto dai neofascisti.

    Imboccai allora una strada che mi portò a simpatizzare per la sinistra e a tuffarmi in quel gran fiume di rivolta che fu il lungo Sessantotto italiano. Era il tempo delle occupazioni, delle assemblee infuocate e affumicate, dell’eschimo e del ciclostile, dei cortei inneggianti a Che Guevara e Mao-tse- tung, degli slogan contro Nixon boia, aggressore del Vietnam e istigatore dei golpisti cileni.

    Ma poi, quando, di lì a poco, cominciai a frequentare l’Università di Pisa, uno dei centri nevralgici del sovversivismo sessantottino, una città dove i gruppi extraparlamentari erano più forti e dettavano legge, cominciai a storcere il naso di fronte a certi atteggiamenti intolleranti e violenti: sovente accadeva, per esempio, che attivisti di Lotta Continua o di altre innumerevoli sigle cresciute come funghi in quel periodo, irrompessero in aula durante le lezioni e cacciassero fuori professore e studenti, perché si doveva fare assemblea. Se protestavi, se ti opponevi, ti bollavano come sporco reazionario e servo dei padroni e si poteva anche venire alle mani. E poi c’era la violenza di piazza, giustificata come rivoluzionaria, marxisticamente levatrice della storia. Una violenza incunabolo di quella terroristica, che non avrebbe tardato a manifestarsi.

    Ero troppo giovane e sprovveduto per avvertire il pericolo che ci sovrastava, per comprendere il meccanismo che stava trasformando generosi ideali di libertà e giustizia sociale in un’ideologia fanatica e totalitaria che avrebbe generato gli anni di piombo con la loro scia di lutti e di sangue.

    Non capivo, ma l’istinto mi diceva che quella non era la via della rivoluzione, almeno come io l’avevo immaginata e sognata. Fu così che mi avvicinai a quel partito, il Pci, insultato dagli estremisti come borghese, riformista, socialdemocratico, traditore della classe operaia. Quel partito del quale Mario Tobino era stato simpatizzante fino al 1951, quando i suoi amici, Aldo Cucchi e Valdo Magnani, valorosi ex partigiani e prestigiosi dirigenti, ne erano stati espulsi con ignominia, perché non disposti ad assecondarne la soggezione alla Russia di Stalin.

    Tobino non era più comunista, anche se il Pci di Berlinguer non era più quello di Togliatti (per esempio, aveva condannato l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968). Non era comunista Tobino – penso fosse vicino ai socialdemocratici come il suo fraterno amico Cucchi, che ogni tanto veniva a trovarlo al manicomio - e non credo abbia approvato la mia scelta, ma ne aveva profondo rispetto e io continuavo ad accompagnarlo nelle sue passeggiate e a discutere con lui di tutto, anche di politica.

    Un pomeriggio d’inverno, il cielo spazzato dalla tramontana, mentre lo accompagnavo sulla via di Fregionaia, si fermò di colpo, mi afferrò un braccio e mi guardò fisso, tra il serio e il faceto: «Sono sicuro che hai scritto qualcosa di narrativa o di poesia», sentenziò. E aggiunse: «Con quella faccia, con quegli occhi, non puoi non aver scritto!»

    Pensai al romanzo gettato alle fiamme in quella notte ormai lontana, ma negai, cercai di schermirmi. Non mi credette e, con quel tono un poco istrionico di scherzosa minaccia che sovente si divertiva ad assumere, ordinò: «Portami quella roba che la voglio leggere!»

    Qualche tempo dopo, gli portai, invece, il mio primo libro di saggistica, fresco di stampa, una biografia storico-letteraria di Marcello Gallian, ricavata dalla tesi di Laurea che avevo discusso con Silvio Guarnieri, suo amico dai tempi di Solaria e delle Giubbe rosse nella Firenze degli anni Trenta.

    Dopo qualche giorno mi telefonò e tornò alla carica con la sua richiesta: «Avevo visto giusto! Hai lo stile del narratore e voglio leggere quella roba che tieni nascosta!».

    In realtà, dopo il romanzo bruciato, non avevo scritto altro, nulla tenevo nel cassetto, anche se la Musa continuava a tentarmi. Una sera, solo in casa, intorno il silenzio, cedetti alla tentazione e scrissi La finestra di Rolando, il primo dei racconti che qui si ristampano e che sarebbero usciti nella raccolta L’orma d’Orlando.

    Glielo consegnai in una busta gialla col cuore che mi batteva forte. Il giorno successivo mi chiamò al telefono e m’invitò all’Ospedale. Mi ricevette nella sua cameretta spartana con la Olivetti sulla scrivania e la Commedia di Dante sul comodino.

    «Il racconto è bello – disse - è gentile, è scritto in un buon italiano. L’ho letto d’un fiato e questo è buon segno. Continua! Attendo il prossimo».

    Ne scrissi altri tre diluiti nel tempo. Gli piacquero tutti e non trovò rilievi da fare né volle darmi consigli. Di uno solo, La grotta dell’aquila, lo deluse il finale, ma decidessi io se cambiarlo o meno. Non ricordo se l’ho cambiato, ma ricordo le sue parole: «Mi hai fatto stare lì, per un’ora, inchiodato alla pagina, acceso dal desiderio come di fronte a una bella donna che sta per concedersi e poi, sul più bello, si nega; e tu, che già assaporavi l’assalto, ti ritrovi da solo, eccitato e furioso». Aggiunse, divertito, sboccataggini popolaresche che non ricordo di aver letto mai nei suoi romanzi.

    Intanto, in quel periodo, eravamo sul finire degli anni ’80, avevo intensificato le visite a Romano Bilenchi, nella sua casa fiorentina, al terzo piano di Via Brunetto Latini 11, dalla quale non era più uscito da almeno un decennio, ma nella quale riceveva molti giovani (per lo più studenti) e tutti coloro che aveva scelto come suoi amici. «Per me l’amicizia è superiore a qualsiasi sentimento», mi scrisse in una lettera in cui mi invitava ad andare a trovarlo, dopo che gli avevo inviato la mia monografia su Gallian, in cui citavo una sua recensione del 1935 ad un romanzo dello scrittore oggetto del mio studio.

    Bilenchi aveva il culto dell’amicizia e della giovinezza, come sanno tutti quelli che l’hanno conosciuto e come risulta anche dalla sua opera di narratore (un suo splendido libro s’intitola Amici e i protagonisti dei suoi racconti sono quasi sempre ragazzi puri e sensibili, insidiati dal mondo ostile e maligno degli adulti).

    Ebbi la fortuna e l’onore di essere ammesso nella cerchia dei suoi amici. Simpatizzammo fin dal primo incontro nel 1984, quando, con mio stupore, venne lui stesso ad aprirmi la porta. Infatti, da quello che mi aveva detto al telefono, mi aspettavo di trovarlo sulla sedia a rotelle; e invece era in piedi, camminava abbastanza spedito e aveva un aspetto vigoroso. Mi introdusse in una stanza con le pareti occupate da alti scaffali zeppi di libri, di carte e di medicine, negli spazi liberi quadri dei suoi amici Ottone Rosai e Mario Mafai. Una porta-finestra era appena socchiusa e la breve apertura non riusciva a smaltire la nube di fumo che ristagnava sulle nostre teste e che era continuamente alimentata dalle sigarette incenerite da Bilenchi e da sua moglie a ritmo vorticoso.

    Si lamentò dei suoi acciacchi e di un fastidioso questuante che avevo incrociato sulle scale e che era venuto a chiedergli di raccomandare la figlia presso un docente dell’Università di Firenze.

    Poi ci sedemmo uno di fronte all’altro, in mezzo un tavolinetto basso con posacenere colmo di cicche. «Diamoci del tu – esordì – e chiamami Romano, non professore, come si ostinava a chiamarmi quel coglione che se n’è appena andato; anche perché non sono professore», aggiunse risentito.

    I modi, i gesti, la marcata gorgia toscana nella voce roca del fumatore, i capelli scomposti sulla fronte alta: un popolano della campagna senese, la sua terra, visceralmente amata, mai tradita dalla lunga consuetudine con la vita di città. Un burbero ribelle e appassionato dagli occhi a mandorla, strizzati a tratti dalla concentrazione del pensiero e dal richiamo dei ricordi che fluivano dalle sue labbra e incantavano l’ascoltatore.

    Parlammo del mio libro e di Gallian, che – mi disse subito – era stato suo amico. «Lo conobbi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1