6662
Di Angelo Ricci
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Info su questo ebook
6662 è il resoconto di un viaggio quantistico che attraversa lo spaziotempo della narrazione umana, che rimodella l'universo della parola scritta, che trafigge tutti i libri del mondo, anche quelli che non sono ancora stati scritti.
Una riscrittura sul palinsesto della Storia, che disegna la mappa di un territorio sconosciuto, posto ai confini estremi della finzione, in cui scrittori come William Burroughs, Don DeLillo, Jorge Luis Borges, Antonio Moresco, Roberto Bolaňo convivono con esseri misteriosamente demoniaci, Pietro Nenni è alla guida della repubblica socialista di Romagna, Giulio Andreotti è a colloquio con il grande veggente Rol in un eterno riproporsi della strategia della tensione degli anni Sessanta e Settanta, Hitler entra a Parigi nel 1940 in compagnia di sciamani e alchimisti, Wallenstein alla fine della Guerra dei trent'anni riporta i bizantini sul trono imperiale di Costantinopoli e un inquietante agente segreto alieno tenta di evitare il collasso finale degli universi paralleli mentre guerriglieri maoisti sulle Ande e profeti armati salafiti in Mesopotamia stanno costruendo la casa editrice definitiva.
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Anteprima del libro
6662 - Angelo Ricci
editori
La parte di niente
Qualcuno dovrà pur aver detto che di fronte a un plotone d’esecuzione l’unica possibilità che hai di salvarti è quella di non smettere di parlare. Perché è questo che voglio continuare a fare proprio ora, non smettere di parlare. E non voglio smettere di parlare perché voglio salvarmi.
Con le mani alzate, la camicia sporca e segnata dal sudore, sputo parole disperate in faccia a chi mi osserva dall’acciaio del mirino, come Jean Luis Trintignant. Ecco chi era. Era proprio Trintignant, che interpretava una spia del regime somozista in Under fire e che, con i revolver puntati addosso da due ragazzini a cui aveva fatto uccidere i genitori, dichiarava: «dicono che quando hai una pistola puntata contro l’unica possibilità che hai di sopravvivere è quella di continuare a parlare».
E Trintignant parlava e parlava e parlava, con consumata freddezza da mercenario professionista. Parlava e parlava e parlava. Almeno fino al momento in cui i due revolver hanno sparato.
Ecco perché ora sto parlando. Perché voglio che quel momento non arrivi mai.
Fiera del libro di Torino, maggio 1989
Un bar in rigoroso stile anni Cinquanta, con le pubblicità del Cinzano appese alle pareti. Dietro il bancone decorato da conchiglie verde bottiglia, un barista silenzioso in giacca bianca che sembra uscito da Rocco e i suoi fratelli. Di fronte, annunciato da file chilometriche di visitatori, l’ingresso della Fiera.
L’apoteosi del libro, degli scrittori, degli editori si teneva ancora al parco del Valentino. All’interno ridondanze estreme di libri esoterici, case editrici dai nomi misteriosi, banchi ricolmi di storie comparate di sette segrete e nazismi magici. Umberto Eco aveva appena pubblicato Il pendolo di Foucault e l’editoria si adeguava al successo del Professore inseguendolo con il fiorire improvviso di passioni occulte e segrete.
Una fanzine fotocopiata in cinquecento copie a numero, intitolata Thomas Pynchon odia Salinger, mi aveva inviato a Torino, con rimborso del biglietto ferroviario, a cercare tracce di una inafferrabile casa editrice americana, The Literary Handjob, che pare pubblicasse libri semiclandestini di crudeli poesie, illustrati da foto di autopsie scattate da un anatomopatologo sudamericano che, oltre a essere consulente dell’editore, pare passasse spesso le ferie in Amazzonia, scortato da una squadra di mercenari gentilmente fornita da un latifondista paraguayano suo lontano cugino, in cerca di indios da uccidere, smembrare e vendere ai dipartimenti di anatomia delle facoltà di medicina di mezzo mondo.
«Se vuole posso farla parlare con il nostro vicedirettore editoriale che è sempre al corrente delle eccentricità del mondo letterario» mi dice il responsabile di un consorzio di distributori indipendenti, barricato dietro un tavolo grigio con la superficie coperta interamente da qualche centinaio di copie del Manuale del perfetto rosacroce.
«Eccolo, sta arrivando proprio in questo momento. Potrà chiedergli ogni cosa. Lui è sempre informatissimo».
Un blazer blu si ferma davanti a me. Mi stringe la mano e si presenta: «Buongiorno, che cosa posso fare per lei? Sono il vicedirettore editoriale. Sono il dottor Kniebolo».
Cammino barcollando. Non sono ubriaco, per nulla, anzi sono lucidissimo. Ed è proprio per questo che cammino in questo modo. È la lucidità che mi dà la nausea. Entro nel solito bar e ordino il solito caffè d’orzo in tazza piccola, miserevole tentativo di non dar corda all’assunzione infinita di caffeine e alcaloidi vari. Mi pare fosse Ottiero Ottieri a confessare di tenere a bada la depressione con caffeina, teina e nicotina. Io non voglio tenere a bada più niente. La ragazza del bar armeggia nei pressi di una macchinetta e munge lentamente il contenuto nocciola che va a riempire la tazzina bianca. La prima volta che sono entrato in questo bar mi ha chiesto quanti anni avevo. Quando le ho detto cinquanta mi ha risposto: «Beh, però se li porta bene». Credo fosse a corto di mance. Bevo l’orzo, scambio con lei un paio di parole, sforzo embrionale di mantenere in vita una sorta di esercizio erotico che non mi interessa più. Mi è già accaduta un’altra volta questa storia dell’età, però al contrario. Un poeta sconosciuto, alla sua prima raccolta pubblicata a caro prezzo con un editore che faceva affari d’oro con l’esasperazione degli esordienti, mi aveva mandato una mail e, con finto tentativo di darsi un tono, mi scriveva che da quello che pubblicavo secondo lui nascondevo molto bene l'età che dicevo di avere. Elemosinava una mia recensione su un blog letterario semiclandestino dove altri sbandati della letteratura mi avevano invitato a collaborare. Non gli avevo mai risposto, offeso da quel finto e comunque insolente sfoggio di cameratismo. Erano passati venticinque anni da quel maggio torinese e io, da venticinque anni ormai, scrivevo recensioni che nessuno leggeva e uccidevo. Uccidevo uomini, donne, indifferentemente. L’unica cosa che importava era che uccidevo non in preda a un letterariamente banale istinto omicida. Io uccidevo per lavoro e quelli che eliminavo erano scrittori, poeti, recensori e poi, dopo, blogger e gestori di siti letterari. Avevo scritto qualcosa, un paio di romanzi, qualche racconto, passati perlopiù sotto silenzio. Manovalanza incompresa delle lettere ero stato arruolato per dare loro un senso più profondo.
Venticinque anni sono passati. Chissà se mi porto bene anche quelli.
Esco dal bar. Sono in strada. Cammino senza alzare lo sguardo. Tanto so già che cosa vedrei. E quello che vedrei non potrei sopportarlo. Cammino a testa bassa. Il grigio del marciapiede è lo sfondo di un account di posta elettronica dove un giorno è arrivato un messaggio. Un messaggio che aveva come oggetto una parola: cool.
Non so se sia stato Don DeLillo a scrivere che i personaggi vanno ascoltati perché sono loro in fin dei conti a dirti come sei tu che li crei. Non lo so più, non lo ricordo più. Però una cosa la ricordo e la ricordo bene. Avevo chiesto al dottor Kniebolo il perché del suo nome. Era una cosa che mi incuriosiva e che mi dava anche una certa inquietudine. Era un fatto che si amalgamava bene con l’atmosfera complottistica di quel maggio torinese, così ricco di editoria occulta ed esoterica.
Era stato Ernst Jünger che nei suoi diari aveva impiegato il nome Kniebolo. E lo aveva impiegato per riferirsi ad Adolf Hitler. Louis Pauwels e Jacques Bergier lo raccontavano ne Il mattino dei maghi, vera e propria summa a uso e consumo di tutta la moltitudine di appassionati della cultura occulta, e secondo loro quei diari erano una sorta di strumento nascosto, di messaggio cifrato che Jünger utilizzava in tutta una serie di complessi rapporti fra membri di sette segrete, massonerie clandestine, estimatori della Golden Dawn, granitici seguaci della Thule, allegri satanisti alla Aleister Crowley, ricercatori del Santo Graal, seguaci di René Guenon, ammiratori di Georges Gurdjieff, fan di Madame Blavatsky, steineriani disillusi e nazisti in cerca dei Superiori Sconosciuti sulle alture del Caucaso.
Il dottor Kniebolo aveva sorriso. Si era appoggiato al grande tavolo grigio e aveva detto che le origini della sua famiglia erano antichissime.
Di aristocrazia senatoria sin dall’epoca di Marco Aurelio, possedevano terre in Italia, in Gallia, nelle province iberiche, in Asia Minore e in Africa.
Erano sempre riusciti a venire a patti con le tribù barbare che nel Quarto secolo avevano iniziato a stanziarsi nei territori imperiali. Per mezzo di figlie date in matrimonio, nipoti consegnati in ostaggio e libbre di oro e di argento erano stati ammessi a far parte della corte dei re Visigoti, di quella dei Suebi, dei Burgundi e dei Franchi. Erano persino stati amichevolmente accolti, grazie a un esoso quantitativo di libbre di oro richiesto da ambasciatori di Attila armati fino ai denti e dagli occhi spietati, con il campo fortificato del re unno, il Ring. Nessuno aveva mai creato loro problemi. Era sufficiente pagare forti tributi, dare una figlia dal corpo sinuoso in sposa a qualche capo goto o germanico e si diventava come i barbari conquistatori. La ricchezza trasformava il sangue romano in