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Oltremondo: Petali di Rosa e Fili di Ragnatela (vol. 1)
Oltremondo: Petali di Rosa e Fili di Ragnatela (vol. 1)
Oltremondo: Petali di Rosa e Fili di Ragnatela (vol. 1)
E-book685 pagine10 ore

Oltremondo: Petali di Rosa e Fili di Ragnatela (vol. 1)

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Info su questo ebook

Siobhan vive una vita da favola: è bella, ricca, coccolata da una famiglia e da una città (Milano, ma non la Milano che noi conosciamo) dalla quale il mal e la violenza sono bandite. Tuttavia sogni ricorrenti e premonizioni di eventi catastrofici minano la sua serenità. Le cose peggiorano quando Siobhan scopre di condividere certe "sensazioni" con due amici, Rowan e Ian. Quando il primo amore giunge come un fulmine a ciel sereno, l'evidenza di ciò che lei è veramente e di ciò che loro quattro sono veramente, apre la coscienza ad una nuova prospettiva: il loro mondo è solo uno dei tanti esistenti. La magia permea le Dimensioni e l'essere misterioso che li ha nascosti in un rifugio dorato, la Fiamma, li sta richiamando verso il loro luogo d'origine: Oltremondo. (...)
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2022
ISBN9788864903484
Oltremondo: Petali di Rosa e Fili di Ragnatela (vol. 1)

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    Anteprima del libro

    Oltremondo - Marta Leandra Mandelli

    PARTE PRIMA

    UNA VITA PERFETTA

    Si può scoprire il proprio mistero solo a prezzo della propria innocenza

    Robert Davis

    1

    Eccomi qui, nel mio posto preferito: il mio scoglio, la mia vetta. Da quassù vedo il mare e, fin dove i miei occhi possono spingersi, non ci sono che onde e blu intenso. Attraverso l’acqua limpida osservo i pesci che nuotano, tranquilli e indaffarati. Una brezza tiepida mi solletica il viso e mi scompiglia i capelli, come la mano di un amante gentile che sospira di fronte al suo amore. Non ho parole per spiegare la gioia che mi scorre dentro come un fiume in piena.

    Allargo le braccia e lascio che il vento mi accarezzi il corpo, inspiro profondamente l’aria salmastra e rido.

    Niente di più eppure niente di meno.

    E poi una musica caraibica, assolutamente fuori posto, mi fa trasalire.

    Mi sveglio di soprassalto e batto le palpebre, disorientata, incapace di conciliare la vista del mio promontorio con la penombra della stanza in cui mi trovo.

    Era solo un sogno!

    Il sogno ricorrente che faccio fin da bambina, ma che ultimamente viene a trovarmi sempre più spesso. Ah, il mio promontorio – perché è veramente mio, anche se non esiste. Mi sento a casa, quando lo sogno. Mi hanno detto che il Big Sur è un tratto di costa mozzafiato, dove le scogliere si tuffano nell’oceano selvaggio. Io però non ci sono mai stata, ma non vedo l’ora di andarci. È sciocco da parte mia, ma tutte le volte che mi sveglio resto delusa di come delle sensazioni così forti siano solo e sempre immaginate.

    Ed ecco che il giorno si apre davanti a me: un altro giorno perfetto nella mia vita perfetta. Indosso una vestaglia di seta e scendo per la colazione, spensierata come sempre.

    «Mamma, sei già pronta?» chiedo, fermandomi in cima alle scale.

    Mia madre è sempre piuttosto mattiniera ma mi sorprende trovarla già con la borsetta a tracolla.

    «Sì tesoro, oggi esco presto. Devo incontrare quelli del catering.

    Voglio che sia tutto perfetto per il tuo ventesimo compleanno! Ma sei proprio sicura di festeggiare con Rowan? Non vuoi una festa tutta tua?»

    Dalla sua espressione, capisco che spera ancora in un mio mutamento. Non è del tutto contenta che io voglia festeggiare il mio compleanno con la mia migliore amica. Non che Rowan le dispiaccia, anzi, ma le scoccia non essere lei a occuparsi di tutti i preparativi e di dover invece dividere i compiti con qualcun altro.

    A mia madre piace avere tutto sotto controllo e a me sta bene così. È più comodo se pensa a tutto lei, no?

    E poi io ho già tante cose di cui occuparmi: devo pensare al vestito, alle scarpe, alla borsa...

    «No mamma, sono contenta così. Dopo mi vedo con Rowan e facciamo un giro in centro e poi penso che pranzeremo insieme.

    Ci vediamo stasera.»

    «Va bene, tesoro, divertiti. A dopo» mi risponde rassegnata ed esce di casa.

    Gli occhi di mia madre sono gli occhi dell’amore e tutte le volte che mi vede è come se vedesse un miracolo: mia madre non poteva avere figli e, dopo vari tentativi e cure di ogni tipo, l’inseminazione artificiale le ha regalato la maternità. Non so quante volte mi ha raccontato il giorno della mia nascita, di come io dovessi chiamarmi Elisa e di come dopo avermi vista abbia cambiato idea. Lei sostiene che quando i nostri sguardi si sono incrociati per la prima volta ha sentito che quello non era il nome giusto. Mio padre, dal canto suo, è rimasto perplesso: Elisa era il nome di sua nonna mentre il mio è assolutamente estraneo alla famiglia, ma non ha avuto il coraggio di contraddire mia madre.

    Il brontolio del mio stomaco mi ricorda che non ho ancora fatto colazione e così mi avvio verso la sala da pranzo. Come di consueto, la porta si apre prima ancora che sfiori la maniglia.

    «Buongiorno signorina Siobhan, posso servirle la colazione?» mi saluta ossequioso il nostro maggiordomo.

    «Accidenti Kenneth! Come diavolo fai a sapere sempre quando sto arrivando? E sì che non mi sembra di fare molto rumore!»

    «Signorina Siobhan, ho anni di pratica» afferma lui, con fare cerimonioso, mentre mi serve pane tostato e marmellata fatta in casa.

    Chissà a cosa si riferisce?Ogni tanto ha delle uscite così bizzarre che proprio non lo seguo. Pratica in cosa? Cosa mai può aver praticato un maggiordomo al di fuori della gestione di una casa? Kenneth è con noi da sempre ed è un mostro di dedizione ed efficienza. Senza di lui la nostra casa andrebbe in pezzi e soprattutto io sarei persa.

    In realtà sappiamo poco di lui.

    Quando è arrivato da noi era giovane per questo mestiere e si era appena trasferito da San Francisco.

    Non capirò mai perché abbia deciso di venire a vivere qui a Milano, dall’altra parte del mondo, comunque ne sono contenta.

    C’è qualcosa in Kenneth che lo rende assolutamente degno di fiducia, al punto che mi viene naturale come uno di famiglia.

    Certamente è per questo che mia madre lo ha assunto, nonostante le sue referenze fossero inferiori rispetto a quelle di altri candidati.

    «Ha riposato bene, signorina?» mi chiede premuroso come sempre.

    «Sì, grazie Kenneth. Ho fatto il mio solito sogno e mi sembra di sentirne ancora la magia... Magari chi sa interpretare i sogni potrebbe leggervi qualche significato nascosto. Qualcosa di psicologico o che so io...» penso ad alta voce con lo sguardo perso davanti a me. «Be’, comunque non è poi così importante e magari cerca solo di dirmi che ho bisogno di cambiare aria.»

    Kenneth si volta verso di me, con una strana espressione negli occhi che non riesco a capire. Mi guarda come se credesse proprio a tutto quello che gli ho detto e raccontato e un sorriso gli increspa le labbra. «Forse, signorina Siobhan, in cuor suo sa già cosa significa e deve solo prestare orecchio alla voce giusta.»

    Le sue parole mi turbano. Sento che quanto mi dice è vero e provo disagio: il mio mondo è fatto di semplici e concrete certezze e il pensiero che in qualche modo possano vacillare mi spaventa.

    L’ignoto mi fa paura, anche se un po’ mi affascina, ma non mi sento assolutamente pronta ad affrontarlo.

    «Non sapevo che fossi anche un filosofo, Kenneth.»

    Il maggiordomo, con un sorriso e una pazienza che mi lasciano sempre sbalordita, china leggermente il capo ed esce dalla sala pranzo.

    *

    La macchina avanza silenziosa nel centro di Milano e io non vedo l’ora di incontrarmi con Rowan: shopping, chiacchiere, pranzo leggero e soprattutto tante risate. Cosa si può volere di più?

    Sorrido e in questa giornata radiosa sembra che il mondo mi sorrida di rimando.

    «Signorina Siobhan, quando vuole che la venga a riprendere?»

    Kenneth l’infaticabile è sempre un passo avanti a me.

    «Non so Kenneth, forse tornerò a casa da sola. Farò quattro passi se non sarò troppo stanca. È una giornata così bella» gli rispondo guardandomi in giro.

    Kenneth mi scruta attraverso lo specchietto retrovisore. «Faccia attenzione signorina Siobhan, sono tempi strani questi.»

    So a cosa si riferisce. A Milano c’è stata un’impennata di criminalità e sembra che il fenomeno non sia circoscritto alla sola città. Dopo la Riforma Verde questo angolo della Terra aveva quasi dimenticato violenza, furti e omicidi, ma adesso sembra che la gente stia impazzendo. I sociologi dicono che le persone sono sottoposte a pressioni troppo forti e di conseguenza alcuni crollano.

    Mah, io non mi intendo di queste cose e aborro gli orrori. Non voglio neanche pensarci.

    «Dai Kenneth! Non devo poi fare tanta strada! Ah! Ecco Rowan!»

    Scendo dalla macchina con un saltello aggraziato e letteralmente svolazzo verso la mia amica che, appena mi vede, mi sorride felice. Mentre ci abbracciamo e ci salutiamo, sembriamo proprio due farfalline che giocano leggere su un prato, o magari sul mio promontorio.

    «Siobhan ho visto un abito su Mariebelle che assolutamente dobbiamo provare!» mi annuncia la mia amica tirandomi per un braccio.

    E così inizia il nostro giro e già so che non ci perderemo neanche un negozio.

    *

    Dopo qualche ora e con più pacchetti del previsto, la frenesia da acquisti cede il passo all’appetito e, con uno sguardo d’intesa, ci dirigiamo verso il nostro bar preferito. Il proprietario, Ian, ormai è nostro amico e ha una cotta per Rowan, ma lei fa finta di non saperlo e gli sorride civettuola, come se non conoscesse l’effetto che fa sui ragazzi e in particolare su di lui. Del resto, fa anche finta che Ian non le piaccia poi un granché, ma appena può va al Nice&Easy anche solo per un caffè. La scusa ufficiale è che facciano il miglior caffè al ginseng di tutta Milano (il che è vero), però lei lo beve quasi tutti i giorni, neanche fosse una medicina.

    «Ecco le mie ragazze preferite!» ci accoglie Ian allegro, e ci accompagna al nostro solito tavolo.

    Rowan ostenta una cordiale indifferenza, ma non può impedirsi di arrossire. «Tu non sai che idea ha avuto mia madre per sistemare i tavoli!» trilla, per distogliere la mia attenzione dal quell’inopportuno rossore, e incomincia un resoconto dettagliato.

    Rowan ha la voce più bella che io abbia mai sentito, è quasi ipnotica. Quando parla non puoi fare a meno di ascoltarla. E in questo caso l’argomento mi interessa eccome, e quindi seguo rapita le vicissitudini di sua madre alle prese con i gestori di villa Ada, l’elegante dimora che abbiamo affittato per festeggiare i nostri vent’anni. Le parole escono dalla sua bocca fresche come un ruscello di montagna e vellutate come petali di rosa. So che è anche molto intonata e da piccola cantava in un coro in chiesa, ma poi è successo qualcosa di strano e non ha più voluto cantare.

    Sembra che i fedeli radunatisi per assistere alla Messa si siano messi a piangere ascoltandola e lei ci è rimasta malissimo.

    Rowan, la mia cara amica Rowan! Ci vogliamo bene come sorelle e ci assomigliamo sotto molti punti di vista. Lei però ha una capacità speciale: riesce a mettere le persone a proprio agio, cosa che a me non succede quasi mai.

    Abbiamo gli stessi interessi: la moda, la musica, la natura e soprattutto il tiro con l’arco. Strano, vero? A quante ragazze pensate piaccia il tiro con l’arco al giorno d’oggi? Eppure è così, ed è proprio al club che ci siamo conosciute. Lei si era appena trasferita a Milano perché suo padre, ingegnere e costruttore di fama mondiale, aveva vinto l’appalto per la realizzazione della nuova metropolitana super veloce. Rowan, non appena giunta in città, ha voluto iscriversi in un centro di tiro con l’arco ed è venuta nel mio che è il più rinomato. L’ho notata subito e lei ha subito notato me: non è facile che due talenti come noi si ritrovino nello stesso club e, nonostante in genere tra donne ci sia sempre competizione, tra noi non è successo ma, al contrario, è nata una bella amicizia. Il tiro con l’arco per noi è molto più di una passione, è qualcosa che abbiamo dentro. Ci è sempre venuto naturale, come se le nostre mani fossero avvezze a incoccare la freccia e i nostri occhi cercassero il centro senza accontentarsi di altro. Quando ci siamo incontrate per la prima volta al club ci siamo riconosciute come fossimo animali della stessa razza e il nostro rapporto è cresciuto senza intoppi, spontaneamente.

    E poi c’è il fatto che siamo nate lo stesso giorno. Non so spiegarlo, ma questo particolare ci ha legate ancora di più, come se avesse qualche significato nascosto. So che anche per lei questa coincidenza vuole dire molto, così come so che ogni tanto anche lei è a disagio di fronte alle stranezze della vita che, sempre più spesso, portano il mistero ad affacciarsi nelle nostre esistenze.

    Rowan, come me, ha paura di guardare oltre le apparenze, di farsi troppe domande e di scoprire cosa si cela dietro la realtà che conosciamo.

    E dio solo sa quanto la capisco!

    «Ecco Ian con i caffè» esclama giuliva Rowan.

    Ian ci porta sempre i caffè, anche se lui non è tenuto a servire ai tavoli, visto che il locale è suo e ha diversi camerieri, però per Rowan fa un’eccezione. Per un momento i loro sguardi si incrociano e io mi sento di troppo: è come se i loro occhi fossero stati creati apposta per guardarsi. Poi, di colpo, Rowan si ritrae da quella presa immaginaria e arrossisce di nuovo... cosa che mette a disagio Ian ma, allo stesso tempo, gli fa venire una gran voglia di abbracciarla e di baciarla. Mi sono sbagliata, Ian non ha una cotta per lei: è innamorato perso. Posso leggerglielo in faccia come se fosse un libro aperto.

    «Ecco ragazze» le sorride ma lei si vergogna troppo per guardarlo ancora e così Ian, turbato, se ne va.

    «Accidenti Rowan! Quando ti deciderai a dargli un po’ di corda?» le sussurro io dandole un colpetto con il gomito.

    «Siobhan! Ma cosa dici? Io e Ian?»

    «Sì sciocchina! Tu e Ian! Vi mangiate con gli occhi! E so che lui è innamorato di te».

    «Ian non è innamorato di me. E poi è un barista! Mia madre ne farebbe una tragedia!» Dopo una breve esitazione Rowan mi chiede con aria indagatrice: «Come fai a sapere che è innamorato di me? Cioè, anche io sento qualcosa quando mi è vicino, ma non so se è vero o se sono le mie emozioni confuse che mi annebbiano il cervello. Ma tu come fai?».

    Ecco una domanda imbarazzante.

    Del resto era inevitabile: le stranezze nella vita mia e di Rowan si rincorrono continuamente e sembra che di recente abbiano accelerato il passo.

    «Non lo so Rowan, non so come faccio a saperlo. Lo so e basta» rispondo a disagio.

    Quando si tratta del mio sesto senso mi irrito facilmente.

    Sesto senso: che parola sciocca! I sensi del corpo sono solo cinque, non ce n’è un sesto! Questa espressione mi sembra sia solo un modo gentile per dire che qualcuno ha qualche rotella fuori posto. E poi comunque io non vedo i fantasmi: i morti sono morti e basta, chiusi sotto terra senza poter parlare con i vivi.

    Però, ogni tanto ho delle strane sensazioni, delle premonizioni...

    Non so come spiegarlo, ma so che vorrei avere una scatola dove chiuderci dentro tutte le mie stranezze e archiviare il caso.

    Rowan mi prende la mano e sorride. «So che cosa provi. Per me è lo stesso. Qualcosa sta cambiando dentro di noi. Posso sentirlo chiaramente e mi spaventa ma, allo stesso tempo, so che è giusto, che è così che deve essere.»

    Penso di nuovo a Kenneth. È strano, certi discorsi sembrano più semplici con lui e Rowan piuttosto che con altre persone, compresi i miei genitori. Voglio bene a mio padre e mia madre, però ci sono alcune cose di cui non parliamo. Invece sento che posso farlo con la mia migliore amica e il mio maggiordomo, anche se non hanno nulla in comune.

    «Hai ragione Rowan, è così che deve essere. Forse fa parte dell’avere vent’anni, fa parte del diventare adulti e sono contenta che siamo insieme. Però lo stesso, Ian ti mangia con gli occhi!»

    «Insomma Siobhan, smettila! Non sono pronta a uscire con un ragazzo e tu più di tutti dovresti saperlo e capirmi!» risponde Rowan fingendosi spazientita.

    «Certo, però, visto che tra poco avremo vent’anni potremmo anche uscire con i ragazzi, di tanto in tanto. E poi tu hai trovato l’amore! Io no. Ma quando accadrà non farò tanto la preziosa.»

    «Sì, come no! Me ne ricorderò e non credere che mi asterrò dal rinfacciarti questa perla di saggezza» risponde Rowan alzando un sopracciglio e guardandomi come se le avessi appena raccontato una barzelletta buffa.

    Ma ho paura che abbia ragione.

    Ebbene sì, io e Rowan non siamo mai uscite con un ragazzo, anche se ormai abbiamo raggiunto l’età legale per farlo. Non è che non ci piacciano o che non ci guardino, anzi. Mia madre si dispera all’idea che io non trovi marito e appena può mi presenta qualche figlio di amici o conoscenti, purché sia un rampollo della cosiddetta Milano bene. Eppure sento che la mia anima gemella non è tra loro. Per me Venere e Marte non si incontrano mai. Chissà, forse un giorno anche io troverò un barista tutto per me che si scioglie ogni volta che mi vede. Ci spero, ma ne dubito.

    Più i venti anni si avvicinano e più il racconto della zia Silvia mi angoscia. Mia madre, tanto per non mettermi fretta, quando ho compiuto diciotto anni mi ha presentato sua sorella, la monaca.

    La sua storia è terribile: Silvia non voleva avere dei corteggiatori perché non voleva perdere la libertà di scegliersi il proprio destino. Diceva che fare la moglie vuol dire sottostare a delle sciocche convenzioni sociali, create dagli uomini e in favore degli uomini. Così, nonostante fosse bella, gli anni passarono e la fila dei pretendenti si assottigliò fino a esaurirsi del tutto. Si ritrovò a trent’anni zitella (condizione che per una donna sembrerebbe quasi peggio di una malattia) e rimpianse amaramente le sue scelte e il desiderio di libertà che, alla fine, l’avevano condotta a una completa solitudine. Così, per dare un senso alla sua vita, ha abbracciato l’ordine monastico sposandosi con dio. La religione non è molto consolatoria per me e io voglio avere una vita normale; quindi spero con tutta me stessa di non seguire le sue orme.

    *

    Il taxi mi lascia davanti a casa. Come sempre Kenneth sa già che sono io e mi apre il cancello senza che neanche abbia bisogno di citofonare. Poi mi viene incontro attraverso il sentiero di beole che divide a metà il giardino davanti alla nostra villa.

    Questo è il momento d’oro del giardino, la grande passione di mia madre, che sempre in maggio si veste di migliaia di rose.

    Mia madre tiene moltissimo alle sue rose: tutte le mattine le ispeziona per assicurarsi che il giardiniere le curi a dovere, che l’acqua non sia troppa o troppo poca, che gli afidi non si siano fatti strada attraverso le sue creature. Devo riconoscere che il frutto dei suoi sforzi farebbe impallidire il vivaista più esperto: abbiamo rose di tutti i colori, a cespuglio, rampicanti e ad alberello; rose antiche e nuove specie, provenienti da tutto il mondo, raggruppate in aiuole e cascate, e l’effetto è un balsamo per l’anima. L’aria tiepida di maggio scalda i loro profumi e questa fragranza, delicata e inebriante al tempo stesso, è per me il primo dolce sorriso della bella stagione. Le mie preferite adesso sono in boccio, Souvenir de Malmaison. Il grande cespuglio trabocca di fiori panna con sfumature rosate, due per ogni ramo, accompagnati da un fogliame scintillante. Il loro profumo è inconfondibile e non posso evitare di fermarmi ad accarezzarne i petali, simili alla pelle delle guance delle fanciulle. Come le mie e quelle di Rowan, in cui giovinezza e bellezza si abbracciano e invitano alla spensieratezza e alla felicità. Sono rose antiche, e si deve il loro nome alla residenza che Napoleone donò come pegno d’amore alla sua prima moglie.

    Altri cespugli catturano il mio sguardo, reclamando gelosi la mia attenzione: la macchia gialla delle Charles Darwin e delle Jude the Obscure ricordano una veste ottocentesca intessuta di raggi solari e non mi stupirebbe se i grandi fiori a coppa si animassero e danzassero.

    Poco più in là il rosso brillante delle Braithwaite mi fa pensare a stoffe preziose: sete o velluti non so dire, ma il fascino e la sensualità che ispirano è quasi intollerabile.

    «Lasci che l’aiuti, signorina Siobhan» si offre Kenneth riportandomi con i piedi per terra. «I suoi genitori l’aspettano in veranda per il tè.»

    Gli archi ricoperti di rose rampicanti sono l’ultimo saluto del giorno e quando vi passo sotto chino il capo a Nahema, che mi risponde con un durevole effluvio rosa.

    Mio padre e mia madre sono una strana coppia: il detto i poli opposti si attraggono, se applicato a loro, è assolutamente appropriato. Mia madre cinguetta allegra tutto il giorno, ha sempre qualche novità da raccontare, qualche cosa nuova da fare, posti da visitare e party a cui presenziare. Quest’anno è passata dallo spinning al pilates nel giro di quattro mesi e ogni volta sostiene di aver trovato quello che fa per lei. Conosce un fantastiliardo di persone e sa tutto di tutti. La sua frizzante personalità la rende sempre bene accetta e così ogni settimana c’è un evento mondano a cui assolutamente deve partecipare. Il guaio è che quasi sempre fa in modo che l’invito sia esteso anche a me e non sempre ho voglia di un bagno di folla.

    Mio padre, il magnate dell’industria farmaceutica, invece è di indole più riservata. Gli piace la compagnia, però ama la sua privacy e spesso si chiude per ore in biblioteca, unici compagni i suoi innumerevoli libri e il silenzio. Mio padre ha inventato un farmaco capace di stimolare la rigenerazione cellulare nell’epidermide, che ha dato speranza a milioni di ustionati.

    Per metterlo a punto ha passato anni in Africa, a studiare e sperimentare sulle vittime delle bombe incendiarie, le armi preferite dai guerriglieri. Sono convinta che tutto l’orrore che ha visto con i suoi occhi non vada d’accordo con le frivolezze della nostra vita e ogni tanto ha bisogno di pace e solitudine per ricaricarsi. Noi lo sappiamo e non interferiamo.

    Se non avesse sposato mia madre, però, questi momenti di tristezza lo annienterebbero, mentre grazie a lei ritrova il sorriso, la speranza in un’umanità felice e la voglia di creare altre cure miracolose.

    Eccoli adesso, seduti vicini che sorbiscono il tè.

    «Siobhan, cara, vieni. C’è una tazza anche per te» esclama mia madre. Nei suoi occhi noto un luccichio sospetto.

    «Hai passato una buona giornata?» mi chiede mio padre sereno.

    «Sì, papà, grazie. Sono stata con Rowan. Siamo andate a fare shopping e poi abbiamo pranzato insieme. Com’è andata con lo chef del catering?» mi rivolgo a mia madre, perché non vede l’ora che glielo chieda.

    «Bene tesoro! Ho stilato il menù e domenica prossima abbiamo la prima degustazione.»

    Non ho ancora capito a cosa devo quello strano sguardo che ha negli occhi, ma sono sicura che non sarà un mistero ancora per molto.

    «Abbiamo un invito a cena questa sera! Da Liriani, con il quasi partner tedesco di tuo padre. Sai, ha un figlio pressappoco della tua età di cui si dicono grandi cose!»

    Ma guarda un po’! Ancora una volta mia madre veste i panni di Cupido! E sì che è solo da due anni che posso uscire con i ragazzi, non sono poi un caso disperato!

    Be’, a ogni modo, non voglio guastarle la serata e poi mica male una cena da Liriani. E chissà mai che questo ragazzo valga la pena di essere conosciuto. Fortunatamente ho comperato un vestito nuovo che è perfetto per l’occasione. «Bene. Allora vado a prepararmi!» Così dicendo trotterello allegra verso le mie stanze.

    *

    Bagno caldo, un velo di crema per il corpo profumata, capelli pettinati a dovere, un tocco di trucco. E poi questo abito mi calza come un guanto: la maglina di seta nera esalta la mia carnagione chiarissima. La gonna appena sopra il ginocchio dà una vaga idea di formalità e la profonda scollatura sul seno è piuttosto sexy.

    Tocco finale: il grande fermaglio di strass che arriccia il tubino in modo da seguire perfettamente le forme armoniose del mio corpo.

    Alla fine mi sento appagata dall’immagine della ragazza dai capelli rossi che mi sorride vanitosa dallo specchio. Poi mi guardo negli occhi e come sempre resto perplessa: per uno strano scherzo della natura i miei occhi sono scurissimi, che di per sé è singolare in una persona che, con poca fantasia, potrebbe sembrare albina.

    Come se non bastasse, nell’iride sinistra c’è una macchia tonda di colore turchese chiarissimo.

    È proprio come un buco, come se nel cioccolato fondente fosse stata incastonata una caramellina all’anice. Da lontano l’effetto è inquietante, come se il cerchio dell’iride fosse aperto. Tutte le volte che mi guardo, questa particolarità non richiesta mi fa sentire a disagio.

    Bussano alla porta, strappandomi alle mie valutazioni.

    «Signorina Siobhan, la macchina è pronta e i suoi genitori la aspettano.» La cameriera mi richiama all’ordine.

    Il tragitto fino al ristorante è silenzioso: mia madre mi guarda compiaciuta e mio padre è perplesso dall’impazienza di mia madre affinché io trovi marito.

    Sei come un bocciolo di rosa, Siobhan mi ha detto una volta mia madre. La bellezza e la giovinezza si stanno schiudendo in te. E quando sarai una rosa si sentirà solo il tuo profumo.

    Chissà se mio padre è altrettanto emozionato di fronte al mio fiorire. Non ci giurerei, ma non ha importanza. Sprofondata nel comodo sedile di pelle, sorrido felice, circondata dall’amore dei miei genitori e dalla vita da favola che mi permettono di condurre.

    Quando arriviamo da Liriani, Kenneth accosta e noi scendiamo di fronte all’entrata del lussuoso ristorante. Liriani è uno dei migliori ristoranti di tutta la Federazione Italica e propone piatti della cucina tipica dello Stato del Nord. All’interno la luce è calda e soffusa grazie alle lampade con i cappelli rossi. E rosse sono anche le poltroncine di velluto che fungono da sedie che, insieme alle suppellettili, conferiscono al locale un’aria retrò. Al centro della sala un grande pianoforte nero a coda diffonde le note di Chopin.

    Il maître ci viene incontro ossequioso e ci accompagna al tavolo, dove i nostri ospiti già aspettano.

    Gli altri clienti del ristorante si voltano a guardarmi, come sempre: gli uomini ammirati e le donne seccate. Quando incontrano il mio sguardo, però, si ritraggono tutti e anche questo rientra nella normalità.

    Se fossi Rowan non succederebbe, ma sono Siobhan e, quasi sempre, le persone si sentono a disagio con me.

    «Signor Wiesmann ci dispiace avervi fatto attendere» si scusa mio padre.

    «Non c’è di che dispiacersi dottor Redick. Siamo appena arrivati e, anche se così non fosse, la compagnia di due signore così affascinanti vale bene la pena di aspettare.» Il signor Wiesmann e figlio si alzano e si inchinano prima a mia madre e poi a me per un galante baciamano.

    Mia madre adora tutte queste smancerie e se fosse un gatto adesso si metterebbe sicuramente a fare le fusa. Be’, devo ammettere che il gesto mi lusinga, visto anche che il figlio di Wiesmann, Karl, è un bel ragazzo.

    «È la prima volta che visitiamo lo Stato del Nord e devo dire che Milano è una città stupenda. Il numero e la bellezza delle sue accademie e dei suoi musei è a dir poco impressionante. Sapevo che questa è una città d’arte, ma non avevo capito quanto il retaggio storico e culturale fosse importante per i suoi cittadini.

    E poi mi risulta anche che quanto a divertimenti non abbia nulla da invidiare alle altre capitali, ma forse questo è un aspetto che i nostri ragazzi sanno sicuramente apprezzare meglio di noi»

    sorride Wiesmann ammiccando verso di me. «A ogni modo spero che siglando il nostro accordo io possa sviluppare una certa familiarità con questa parte del mondo e sono sicuro che mio figlio la pensa proprio come me.»

    In effetti Karl non mi ha tolto gli occhi di dosso da quando ci siamo presentati. Però, è proprio carino: è alto un pochino più di me con i tacchi (il che è un requisito fondamentale per esser preso in considerazione come eventuale corteggiatore), ha i capelli di un biondo delicato tagliati cortissimi e rigorosamente disciplinati e gli occhi color nocciola spiccano su un viso dai lineamenti decisi.

    La conversazione diventa formale. I grandi parlano di lavoro e io mi annoio. Ti prego Karl piacimi! Piacimi tanto! Affascinami, fammi innamorare di te! Non voglio diventare una zitella!

    «Pensi di continuare qui gli studi?» gli chiedo notando che, nonostante cerchi di prestare attenzione all’argomento lavoro, continua a rivolgermi occhiatine furtive.

    «Sì, ma mi mancano solo quattro esami per finire l’università.

    Non appena mi sarò laureato entrerò in azienda, dove spero di portare avanti con successo l’operato di mio padre» afferma soddisfatto e vedo che sogna a occhi aperti il futuro che gli si profila all’orizzonte.

    Sembra interessante, un bravo ragazzo, posato, con la testa sulle spalle, promette bene.

    «E tu Siobhan? Raccontami di te.» Per un attimo l’infatuazione crescente che ha verso di me fa vacillare la sua aria di compostezza.

    «Io sto frequentando il secondo anno della Scuola di Perfezionamento e poi non ho ancora molto chiaro cosa mi riserva il destino. Per ora mi diverto con il tiro con l’arco. E a te Karl, piacciono gli sport?»

    «Sì, ma mi piacciono gli sport veri, quelli fisici.» Un’espressione da macho gli stropiccia quell’aria da damerino che di colpo mi dà sui nervi.

    Poi, resosi conto della gaffe e del mio sorriso beffardo cerca di rimediare. «Non voglio offenderti, ma trovo il tiro con l’arco un tantino statico. Il calcio invece è tutt’altra cosa.»

    Il calcio? Ha veramente detto il calcio? Non ci posso credere! Karl ha appena perso dieci punti. Detesto il calcio: novanta minuti trascorsi correndo dietro a un pallone e l’esito della partita dipende dalla capacità di ventidue assatanati di corrergli dietro insieme.

    Cerco di scacciare dalla mia mente le terribili parole di mia madre che, puntualmente, vengono a tormentarmi e, grazie al cielo il padre di Karl ferma il suo sproloquio sulle meraviglie del calcio.

    «Non sai Siobhan che Karl è un abile musicista?»

    Prima che possa commentare in modo appropriato, mia madre si mette in mezzo. «Ma davvero? Che carino! E che cosa suoni, Karl?» gli chiede trepidante.

    L’entusiasmo che trapela dalla sua voce mi lascia intendere che mia madre ha completamente frainteso la maschera di cordialità che ho plasmato sulla mia faccia. Di bene in meglio...

    «Suono il violoncello, signora» risponde Karl con un certo orgoglio.

    «Ed è un vero talento!» lo incalza il padre.

    Violoncello? Non male, ma non appena cerco di stabilire se il violoncello mi vada effettivamente a genio oppure no, il mio aspirante spasimante parte con un altro monologo sulla difficoltà di suonare lo strumento e sulla carica emotiva che sa trasmettere al pubblico e bla bla bla.…Chissà se riesco a tagliarmi le vene con il coltello da dessert?

    Prima di accertarmene, mi alzo e con garbo mi dirigo alla toilette con la scusa di incipriarmi il naso, che in queste situazioni è sempre una salvezza. Mentre mi allontano dal tavolo sento gli occhi di Karl che passano in rassegna ogni centimetro del mio corpo. Mi dispiace Karl, ma non sei quello giusto.

    Il resto della serata fila liscio e per fortuna la cena è veramente squisita, all’altezza delle aspettative. Dopo i caffè ci alziamo per accomiatarci e io tiro il fiato.

    «Mi ha fatto un grande piacere conoscerti Siobhan e spero di rivederti presto. Magari potresti farmi da guida attraverso le bellezze di Milano»mi suggerisce Karl speranzoso.

    Certo, come no, mi verrebbe da rispondergli, ma non voglio essere sgarbata con lui. Non è colpa sua se è più noioso di una lezione di matematica. «Mi sembra un’ottima idea!» gli rispondo con forse un po’ troppa enfasi, pentendomene subito. Ci manca pure che pensi che io sia interessata a lui.

    Ma Karl per fortuna non sembra accorgersene. E poi, grazie al cielo, Kenneth è già pronto con la macchina per riaccompagnarci a casa.

    2

    Nel silenzio della grande sala in pietra, il Maestro fissa il complesso macchinario estasiato dall’irresistibile calore che esso diffonde.

    Irresistibile... sì, irresistibile pensa bramando un’altra boccata.

    Si avvicina ulteriormente e socchiude appena le palpebre. Poi, con un ghigno malefico, inspira profondamente, fino a riempirsi completamente i polmoni, fino a provare il tanto agognato sollievo.

    Ma, nello stesso momento, uno dei fili d’oro perde la sua lucentezza, iniziando un cammino che lo porterà a diventare freddo e nero, proprio come altri prima di lui.

    *

    Il mio posto, il mio bellissimo posto... Da quassù la vista è mozzafiato: la costa frastagliata si estende a perdita d’occhio alla mia destra e alla mia sinistra. Pareti di roccia scura si tuffano a piombo in un mare incredibilmente blu. E ai miei piedi, attraverso l’acqua cristallina, nuota un’incredibile varietà di pesci: posso scorgere banchi di fucilieri azzurri, cernie maculate e tonni dalle pinne gialle che si rincorrono tra le onde e, molto semplicemente, vivono. Attraverso le calzature leggere riesco a sentire la morbidezza dei fili d’erba che si spingono quasi al limitare delle rocce. Colta da un’improvvisa euforia inspiro a fondo l’aria salmastra, l’aria di casa mia, e mi spingo sulle punte dei piedi allargando le braccia. La leggera brezza marina gioca con la mia veste, con i miei capelli e mi accarezza come un amante gentile sospirerebbe di fronte al suo amore...

    E poi un rumore fastidioso mi ricorda che io non so nulla di carezze e di amanti gentili e che, ancora una volta, questo è solo un sogno.

    La delusione è un frutto aspro e a me piacciono solo i cibi dolci.

    Fortunatamente oggi è domenica e mi aspetta una giornata di tiro con l’arco e altre spensieratezze insieme a Rowan. Non sto più nella pelle all’idea e in un baleno indosso la divisa del circolo e mi precipito a fare colazione.

    Entro in sala da pranzo. Strano: Kenneth, stavolta, non mi ha sentita arrivare. Qualcosa non va. Dev’essere accaduto qualcosa di brutto. Non ho motivo di credere una cosa del genere, eppure so di non sbagliare. Ma il mio sesto senso non mi ha preparata alle immagini che mi si parano davanti: mia madre, mio padre e Kenneth sembrano letteralmente paralizzati dall’orrore delle ultime notizie provenienti dal sud-est asiatico.

    "Alle nove di questa mattina, ora della penisola italica, un violento terremoto pari all’undicesimo grado della scala Mercalli ha devastato le coste occidentali dell’isola di Giava. Molte piccole scosse hanno preceduto questa immane catastrofe nelle settimane scorse, ma i sismologhi non hanno saputo prevedere un simile epilogo. Non abbiamo ancora notizie definitive dai nostri inviati, ma pare che l’aspetto dell’isola sia cambiato definitivamente.

    Infatti una mostruosa voragine segna adesso il tratto nelle vicinanze della costa tra Sukabumi e Sindangbarang. Ricordiamo che Giava rientra in una zona fortemente sismica, caratterizzata da frequenti terremoti e massicce eruzioni vulcaniche. L’isola stessa è di origine vulcanica. A ogni modo, questa tragedia è senza precedenti e riteniamo che ci vorrà molto tempo per stimare il numero delle vittime e l’entità dei danni. Ma ecco che abbiamo un aggiornamento..."

    Il cronista ascolta le informazioni che gli arrivano in cuffia e il suo volto già cereo perde del tutto ogni traccia di colore.

    ... la NASA ha appena divulgato delle immagini satellitari che documentano l’inarrestabile corsa di uno tsunami che gli esperti stimano si abbatterà con intensità diverse, ma comunque senza precedenti, in diversi punti dell’Oceano Indiano, a partire da Sumatra e tutte le isole del Sud-est asiatico fino a interessare le coste nord-occidentali dell’Australia, Sri-Lanka, Madagascar e parte della costa africana. Per molti il preavviso è pressoché nullo e le autorità locali stanno cercando di evacuare il maggior numero di persone, ma il panico e, in molti casi, l’inadeguatezza delle risorse disponibili, sono un problema insormontabile...

    Il cronista continua a fornire dettagli e le immagini scorrono sullo schermo, ma io non vedo e non sento più nulla. Sono scioccata, inebetita... non so bene neanche io come definire la sensazione di ineluttabilità e di morte che mi opprime togliendomi il respiro.

    La natura si ribella e noi non possiamo farci niente. La Terra va in pezzi sotto i nostri piedi e noi non possiamo trovare rifugio. Di colpo mi rendo conto di quanta parte delle nostre vite sia fuori dal nostro controllo, di come il destino si faccia beffe delle nostre speranze, di come in un attimo il corso delle cose deragli e si lasci dietro solo il vuoto.

    Poi Kenneth si gira con un’espressione di stupore e panico che non gli avevo mai visto prima e quando incrocia il mio sguardo sento che ha paura...

    Per me?

    La rivelazione mi sciocca ancora più del telegiornale ma lui in un attimo si ricompone e mi serve la colazione in silenzio. Forse mi sbaglio. Sì, deve essere così.

    Mio padre distoglie lo sguardo dallo schermo. «Ciao tesoro, hai dormito bene?» Ma quando mi guarda in faccia si affretta a spegnere la televisione.

    Allora anche mia madre si volta e preoccupata mi fa sedere a tavola. «Oh cara! Non ti devi preoccupare. Milano non è in una zona sismica, i terremoti non ci riguardano! Su, su mangia qualcosa: sei così pallida!»

    Milano non è in una zona sismica, Milano non è in una zona sismica.

    Non ci riguarda. Ma le immagini del telegiornale e l’espressione di Kenneth sono difficili da dimenticare. Comunque dopo un po’ di caffè riesco a riprendermi e il sangue ritorna a circolare sulle mie guance.

    «Così, brava Siobhan, mangia ancora qualcosa» mi imbocca mia madre. E poi, come se niente fosse successo, mi ricorda che ho appuntamento con Rowan al club e che la vita continua.

    Sto ancora cercando di riordinare le idee quando all’improvviso una sensazione di vertigine mi assale. Migliaia di campanelli esplodono nelle mie orecchie assordandomi e delle formichine luminose si rincorrono nei miei occhi. Una rosa nel grande vaso sul tavolo si sfoglia e i suoi petali cadono lenti e poi restano immobili. Nella mia pancia qualcosa viene succhiato fino a darmi l’impressione che dentro non sia rimasto niente. Un vuoto nero pervade ogni fibra del mio essere. Dunque, questa è la morte?

    Un grido di orrore mi scoppia nella mente, ma sono troppo scioccata e non posso dargli voce e così mi muore in gola.

    «Signorina Siobhan? Signorina Siobhan!» Kenneth mi chiama ma la sua voce mi arriva ovattata, come se fossi sott’acqua.

    Mi volto verso di lui. Lui sa.

    Chiudo gli occhi e inspiro profondamente per schiarirmi le idee.

    Non voglio questo caos, questo strano orrore.

    Rimani salda.

    Cosa? Chi l’ha detto?

    Ma quando apro gli occhi la scena è immutata: mia madre e mio padre bevono il caffè leggendo il giornale e Kenneth mi guarda serio. «Signorina Siobhan, l’auto sarà pronta tra venti minuti.»

    *

    Basta, per oggi non voglio più saperne di strane sensazioni della serie ai confini della realtà. Capitolo chiuso. Io ho una vita perfetta, è inutile farsi troppe domande. E poi non sono certo una filosofa, o una sensitiva o chissà cos’altro. Sono solo una ragazza di Milano come tante. Adesso l’unica cosa a cui voglio pensare è la mia giornata con Rowan al club, tra un tiro e l’altro, tra una chiacchiera e l’altra, tra una risata e l’altra. Ecco, bene così, le cose stanno tornando nella giusta prospettiva. Sorrido e mi rilasso sul sedile posteriore della nostra Mercedes S che avanza come una pantera nella verde campagna della Brianza.

    Circa un secolo fa, l’allora Governatore dello Stato del Nord emanò un decreto che rivoluzionò completamente la storia e l’aspetto di Milano e del suo hinterland. A quel tempo Milano era una città caotica, le strade erano invase da automobili e motorini di ogni dimensione. Il traffico era semplicemente un delirio e l’amministrazione comunale stava soccombendo sotto le continue richieste di parcheggi, regolamentazioni e implementazione dei mezzi pubblici. Per quanto si facesse, non si riusciva a ottenere risultati apprezzabili. La città era congestionata e sovrappopolata perché da sempre è stata una meta per chiunque, nella penisola italica, cercasse lavoro. A ciò si è aggiunto un flusso robusto e costante di immigrati in fuga dallo sfacelo delle Repubbliche Balcaniche in seguito al fallito colpo di stato di Valieno. Nuove persone, nuove case e nuovi problemi hanno reso la città una giungla in cui si aggiravano predatori alieni. Casermoni di cemento erano fioriti nelle periferie fino a quando non c’era più stato un vero e proprio confine cittadino. Le campagne avevano ceduto il posto a industrie e laboratori di ogni tipo e dimensione, spesso illegali e quasi sempre non in regola con le norme di tutela dell’ambiente. Nell’arco di un decennio, tutto ciò che era verde e puro era diventato grigio e inquinato senza che il governo o l’amministrazione riuscissero a frenare questa disastrosa tendenza.

    La grande crisi economica di inizio secolo definitivamente mise in ginocchio il sistema: le fabbriche furono chiuse, i lavoratori persero il posto e la povertà divenne la compagna di molte famiglie.

    Fu proprio in questo contesto che maturò la necessità di un’inversione di tendenza radicale, che riportasse la gente e il territorio alle loro origini perdute e, nel contempo, risollevasse l’economia.

    La Riforma Verde fu una manna dal cielo: essa ripulì le strade dai delinquenti recidivi, rimandandoli nei loro paesi senza guardare in faccia nessuno e, con la creazione di un sistema doganale ferreo, fu assicurato il non ritorno degli stessi o di altri. Questo provvedimento è venne accolto da molti con sdegno e disappunto, ritenendolo un insulto ai diritti umani ma, quando la vera rivoluzione prese piede, tutte queste voci improvvisamente e platealmente tacquero. Le le fabbriche e le case abbandonate e fatiscenti vennero demolite e destinate alla creazione di spazi verdi per la comunità. A poco a poco, il grigio sparì dalla Brianza, soppiantato da parchi, aree ricreative e impianti sportivi di ogni tipo, in grado di assorbire buona parte dei disoccupati della Grande Crisi. Coloro che non sono riusciti a trovare un lavoro non hanno disperato, però, a lungo: la bellezza dei paesaggi e la varietà di modi in cui impiegare il tempo libero favorirono la realizzazione di alberghi e strutture ricettive di vario genere, consacrando la Brianza meta turistica di fama mondiale. La città di Milano è stata ripulita ed è tornata a essere la città d’arte che è sempre stata. Il traffico ha subito una drastica riduzione, grazie alla rete di mezzi pubblici sempre più capillare, e le uniche macchine che possono circolare sono quelle i cui proprietari dispongono di un posto auto. A ogni modo, una tendenza salutistica si è fatta breccia nelle abitudini dei milanesi e molti si spostano semplicemente a piedi o in bicicletta.

    Guardo attraverso il finestrino e mi sembra incredibile che questo paesaggio immacolato, a tratti boschivo e a tratti collinare, possa un tempo essere stato diverso.

    Eppure è così.

    *

    Dopo una mezz’ora di strada, usciamo dal Bosco del Giglio. In lontananza si può scorgere l’elegante profilo del Circolo degli Arcieri del Giglio, il mio centro di tiro con l’arco. Alla vista della villa settecentesca mi si allarga il cuore. Il Circolo degli Arcieri del Giglio è il più antico di tutta la Penisola Italica. Al suo centro sorge un maniero perfettamente restaurato, che un tempo fu la dimora dei visconti del Giglio, una famiglia patrizia del Cinquecento, originaria della Toscana.

    I visconti del Giglio erano mecenati delle arti e, in particolar modo, amavano circondarsi di giovani pittori di umili origini, ai quali davano la possibilità di esporre nei loro palazzi e di ritrarre le personalità di spicco della loro cerchia di amici. La leggenda vuole che verso la fine del Seicento una strega maledisse il visconte Uberto, colpevole di aver sedotto e abbandonato la figlia della megera in questione. Il visconte, che non credeva nelle superstizioni ma che era adirato con la strega, decise di denunciarla alla Santa Inquisizione, pensando così di rimettere in riga la plebaglia e di affermare la superiorità della sua stirpe. Il Tribunale Ecclesiastico condannò, come prevedibile, la strega al rogo e, quando la pira fu pronta e il fuoco acceso, si dice che la vecchia inveì così atrocemente contro il visconte che per un anno gli alberi non diedero frutto e i raccolti andarono distrutti. Come se ciò non bastasse, la sposa e il primogenito di Uberto del Giglio morirono di una malattia inspiegabile. Una sera di gennaio, la folla inferocita e armata di forconi costrinse il visconte e il suo secondogenito ancora in fasce alla fuga. Uberto si rifugiò al Nord e albergò in una stamberga insieme a manovali e altra umile gente.

    Quando sembrava che tutto fosse perduto, il visconte ricevette una visita in sogno: un grande sagittario lo prese per mano e lo condusse su una collina al limitare di un bosco. Lì posò un giglio che pian piano mise radici. I gigli si moltiplicarono a distesa e, al centro di essi, sorse una grande villa. Prima di scomparire, il sagittario donò il suo arco al visconte e gli ordinò di educare i suoi figli alla nobile arte del tiro con l’arco. E così Uberto del Giglio vagò in cerca di quella collina e, quando la ebbe trovata, vi eresse il maniero e fondò il Circolo degli Arcieri del Giglio. Quando, agli inizi del Novecento, la famiglia si estinse, il governatore dello Stato del Nord decretò che la tenuta diventasse patrimonio del Circolo e gli arcieri ne divennero soci con l’impegno di portare avanti la tradizione del tiro con l’arco. Oggi il club comprende anche un ristorante, un bar sulla terrazza che si affaccia verso la Brianza, un centro termale con piscine coperte e scoperte, un grande salotto da conversazione e diverse sale per il gioco delle carte.

    Quando entriamo nel lungo viale alberato che conduce all’ingresso del Circolo, sono ormai serena. Gli orrori del mattino appaiono remoti, svuotati della loro carica angosciante, e la vita mi sorride di nuovo. Scendo leggera dalla macchina, prendo la mia borsa con il cambio e la custodia del mio arco e mi avvio verso gli spogliatoi, impaziente. Qualcuno ha detto che la vita è come una scatola di cioccolatini e non sai mai quello che ti capita. Io non voglio che sia così, a me piace leggere gli ingredienti prima di scegliere.

    «Rowan!»

    dio ti ringrazio di avermi dato Rowan. Soprattutto oggi che il turbamento mi gira nelle viscere come fumo nero. Mi sento sempre un po’ colpevole verso i miei genitori per il legame speciale che unisce Rowan e me. È come se un invisibile filo di ragnatela ci legasse. In un certo senso è come se affrontassimo la vita mano nella mano, con le dita intrecciate e lo sguardo rivolto nella stessa direzione.

    Il suono della mia voce la fa trasalire, come se l’avessi strappata da un pensiero profondo. Quando si volta i suoi occhi bluvioletti sono velati da una strana ombra, il suo viso è leggermente contratto. Non ho bisogno di altri indizi, so che cosa ha: è scioccata (per usare un eufemismo). L’orrore che fatico a scacciare dalla mia mente ha raggiunto anche lei.

    «Siobhan, ciao.» Abbozza un sorriso, ma non ci casco.

    «Ehi? Ti è morto il gatto?» La butto sul ridere ma mi pento subito, perché qualcuno è morto sul serio, oggi. Lo sguardo mi cade sulla custodia dell’arco e sospiro di sollievo.

    «Sì Siobhan, per fortuna un santo misericordioso ha inventato il tiro con l’arco» sorride Rowan dandomi un buffetto sulla spalla.

    Ci avviamo verso il campo di tiro, desiderose di sgombrare la mente dai pensieri tristi. Appena usciamo dallo spogliatoio incontriamo Basil, il nostro maestro.

    «Bene bene, primedonne! Buongiorno! Siete in ritardo e Anna è già andata a scaldarsi» esclama con aria beffarda.

    Non esiste al mondo un altro maestro degno di lustrare le scarpe a Basil, però certe volte è proprio insolente e oggi in particolar modo gli ficcherei arco e frecce in bocca.

    Come se avesse sentito i miei pensieri sgrana gli occhi con un’espressione di divertito stupore e, prima che possiamo dire qualcosa, continua con lo stesso tono peggiorando la sua posizione. «Però, non avete mica una bella cera a quanto vedo.

    Speriamo di riuscire a mettere insieme qualche buon tiro.»

    Io e Rowan siamo le sue allieve più talentuose. Tutti i maestri ci vorrebbero, eppure lui spesso e volentieri ci punzecchia e ci rimbrotta. Se non fosse per la stima e per la fiducia che abbiamo in lui l’avremmo già mollato. Vorrei rispondergli per le rime ma Rowan mi tira per il braccio e così andiamo a raggiungere Anna.

    Anna è la nostra terza nella squadra per la gara di domenica prossima, i Campionati Federali della Penisola Italica. Non è stato facile trovare una compagna, nessuno voleva iscriversi con noi per paura di sfigurare. In effetti, io e Rowan siamo una spanna sopra le altre e devo dire che neanche lei era poi tanto smaniosa di partecipare a una gara così importante. Io, al contrario, quando ho saputo che il nostro Circolo avrebbe ospitato i Campionati ho letteralmente cominciato a dare i numeri per l’impazienza.

    Quando si tratta di tiro con l’arco non capisco più niente, mi va il cervello in pappa e ho voglia solo di tirare e tirare e tirare... Non sono una fanatica dell’agonismo, ma adoro mettermi alla prova, io e il mio arco contro il resto del mondo. E se poi c’è anche Rowan il quadro è perfetto.

    Quando a inizio anno ci siamo iscritte ai Campionati, la sera con i miei genitori non parlavo d’altro. Gli ho fatto una testa così! Tanto che, quando ho comprato il mio arco nuovo, mi hanno regalato una custodia e una faretra in coordinato. E sono splendide! Le più lussuose di tutto il Centro, in coccodrillo lucido rosso e argento.

    La custodia è rivestita di velluto e contiene perfettamente sia la faretra sia l’arco.

    Non mi piace però chiamarlo arco. Per me è molto di più, è un vero e proprio compagno di avventura. E devo dire che tra tutte le stranezze della mia vita, questa è la più grossa.

    Era fine febbraio e io stavo aspettando un taxi nell’apposito parcheggio vicino al centro termale che frequento abitualmente.

    La giornata uggiosa aveva reso i taxi pressoché indispensabili e non avevo voglia di aspettare sotto la pioggia. Così decisi di fare quattro passi e di andare a bere un tè caldo in una pasticceria lì vicino. Per fare prima, decisi di prendere una scorciatoia e di tagliare per le stradine della vecchia Milano ma, non so come, mancai la traversa giusta e sbucai in un posto diverso da quello che volevo. Un po’ disorientata, mi fermai sul marciapiede cercando di far mente locale e di capire dove avevo sbagliato quando il mio sguardo venne catturato dall’insegna di un negozio:

    FORTUNA SPORT

    TUTTO PER LA CACCIA E IL TIRO CON L’ARCO

    E un piccolo cartello sulla porta recitava:

    SOLO PER VERI APPASSIONATI. ASTENERSI PERDITEMPO

    Io non credo nella fortuna, credo nelle mie capacità, nell’allenamento e in tutto ciò che posso toccare. La fortuna rientra nel campo del mistero e non mi piace. Però, quando si tratta di tiro con l’arco non sono propriamente in me e quindi, irrimediabilmente attratta, entrai nel negozio. L’interno era grazioso, sembrava il salotto di una vecchia casa di campagna, e la mia attenzione fu subito richiamata dagli archi appesi alle pareti.

    Mentre

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