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Il gatto & gli stivali
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E-book301 pagine4 ore

Il gatto & gli stivali

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Info su questo ebook

Secoli dopo l'Olocausto nucleare, i sopravvissuti vivono al riparo delle Città Scudo. Tra grattacieli futuristici e parchi lussureggianti, si aggrappano alla vita del passato. Eppure, fuori dalle cupole di protezione, il deserto post atomico, popolato da mostri mutanti, li tiene sotto assedio.
La torre più alta di New Seelia appartiene alla Van Der moon, polo tecnologico che si batte per l'avvenire dell'umanità. Ed è qui che Myra, una ragazza in cerca di riscatto, dà una svolta al proprio destino. 
Una fantastica avventura, adatta a tutti, giovani e adulti che coinvolge il lettore sin dall prime pagine.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2022
ISBN9788864903552
Il gatto & gli stivali

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    Anteprima del libro

    Il gatto & gli stivali - Marta Leandra Mandelli

    1.

    IL GATTO E GLI STIVALI

    Camminavo sconsolata per il Quartiere Gitano, quando li vidi.

    Era stata una giornata terribile, la più avvilente della mia vita. L’umore nero mi scherniva dal riflesso nelle vetrine. Le contemplavo con la speranza che cose belle e frivole mi alleggerissero lo spirito. Non aveva funzionato, fino a quel momento. La città fremeva di vita e io sentivo di perdere terreno e di non essere abbastanza forte da stare al passo.

    Mi ero trasferita a New Seelia anni prima, per iscrivermi alla Scuola Secondaria di Elezione. Ero orfana e avevo vissuto l’infanzia e la prima adolescenza in un istituto della mia Città Scudo natale, New Arcadia. La mia famiglia era morta durante un attacco dei Perduti. Da quando ero arrivata, avevo dato il massimo: avevo trovato un lavoro nella libreria del Quartiere Gitano, che mi consentiva di mantenermi senza ricorrere ai sussidi, e mi ero diplomata in Umanistica a pieni voti. Avrebbe dovuto essere solo un’occupazione temporanea, in attesa di un impiego degno della mia erudizione. Tuttavia, con l’andare del tempo mi ero trovata bene alla libreria ed ero rimasta anche dopo il diploma. Ora, avevo diciannove anni, un piccolo gruzzolo di risparmi che si sarebbe assottigliato alla svelta, e nessun lavoro. Il Quartiere Gitano stava per subire un profondo mutamento e la libreria aveva chiuso.

    Al suo posto, sarebbero sorti i locali logistici della nuova torre polifunzionale della Van Der Moon, che era in corso d’opera. Avrebbero accolto un distaccamento delle truppe di fanteria, armamenti, apparati di comunicazione e un potente alimentatore per lo scudo cittadino. La torre era di essenziale importanza. Gli attacchi dei Perduti diventavano più audaci di giorno in giorno. Però, il nuovo assetto del quartiere non teneva conto di me, delle mie aspirazioni e della mia felicità.

    Sospirai scoraggiata. In tasca avevo l’ultimo stipendio e la liquidazione. Nel cuore, la consapevolezza che non interessavo a nessuno. A dispetto del mio impegno, io non servivo a niente. Forse, i clienti della libreria avrebbero sentito la mia mancanza, ma presto avrebbero trovato un altro negozio e un’altra commessa, con la medesima passione per le storie del Mondo Antico. Lo stesso valeva per il padrone della casa in cui vivevo: avrebbe trovato un altro affittuario per la mansarda che chiamavo mia. Per me significava emancipazione e indipendenza; tornare al convitto sarebbe stata una sconfitta.

    Procedevo con passo annoiato tra gli ultimi edifici liberty di tutta New Seelia. Il quartiere doveva a loro il suo nome, più che a un’etnia che, come molte dopo l’Olocausto, si era pressoché estinta. Fu così che, passeggiando senza meta nel fervore cittadino, attraversai un piccolo parco, mentre una linea rossastra si espandeva nel cielo del tardo pomeriggio. Iniziava a fare fresco e mi strinsi nel giubbotto di jeans. Non badai all’ennesimo attacco allo scudo, capitavano di continuo e avevo problemi più urgenti su cui riflettere. Senza accorgermene, mi imbattei in un negozio di articoli di seconda mano. In vetrina, scintillante di vernice rossa, c’era un paio di stivali con il tacco. Davano l’impressione di essere quasi nuovi, il tacco alto non le rendeva scarpe da indossare tutti i giorni. Li contemplai affascinata: erano sexy, a punta e bellissimi. Raramente indossavo scarpe del genere, la mia era una vita da sneakers infilate al volo. Però, quegli stivali dalla tinta sfacciata mi persuasero del fatto che soltanto una persona sicura di sé avrebbe potuto indossarli con disinvoltura. Erano per una ragazza che sapeva cosa voleva e lottava per ottenerlo. Una ragazza che non si scoraggiava davanti alle avversità. Una ragazza che, in quel momento, con la sottoscritta aveva ben poco da spartire. Eppure, io volevo essere così: una ragazza da stivali rossi con il tacco alto, che camminava dritta verso l’avvenire. Entrai nel negozio, li provai e li comprai. Fu una scelta avventata e, appena tornai in strada, mi pentii di aver sciupato una parte, seppur esigua, delle mie finanze.

    Lo scudo registrò altri due impatti ravvicinati, ma io ero divorata dallo slancio verso una nuova vita e il rimorso per l’acquisto.

    Presi la via di casa con lo sguardo basso sul marciapiedi. Mi sentivo giudicata dagli altri passanti e intimidita per la scelta azzardata. Mi strinsi ancora nel giubbotto, ma un altro sguardo attirò la mia attenzione. Mi fermai di colpo. Sull’angolo della strada, in disparte dai convogli urbani e dai cittadini indaffarati, un gatto randagio era seduto sulle zampe.

    Non ne vedevo uno da anni. La coda spelacchiata lo avvolgeva in un gesto protettivo che si opponeva a tutta quella vita di cui non faceva parte. D’istinto, mi strinsi nel giubbotto e il gatto fece una mossa analoga con la coda. Il pelo chiaro era di un colore indefinibile a causa della polvere.

    Attorno al collo, aveva una porzione di cute esposta, incrostata di sangue secco. Era magro, non doveva essere stato molto fortunato nel rimediarsi un pasto decente. Il gatto mi guardò, e i suoi occhi mi rimandarono alle fotografie del Mondo Antico. Erano a metà tra il verde e l’azzurro e io fantasticai di mari tropicali dai flutti limpidi, che non avrei mai visto di persona. C’era rassegnazione in quegli occhi, incertezza e qualcos’altro che si sposava perfettamente con il mio umore.

    Non avevo mai avuto un gatto, né un altro animale domestico; non sapevo nemmeno se avvicinarmi o proseguire per la mia strada. Fu allora che il comportamento del gatto cambiò: si incuriosì a me, anche se non si spostò di un millimetro. Mi parve persino che chiamasse Myra, il mio nome, con un linguaggio fatto di suggestioni. Non saprei come spiegarlo, ma sentii che dietro a quel mutamento impercettibile c’era un mondo intero. Era un randagio che nessuno voleva, proprio come me. Mi chinai sulle ginocchia e avvicinai con cautela la mano. Pensai che avessimo entrambi bisogno di una nuova vita.

    Il gatto si sporse verso la mia mano, l’annusò e strofinò il muso sulle dita. Provai una sensazione che le parole avrebbero soltanto potuto sminuire. Fu come trovarsi dinnanzi alla prima alba del Creato, quando tutto era ancora possibile e aveva in sé un’intrinseca meraviglia.

    Dopodiché, l’allarme cittadino spezzò l’incanto e si scatenò il caos.

    2.

    I PERDUTI

    La sirena dell’allarme cittadino ululava dagli altoparlanti. Trasalii e caddi sulle ginocchia. Ero terrorizzata. Il frastuono mi penetrava nelle ossa e mi portò indietro negli anni, a quando ero solo una bambina. Di colpo, i negozi e i locali del quartiere gitano calarono le serrande anti-sfondamento, che emanavano un tenue bagliore di energia. Erano a prova di Perduto.

    Le strade si svuotarono in un fuggi fuggi generale organizzato, che ricalcava le numerose esercitazioni civili. Sapevo come comportarmi, ma quella non era un’esercitazione: i Perduti avevano aperto una falla nello scudo. Il panico mi obnubilò la mente e dimenticai tutto, eccetto i terribili ricordi che affioravano al suono dell’allarme. Ero di nuovo a New Arcadia, nel campo di grano che coltivavano i miei genitori. Di loro conservavo soltanto pochi frammenti, come un sorriso o una carezza. Erano sufficienti a evocare la sensazione di infanzia felice. In quel momento, con l’allarme che muggiva tutto attorno, rividi i corpi dei miei genitori che bruciavano nel fuoco spirato da un Fiammante.

    Stavo perdendo tempo prezioso in ricordi orribili, ma un dolore pungente al mignolo della mano mi riportò alla realtà. Il gatto mi aveva morsa, non era scappato. Mi era rimasto accanto, allo scoperto, e mi fissava inquieto. Miagolava, e la sua voce si perdeva nel frastuono.

    Mi rimisi in piedi barcollando e scrutai lo scudo sopra di noi. In prossimità della struttura, ancora abbozzata, di quella che sarebbe diventata la nuova torre polifunzionale, c’era una fessura che emanava scintille. Un manipolo di Libranti piombò dal cielo. Non erano soli: attaccavano in coppia con altri Perduti, ma la planata fu così veloce che non riuscii a identificare a quale razza appartenessero. Non aveva importanza, dovevamo trovare subito un riparo e sperare di salvarci.

    Il gatto attirò la mia attenzione sollevandosi sulle zampe. Poi, corse via, verso il piccolo parco che avevo appena attraversato. C’era un’area ricreativa per bambini, con scivoli e altri giocattoli simili. Il gatto corse verso un castelletto di plastica colorata, e io gli andai dietro. Ci riparammo all’interno. Avevamo entrambi il fiatone e i nostri cuori martellavano tanto da confondersi con la sirena. Fuori, le urla e gli stridii dei Perduti sovrastavano il trambusto.

    Ci fu rumore metallico che assomigliava tanto a un lamento, seguito da uno schianto assordante. Il suolo tremò. I Perduti stavano attaccando la struttura della torre e una nuvola di polvere arrivò fino a noi. Gridai e mi premetti le mani sulle orecchie, come se potessi zittire quell’inferno. Non mi ero resa conto di piangere, finché non mi accorsi di avere le guance bagnate. Mi rannicchiai in un angolo e pregai il dio del Mondo Antico che finisse. Non mi ero mai sentita tanto sola e indifesa. Controllai che il gatto fosse con me e mi stupii di trovarlo affacciato alla finestrella. Stava appoggiato al davanzale con le zampe anteriori e studiava la scena. Aveva le orecchie tese in avanti e dimenava la coda da una parte all’altra. Avanzai carponi fino a lui. Oltre il profilo del parco, si stagliava la sagoma della torre. Intravidi un Ghermitore appostato in cima a un pilastro. Con le quattro braccia nerborute, faceva scempio delle impalcature e infliggeva danni incalcolabili all’intera struttura. Le urla animalesche annichilivano a tratti la sirena cittadina e mi ferivano i timpani. Tossii, l’aria era irrespirabile, ma il gatto era sempre intento a studiare gli eventi dalla finestrella. Mi diede il coraggio di fare altrettanto.

    La ferocia del Ghermitore si abbatté con una brutalità disumana sui cavi metallici che assicuravano la struttura. Li torse uno ad uno, allentandoli. Romperli o divellerli era una sfida troppo ardua per un solo Ghermitore, a dispetto della sua forza, ma la creatura non demordeva. All’improvviso, una cortina di fuoco esalò fino al Perduto. Il puzzo di bruciato e di zolfo era così acre che mi lacrimarono gli occhi. I brutti ricordi mi avvinsero stretta. Le fiamme divamparono con un calore tremendo, ma si estinsero velocemente. Il Ghermitore era indenne, la scorza coriacea che aveva come pelle era appena bruciacchiata. Al contrario, la struttura aveva subito un brutto colpo. Attorno a lui, i Libranti facevano da spola tra i mostri e li spostavano da un capo all’altro della torre. Benché li avessimo sempre ritenuti bestie più brutali che intelligenti, era chiaro che avessero congegnato un piano.

    Prima che il Ghermitore riuscisse ad abbattere il pilastro, un rombo profondo saturò l’aria. Sentii la speranza accendersi nel mio animo, e anche i Perduti ebbero un attimo di esitazione. Tre elianti volavano in formazione verso la torre. Portavano il simbolo della luna piena con uno spicchio argentato. Le squadre di fanteria corazzata d’assalto si calarono dai portelloni. Le armature blu notte rilucevano contro il cielo opaco della Città Scudo.

    Avevano le frustiche arrotolate in vita ed erano armati. Non li vidi atterrare ma, quando tagliarono le cime, gli elianti puntarono subito versi i Libranti. I Perduti alati se ne accorsero e il loro atteggiamento cambiò. Alcuni calarono sul loro compagno, lo presero e volarono via attraverso la breccia nello scudo. Gli elianti attaccarono i Libranti ancora in città e li bersagliarono con le reti. I primi lanci andarono a segno: le creature imprigionate mugghiarono di furore. Si levò un’altra ondata di fuoco e la torre oscillò come un giunco. Le reti si strinsero attorno alle prede e brillarono di energia. I Perduti strillarono più forte, mentre gli elianti caricavano ancora. Un’altra nuvola di fuoco esplose oltre il profilo del parco, ma non durò a lungo. Le reti avevano imprigionato il Fiammante e il suo destino era segnato. Al puzzo di bruciato e di zolfo si aggiunse l’afrore di putrefazione che esalavano i cadaveri dilaniati dei Perduti.

    Gli elianti diedero la caccia agli ultimi mostri, ma non li inseguirono oltre la falla. Rimasero di guardia, mentre la sirena dell’allarme si zittiva di colpo. Il frastuono era stato così improvviso e assordante che mi rimase nelle orecchie un fastidioso ronzio. Il pericolo era passato. Io e il gatto eravamo tutti interi, anche se non mi sembrava ancora vero. La polvere aleggiava nell’aria in una nebbiolina spettrale e si attaccava a ogni cosa. L’assalto aveva lasciato un residuo olfattivo di saldatura e marciume, che ben si accordava al silenzio immobile che aveva inghiottito la città. C’era un’atmosfera irreale e stentavo a capacitarmi della violenza a cui avevo appena assistito.

    Attesi qualche istante per riprendere fiato. Mi spazzolai i vestiti sporchi e cercai di ripulire anche il gatto. La polvere lo aveva schiarito e non osavo immaginare in che stato fossi io. A confronto di quello che avevamo passato, i miei problemi mi sembrarono subito meno pressanti. Avevo ancora una vita a cui tornare. Mi sporsi dalla finestrella. La sagoma pericolante della torre sbucava dalle volute di fumo e pulviscolo. Tuttavia, poteva essere riparata, come lo scudo e i danni subiti da New Seelia. Avevo provato così tanta paura che adesso, per contrasto, mi sentivo ottimista, anche riguardo a me stessa.

    Tossii e mi strofinai il viso. Uscii dal castelletto di plastica e mi diressi verso il punto in cui avevo trovato il gatto. Nel trambusto dell’attacco, avevo lasciato cadere il sacchetto con gli stivali e ci tenevo a ritrovarli. Mi incamminai con il gatto che trotterellava al mio fianco, nella pallida foschia che mi faceva lacrimare gli occhi. La calma irreale permaneva, così lontana dal fervore cittadino e dal caos appena scongiurato. Udivo ancora, più distante, il rombo dei motori degli elianti, alti sopra la città. Mi aspettavo di sentire le serrande che si rialzavano, ma un suono molto diverso le precedette. Il gatto soffiò forte, come avrebbe fatto una tigre del Mondo Antico. Miagolò minaccioso, feroce a dispetto della sua piccola taglia, e soffiò ancora. Mi bloccai. Una goccia di sudore mi scivolò lungo il collo. In risposta al gatto, si levò un ruglio gutturale. Vibrò in una cassa toracica che secoli prima era stata umana; ora, era il frutto delle mutazioni causate dalle radiazioni dell’Olocausto. La foschia si diradò un poco, muovendosi in sbuffi sinistri che si depositavano al suolo. Mi voltai con cautela. Le gambe erano diventate molli e la gola secca come il deserto fuori dallo scudo. Il ruglio divenne più forte, divenne tutto ciò che potevo udire.

    Un Ghermitore emerse dalla nebbia. Era alto come tre uomini e il suo corpo longilineo era un fascio di muscoli

    lunghi e possenti. Le quattro braccia erano aperte, con alcune mani chiuse a pugno e altre distese verso di me. Il volto aveva ancora fattezze umane, ma gli occhi erano di un nero impenetrabile. Era una conseguenza del devastante irraggiamento solare che i Perduti avevano subito. I denti, spezzati e irregolari, spuntavano dalle labbra spaccate. Il Ghermitore indossava uno strano paramento, fatto di pezzi di metallo e altri detriti irriconoscibili. Non aveva bisogno di una corazza, la sua pelle coriacea aveva una resistenza forgiata dalla dura sopravvivenza nel mondo fuori dagli scudi. Gli copriva le parti intime e quelle vitali del ventre e della gola, ed era realizzato secondo un criterio. Attorno alle orecchie, alla testa e inseriti sottopelle, il Ghermitore portava alcuni rozzi monili. Avevano un aspetto macabro, come di ossa intagliate o resti di altre creature morte. Il torace era solcato da innumerevoli cicatrici, alcune ancora sanguinanti, di frustiche e di reti. Era scampato al contrattacco della fanteria.

    Il mostro si sporse su di me. Lo vidi muoversi adagio ma, un istante dopo, mi aveva quasi afferrata con le sue quattro mani. Non riuscii nemmeno a gridare. In parte, non ne ebbi il tempo. Il gatto balzò in mia difesa come una furia. Attaccò il Ghermitore agli occhi, che ferì con precisione chirurgica, usando gli artigli in vece di bisturi. Era così sproporzionato rispetto alla mole del mostro che non pensai sarebbe riuscito a sortire il minimo effetto. Mi sbagliavo. Non so come, il gatto gli arpionò gli occhi e lo colse di sorpresa. Il Ghermitore grugnì di dolore e di collera, distraendosi da me. Tuttavia, gli bastò un solo gesto con una delle mani per scrollarsi di dosso il mio coraggioso salvatore. Lo scaraventò contro il castelletto di plastica e io udii uno schiocco rivoltante. Allora urlai, urlai con tutto il fiato che avevo nei polmoni, urlai per l’orrore e per la paura, ma anche per l’insopportabile senso di perdita che quel rumore disgustoso comportava. Ero sconvolta. Mi gettai di lato, lontano dalla traiettoria delle dita nodose. Rotolai sul fianco e schivai la presa che mi avrebbe dilaniata, come aveva fatto con il gatto. Mi sentii sveglia come se fosse la prima volta in vita mia che mi destavo dal sonno. Avrei lottato fino allo stremo.

    Il Ghermitore ruggì rabbioso, un grido di frustrazione levato al cielo mentre tutti i muscoli si tendevano allo spasimo. Gli scoccai una rapida occhiata, poi mi alzai e corsi. Non sentivo la terra sotto i piedi, né la fatica, ma non sapevo dove stavo andando. Correvo e basta, con un velo di lacrime che scivolava sul viso. Non mi voltai indietro, ma sapevo che mi stava inseguendo. Il suolo tremava e rimbombava per le sue pesanti falcate. Era uno scontro impari, non ci avrebbe messo molto a raggiungermi. Scacciai il panico: un gatto randagio aveva avuto abbastanza fegato da sfidarlo apertamente, a costo della vita; io gli avrei dimostrato che non ero da meno. Corsi a perdifiato lungo il parco, zigzagando nella vana speranza di rendermi una preda difficile. Mi illusi anche di esserci riuscita, finché il Ghermitore si slanciò in aria. Ancora, non lo vidi, ma lo avvertii sopra di me in un’ombra funesta. Mi passò sopra, fulmineo, e piroettò mentre mi superava. Atterrò davanti a me, flettendo i lunghi muscoli delle cosce. L’istinto di sopravvivenza, che non avevo creduto di possedere fino a quel momento, tentò di mettermi in guardia. Però, accadde tutto così velocemente che non feci in tempo a cambiare direzione, o a frenare, o a fare qualsiasi altra cosa. Gli finii quasi tra le braccia. Solo all’ultimo, riuscii a tirarmi indietro, ma persi l’equilibrio e ruzzolai a terra in malo modo. Annaspai, ero senza fiato.

    Strisciai sui gomiti, nel disperato tentativo di sottrarmi alla cattura. Il Ghermitore mi era ormai addosso. Sentivo la sua presenza e il calore infernale del suo corpo mutato. Con la coda dell’occhio, scorsi i terribili arti che si protendevano per acchiapparmi.

    Invece, il Ghermitore si fermò. Sentii un familiare ronzio elettrico, che mi parve il coro degli angeli delle perdute religioni. Mi voltai, sempre continuando ad allontanarmi dal mostro. Un filo di energia sfolgorante si avvinghiò al suo collo. Non se lo aspettava: le mani inferiori erano ancora intente a prendermi, le superiori cercavano un appiglio per disfarsi della frustica. La pelle, per quanto coriacea, sfrigolava a contatto con l’energia ed esalava un fumo raccapricciante. Un’altra frustica si arrotolò alla sua coscia. Si trattava di linee sottili, rispetto al corpo possente del Perduto, ma l’effetto era devastante. I muscoli persero subito vigore, e la creatura si accasciò su un ginocchio. Dopodiché, anche le braccia furono imprigionate in altrettante corde sfavillanti. L’odore della carne bruciata mi diede il voltastomaco. Le frustiche strinsero e il Ghermitore tentò di divincolarsi, ma le armi erano state concepite proprio per uccidere i Perduti. Un manipolo di truppe cittadine lo attorniò. Nella foschia pallida, il blu delle loro armature era una chiazza di colore e di vita. Infine, i soldati tirarono tutti insieme. Le frustiche erano ormai talmente tante e i solchi lasciati sul corpo del Ghermitore talmente profondi, che la fanteria lo dilaniò senza difficoltà. Il mostro crollò in pezzi sotto il suo stesso peso. In pochi istanti, era diventato una massa fumante di arti contorti e visceri puzzolenti.

    Mi lasciai cadere a terra. Ero esausta. Avrei ricordato quel terribile lunedì per il resto dei miei giorni, ma ero ancora viva.

    «Signorina, si sente bene?»

    Un ufficiale di fanteria era comparso al mio fianco. Con l’armatura blu, forgiata nel Quartiere delle Armi, era una visione paradisiaca.

    «Si faccia coraggio, ora è tutto finito» aggiunse, con un sorriso smagliante.

    Accettai di buon grado il suo aiuto per rialzarmi, mentre lui fissava corrucciato le mie mani. Dopodiché, il mio unico pensiero fu il gatto. L’ufficiale mi offrì un passaggio in eliante fino al centro medico del Quartiere Azzurro, dove mi avrebbero visitata e curato le contusioni, ma io rifiutai. Dovevo trovare il gatto, il randagio male in arnese che si era battuto per me. Temevo che il Ghermitore lo avesse ridotto in poltiglia ma, proprio quando disperavo di ritrovarlo, lo scorsi vicino al castelletto. Era seduto sulle zampe con compostezza felina, illeso. Mi osservò senza muoversi finché lo raggiunsi e solo allora mi accorsi che non potevo distogliere lo sguardo dal suo. Aveva un’espressione indecifrabile, più umana che felina, e io provai uno strano rimescolio. Rifiutai ancora l’offerta del bell’ufficiale; anzi, non lo ascoltai nemmeno. Presi il gatto con delicatezza e lo infilai nel giubbotto di jeans. Eravamo entrambi talmente sudici che non mi preoccupai del fatto che la bestiola aveva vissuto in strada fino a quel momento.

    Tornai sui miei passi, con il gatto che sporgeva la testolina dal giubbotto e faceva le fusa. Avevo letto un’infinità di libri in cui si parlava di gatti e delle loro fusa, ma non avevo mai capito

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