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E-book383 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Evan e Pandora hanno scoperto la verità più oscura. Mentre tutto crolla e il Giorno del Giudizio si avvicina, Pandora sarà costretta a tornare nell’ultimo posto in cui vorrebbe: villa Black nel 1889. La Casa del Pianista. La Casa Oscura. Il luogo antico e maledetto dove tutto è iniziato.  Si troverà intrappolata tra i segreti del passato di Alice, la sua vita precedente, prigioniera in quella casa insieme ad altre ragazze scelte per compiere un sacrificio. Tra favole di mostri, cacciatori di Alici, anime intrappolate tra ombre, melodie e passioni tanto sfrenate quanto terribili. Passioni che uccidono.

L’ultimo libro de “La saga oscura”. La conclusione di tutto. La battaglia tra la luce e le tenebre. La storia di un amore immortale tra due mostri alla fine del mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita7 dic 2022
ISBN9791281032101
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    Anteprima del libro

    Caduti - Jonathan Fiorentino

    Table of Contents

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    Epilogo - Prima parte
    Epilogo - Seconda parte

    J. Fiorentino

    Caduti

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    Dello stesso autore

    J. FIORENTINO

    LA SAGA OSCURA

    Falene

    Ombre

    Scatola

    Gioco

    Luce

    Caduti

    LA FAVOLA OSCURA

    Abisso

    Morte

    SITAEL

    La seconda vita

    L’ombra del principe

    La custode delle chiavi

    Fragment

    Tutti i titoli sono disponibili

    nella Collana editoriale Elpìs

    © Spazio Cultura Edizioni

    Caduti

    Non dirò addio
    Il mare potrebbe sorgere
    Il cielo potrebbe cadere
    Il mio amore non morirà mai
    CLAIRE WYNDHAM, My Love Will Never Die

    L’oscurità premeva contro le foglie del bosco.

    La luna piena era alta in cielo, fredda e metallica.

    La bambina aveva il respiro calmo e i grandi occhi spalancati nel buio dentro l’Albero d’Oro.

    «Tu sei Alice?» chiese a bassa voce.

    Di certo non si aspettava che nel tronco di quell’albero ci fosse tanto spazio. Abbastanza per ospitare se stessa e me, seduta di fronte a lei: il mio vestito era nero, i capelli mossi, gli zigomi alti e rotondi spruzzati di lentiggini come i suoi.

    «No» risposi, composta, la schiena dritta, le gambe incrociate. «Ma forse tu lo sei.»

    La bambina si sedette di fronte a me, nella stessa posizione, dentro l’albero pieno di terra, muschio e foglie marce.

    «Dato che hai trovato l’albero, posso darti la chiave.» Sfilai piano l’oggetto al mio collo: un pendente circolare appeso a una catenina, simile a un sasso, ma di metallo.

    «Questo specchio ci mostra una persona. La persona più importante di tutta la nostra vita» dissi, mettendo al suo collo il pendente.

    Il sottobosco fuori dall’albero era buio, ma c’era sempre qualcosa in movimento, qualcosa di impercettibile, qualcosa che rendeva quegli anfratti molto più di un semplice bosco.

    Era un luogo vivo e sussurrante.

    «Solo quella persona potrà portarti via da qui» spiegai.

    La bambina chiuse gli occhi per un attimo ma, quando li riaprì, il suo respiro non era più calmo come prima. Ora che aveva il ciondolo al collo, lo prese e lo portò davanti al viso.

    Finalmente avrebbe visto.

    «Non ti sarà mai chiaro chi è. Solo quando sarà il momento lo saprai» dissi.

    La bambina fece scattare il ciondolo, aprendolo, e osservò il piccolo specchio all’interno per qualche secondo. Poi, sulla sua superficie comparve qualcosa, un riflesso confuso.

    «Però, se sei davvero Alice…» continuai.

    La macchiolina nello specchio divenne un volto. Ma il volto era opaco e sbiadito, se ne intuivano a malapena i colori.

    «…scappa dal cacciatore.»

    In quel momento tutto finì.

    Con uno sparo.

    La finestra si spalancò da sola, svegliandomi.

    Mi misi a sedere sul letto nella stanza buia, cercando di calmarmi. Fuori infuriava una tempesta. Vento e pioggia bagnarono i miei libri allineati in ordine sul davanzale.

    «Evan?» chiesi alle tenebre.

    Nessuna risposta. Nessun rumore. Nessuno.

    Mi alzai e andai a richiudere l’imposta, cercando di non pensare che proprio durante una notte di tempesta come quella era iniziato tutto, quando Evan aveva superato il portale, uscendo dalla scatola, arrivando nel nostro mondo circa centocinquanta anni prima.

    E anch’io.

    I piedi nudi mi si gelarono subito e corsi a letto, appallottolandomi nel pigiama di pile decorato con delle tazze di caffè, sotto due piumoni.

    Mi ritrovai a fissare la scatola di legno con le incisioni delle falene lungo il bordo, sulla mia scrivania. Era stato proprio in quella stanza, poche ore prima, che Dexter aveva detto:

    «L’appellativo Portatore di Luce vi fu dato quando eravate ancora l’angelo più luminoso e potente del paradiso.»

    Quelle parole mi avevano annientato in modo definitivo, perché erano la conferma di ciò che il frutto d’argento mi aveva fatto conoscere. Ero arretrata verso un angolo della mia stanza, in modo istintivo, massacrandomi i capelli. Senza guardare nessuno, avevo cercato un modo, qualunque modo, per accettare quella verità.

    Io ed Evan eravamo Lucifero.

    «Ha molti altri nomi» aveva continuato. «Satana, che significa avversario, Principe delle Tenebre, Principe di questo Mondo, Arcangelo del Male, Stella del Mattino, Nemico, Tentatore, Ingannatore…»

    «Abbiamo capito» lo aveva interrotto Evan. «Tu eri lì» aveva aggiunto, sempre molto piano, rivolto a Dexter. Mi chiesi come facesse: come poteva essere talmente bello e calmo in quel momento, simile a un re dominatore seduto sul proprio trono, con la corona posta sui capelli altrettanto d’oro. «Uno dei tuoi nomi era…» Aveva stretto gli occhi mentre si sforzava di ricordare. «Astaroth.»

    «Detto anche il braccio destro di Lucifero.» Dexter aveva sfoggiato un sorriso compiaciuto da Stregatto di Lewis Carroll. Lo avevo sempre paragonato a quel felino pericoloso, senza avere idea che in realtà fosse ancora più pericoloso. «Scommetto che ora volete sentire la storia della mia vita.»

    Stava scherzando, probabile, eppure avevo paura. Non potevo negarlo, e non perché mi trovassi in presenza di due angeli caduti: era stato scoprire che anch’io ero come loro. Sentivo solo il bisogno di scappare, di correre dalle persone che amavo, dalla mia famiglia, e avvertire tutti di starmi lontani, di stare al sicuro. Ma sapevo di non poter dire a nessuno quello che avevamo scoperto.

    Avrebbero pensato che ero impazzita, che avevo oscure manie di grandezza, che avevo perso il distacco tra fantasia e realtà. Io stessa un po’ lo pensavo ma, che mi piacesse o no, sentivo nel profondo di aver trovato davvero la risposta a tutte le domande che mi facevo da quando avevo cominciato a vedere le ombre, a capire che ero diversa dagli altri.

    Finalmente sapevo chi ero.

    Anche se la risposta non mi piaceva, anche se era terribile, la mia parte razionale sentiva che avrei dovuto essere felice di averla trovata.

    …Sempre che fosse rimasto qualcosa di razionale nella mia vita.

    «E invece Jack…» aveva ripreso Evan.

    «È l’angelo che si è imposto di redimere Lucifero.»

    Ero stata io a parlare, in un sussurro, dal mio angolo.

    Le braccia strette molto forte intorno al busto.

    «L’Arcangelo Mikael, il generale delle legioni angeliche.»

    Non ero mai stata religiosa.

    Sapevo poco e niente riguardo agli angeli, prima di mangiare quel frutto. Ma ora era troppo tardi per restituire il sapere. «Un tempo lui e Lucifero erano molto uniti…» E questo spiegava perché io ed Alice – la mia precedente incarnazione – ci eravamo innamorate di lui subito e ciecamente. «Ma poi è stato Jack… cioè, Mikael… a tagliare in due Lucifero e a farlo cadere. Ci ha rinchiusi in quella scatola, in un limbo nel Mondo delle Ombre.»

    Mondo delle Ombre… detto anche l’Abisso, l’Oscurità, il Sottomondo.

    L’inferno.

    «Quindi le ombre… Loro… sono demoni» avevo aggiunto. «Gli angeli che lasciarono il paradiso seguendo Lucifero.»

    «Ecco perché mi perseguitavano.» Evan non stava parlando con nessuno in particolare. «Mi stavano cercando perché sono il loro re. Loro sono il mio esercito.»

    Era ancora seduto sul bordo del mio letto, le punte delle dita unite in modo così calmo, lo sguardo basso come se stesse raccogliendo i ricordi da un baratro profondo ai suoi piedi, ma a differenza di me sembrava impassibile a quelle scoperte. Parlava a bassa voce, in modo deciso, e mi ero accorta che nella sua sconfinata megalomania aveva usato il singolare.

    «Non tutte le ombre sono ciò che gli umani chiamano demoni» ci aveva corretto Dexter, rotolando sul pavimento, le braccia lungo i fianchi e il maglione con Babbo Natale che si andava riempiendo di ciuffi di polvere, come se fosse la cosa più normale da fare in quel momento. «Alcune sono ciò che chiamano angeli e sono guidate dal loro generale: Jack.»

    Dopotutto, gli angeli e gli angeli caduti erano la stessa cosa, alla base, perciò non mi stupiva che si mostrassero agli umani con la stessa forma.

    «Oh… mio… Dio» mi ero ritrovata a scandire per l’ennesima volta. «E ora che cosa dovremmo fare?»

    «Potresti sposare un satanista» aveva proposto Dexter, rotolando. «Almeno ti amerebbe per quello che sei davvero.»

    Per l’ora seguente ero riuscita a dire quasi solo Oh mio Dio e a portarmi le mani ai capelli fissando il vuoto, anche dopo che Dexter ed Evan erano usciti dalla mia stanza.

    Ora andava un po’ meglio: prima di addormentarmi avevo avuto solo cinque momenti di Oh mio Dio e quasi nessuna crisi di panico.

    La cosa che mi inquietava di più era la reazione di Evan a quella scoperta: sembrava così rilassato e tranquillo. Come se scoprire di essere il Principe delle Tenebre lo facesse sentire perfino più invincibile e megalomane di prima.

    Sembrava che non gli importasse di nient’altro, da quando lo aveva saputo. Non mi aveva guardata nemmeno una volta, come se tutto ciò che era successo tra noi nelle ultime ventiquattr’ore non fosse mai esistito.

    Non riuscivo a sopportarlo.

    Avevo detto di aver bisogno di dormire e mi avevano lasciata da sola, nella stanza buia.

    La finestra si spalancò di nuovo, di schianto, nonostante l’avessi chiusa bene. Saltai in aria e mi alzai, trovando Evan seduto sul davanzale.

    Si era cambiato, togliendosi gli abiti ottocenteschi, e una delle lunghe gambe toccava terra con la punta dello stivale. I jeans erano bucati sul ginocchio e sopra portava solo un maglione nero.

    «Evan!» esclamai il suo nome più forte di quanto volessi.

    C’era qualcosa di diverso in lui. O forse era cambiato il modo in cui lo vedevo io, ora che sapevo chi era.

    I suoi capelli avevano ogni sfumatura dell’oro, della sabbia, della luce fredda e crudele delle stelle. Mancava il suo solito sorriso tagliente e borioso, e non riuscii a sostenere lo sguardo di quegli occhi chiarissimi, tra l’azzurro e il grigio pioggia.

    «Boss.» Si stiracchiò giù dal davanzale con la flemma di un gatto, senza preoccuparsi minimamente di avermi svegliata. «Pensavo dormissi.»

    Si avvicinò a passi sicuri e dovetti combattere con tutte le mie forze l’istinto di arretrare. Era parecchio più alto di me, si notava soprattutto ora che ero a piedi nudi.

    «Cosa…?» Cosa accidenti ci fai qui, se pensavi che dormissi? stavo per chiedere, ma mi interruppe.

    «Per molto tempo sono stato convinto di non poter provare dei sentimenti, perché Mikael me lo aveva fatto credere.»

    «Vuoi dire Jack.»

    «No, voglio dire quel maledetto Arcangelo.»

    Scossi la testa. «Per me sarà sempre Jack. Non riesco a chiamarlo in un altro modo.»

    I suoi capelli dorati erano arruffati dall’umidità in modo adorabile, i vestiti pieni di goccioline impigliate, la sua pelle carica del gelo di fuori: riuscivo a sentirlo nonostante stesse in piedi davanti a me senza toccarmi.

    «Dopo la morte di Alice, in quegli anni in cui non ricordavo niente… Jack mi ha seguito come un mentore» continuò. «Voleva insegnarmi l’autocontrollo. Voleva domarmi.» Rise appena, a bassa voce, un suono che mi piacque tantissimo e allo stesso tempo mi fece provare un brivido di ghiaccio lungo la schiena. «Anche gli angeli, come Jack, possono provare dei sentimenti, in modo diverso dagli umani, eppure preferiscono vivere come se non possedessero emozioni, per non perdere mai il fottuto controllo.»

    Lo scollo del maglione lasciava intravedere parte del suo petto asciutto e agile.

    «Perché mi dici tutto questo?» mormorai, resistendo all’istinto di sfiorare i suoi muscoli, di accarezzargli il viso e far scorrere la mano fino all’orecchino di metallo che portava al lobo, passandogli le dita tra i capelli.

    Noi ci appartenevamo.

    Ecco cosa avevo sentito, durante la notte passata con lui, come se qualcosa mi stesse dicendo che Evan era l’unica persona al mondo che fosse giusta per me.

    Ora, invece, era come se il filo teso tra noi si fosse spezzato per qualche motivo.

    «Perché ho scoperto di essere libero dal peso dei sentimenti che provo per te» disse.

    «Il peso?» ripetei. Ero un’idiota. Un’idiota con in mano l’estremità di un filo che lui aveva tagliato per gioco. «È solo questo, per te, l’amore?»

    «Non era amore» disse Evan, il viso impassibile, la voce priva di tono, come un robot. «Non lo è mai stato. Forse posso provare dei sentimenti, ma quello che sentivo per te era solo il legame che ci unisce. Quello che pensavamo fosse amore è solo la misera attrazione magnetica tra due calamite. Ogni volta che ho desiderato te o la Luce che porti dentro, desideravo rientrare in possesso di una parte di me. Nient’altro.»

    Nient’altro.

    Ma certo.

    Infatti era troppo bello per essere vero.

    Sei l’unica che abbia sempre amato, l’unica che voglio più di ogni altra cosa al mondo, da sempre. Sempre. E per sempre.

    Erano le parole che aveva pronunciato nel Mondo delle Ombre. Sembrava così sincero, perché le pensava davvero in quel momento, ma ora tutto acquistava un altro senso.

    «Se sei venuto solo per dirmi questo, ora te ne puoi andare» scandii, trattenendo la rabbia e le lacrime per il momento in cui sarei stata sola. Non gli avrei dato la soddisfazione di sapere quanto mi stava ferendo.

    «Veramente» si avvicinò ancora di più, catturando tra indice e pollice un lembo del mio pigiama «sono venuto per darti un ultimo bacio. Credi… che potrei?»

    Rimasi completamente immobile, indecisa se spaccargli qualcosa in testa o se lasciare che mi desse quel bacio che anch’io volevo più di ogni altra cosa.

    Bastardo.

    Ecco cos’era, ma non poteva fare così: prima entrava dalla finestra come un vampiro, avvolto da tutto il suo fascino magnetico, mi scaricava su due piedi… poi mi guardava in modo talmente intenso che avrebbe potuto distruggermi e… le sue labbra erano così pericolosamente vicine alle mie che…

    La porta si aprì all’improvviso.

    «Allora avevo sentito bene!»

    Mi allontanai di scatto da Evan, che al contrario di me era del tutto tranquillo – quasi infastidito dall’irruzione – mentre mio padre entrava nella stanza. Ike Sparks indossava quella che i Disertori consideravano la nuova tenuta da missione: abiti di pelle e armature leggere di cuoio, tutto nero, e sopra un lungo cappotto color notte.

    Non sembrò essersi accorto di averci interrotti.

    «Papà!»

    Avrei voluto abbracciarlo, ma non lo feci per tre motivi: uno, lo conoscevo solo da qualche mese e non sapevo ancora come comportarmi; due, non sapevo nemmeno se ai seelie piacessero gli abbracci; tre… era la prima volta che vedevo uno dei miei genitori da quando avevo scoperto la verità.

    Mi sentivo sporca.

    Con che coraggio potevo continuare a comportarmi normalmente con gli altri, sapendo di essere il Male in persona?

    «Quanto tempo è passato, stavolta?» chiesi, massaggiandomi il braccio con la mano. L’ultimo viaggio che avevamo fatto nel Mondo delle Ombre ci era sembrato durare poche ore, invece nel mondo umano era passato un anno. Quindi stavolta…

    «Un anno e qualche giorno.» Ike faceva di tutto per mescolarsi agli esseri umani: dal modo di vestire agli occhi di un normale nocciola, dal viso gentile al taglio dei capelli – del mio stesso biondo scuro – e l’unica cosa che lo tradiva erano le orecchie a punta.

    «Ciao, Evan. Ciao, Pandora» ci salutò in ritardo, frettoloso ma sempre cortese. «Non c’è altro tempo da perdere. Ora che siete tornati dovete assolutamente…»

    Fu interrotto da un boato che avevo sentito solo in alcuni film, ma molto più fragoroso. Il mio petto, il pavimento e le pareti vibrarono, poi smise, ma era bastato a metterci tutti in allerta.

    «Non di nuovo!» Ike ignorò cosa stava per dirci e corse nel corridoio dell’hotel.

    «Che succede?» Lo inseguii. «Fanny?»

    Di solito mio fratello minore – un gramlin che si fingeva un bambino di dieci anni, ma in realtà ne aveva centinaia e ci era stato donato da una corte fatata – faceva un gran casino dalla sua stanza. Magari in mia assenza si era dato a ordigni più pesanti.

    Ike scosse la testa.

    «Non è Fanny. Venite.»

    Si incamminò quasi correndo. Io ed Evan ci scambiammo un’occhiata prima di ubbidire.

    Percorremmo i corridoi pieni di lunghi tappeti e carta da parati, che emanavano quel buon odore di legno che mi era mancato tanto, fino al sesto piano. Il piano proibito: lì non c’erano camere, ma solo lo studio di Ike che profumava d’incenso.

    Era come lo ricordavo, una stanza non grande, la locomotiva rosa in un angolo, la moquette marrone, le librerie piene di tomi ingialliti, i velieri in bottiglia, i modellini di mongolfiere appesi sul soffitto e decine di porte di legno e d’acciaio con tanto di manopola. Certe erano di colori squillanti come l’azzurro e il viola, alcune grandi e altre piccolissime, alcune nere, lucide e coperte di simboli arcaici, altre ancora bruciacchiate e dalla maniglia di ottone, appese su pareti e soffitto come un patchwork di portali.

    Un altro boato. Evan mi afferrò il braccio d’istinto, come se volesse impedirmi di cadere, mentre il pavimento tremava, le mongolfiere oscillavano e i giocattoli di latta crollavano a terra, poi mi lasciò subito, quasi pentito di averlo fatto.

    «Che sta succedendo?» chiesi.

    «Ci attaccano, ovviamente» rispose in fretta Ike, cercando qualcosa in un cassetto. «Guardiani. Niente di speciale, lo hanno fatto anche la scorsa settimana.»

    Evan lo guardò in modo sarcastico e pungente. «E tu ci hai portati qui per…?»

    «Una questione assai urgente. Volete un biscotto?» domandò estraendo due cookie con le gocce di cioccolato da una tasca del pastrano. «Gli zuccheri aiutano a pensare.» Si cacciò in bocca i biscotti, quando si accorse che ci limitavamo a fissarlo in silenzio.

    «Fo che foi» disse con la bocca piena «afete sco’erto chi fiete.»

    Ci misi un po’ a capire cosa farfugliava, ma quando lo feci mi sentii mancare il terreno sotto i piedi.

    «Come lo sai?» chiesi in tono quasi acuto.

    «Emify…» Ike deglutì. «Emily lo ha predetto. È tornata sana e salva, dato che probabilmente vorrete saperlo.»

    «Quindi ora lo sapete tutti?!» Mi sembrò che la stanza stesse oscillando e non per un’altra esplosione. Per un momento pensai che sarei svenuta, invece riuscii a reggermi in piedi con uno sforzo di volontà.

    «Per questo dovete partire immediatamente.» Ike si chinò su una porta alta come la mia gamba, di legno d’ebano lucido come un corvo, con una lente tonda in rilievo sopra la graziosa maniglia di metallo impreziosita da ghirigori.

    Non l’avevo minimamente notata finora, incastrata com’era tra due librerie, con porte molto più grandi e vistose incastonate appena oltre il margine superiore.

    Ike appese al chiodo sulla porta uno degli oggetti presi dal cassetto: una lavagnetta nera.

    «Partire per dove?» domandai.

    Evan invece si limitava ad osservare tutto in silenzio, aspettando di capire. O forse aveva già capito tutto, conoscendolo.

    «Per il passato» rispose Ike. «Dovete sapere qualcosa di vitale importanza per il vostro futuro.»

    Si alzò e mise qualcosa nella mano di Evan, poi nella mia: somigliava a un piccolo orologio da taschino, di metallo ossidato e senza decori, ma quando lo aprii non vidi lancette e numeri, bensì uno specchietto reso opaco dal tempo. Non riuscivo nemmeno a vedere il mio volto riflesso.

    «Sarà un viaggio lungo e difficile, durerà molto tempo, ma dovete resistere e non perdere voi stessi. Alla fine capirete.»

    «Ma questo…» Evan non stava ascoltando Ike, catturato e assorto dall’oggetto luccicante che si rigirava tra le dita: un anello dorato.

    «Ti è familiare? È l’anello della casata Sandman» spiegò mio padre, ed Evan lo guardò di scatto.

    A quelle parole anch’io guardai meglio l’anello, notando che c’era il simbolo di un uccello fiero.

    «Sapevi che era una famiglia di origini tedesche? Il loro stemma era un falco su sfondo blu.»

    «Apparteneva a mio pad… a Jonathan Sandman?» chiese piano Evan.

    «Finché non è passato a suo figlio John. Mentre quel ciondolo è stato indossato da Alice Black nel momento della sua morte. Metteteveli, avanti.»

    «Aspetta… Dove conduce quella porta?» chiesi impaziente, mentre mi facevo scivolare la catenina intorno al collo.

    «È un portale di mia creazione, in realtà.» Si inginocchiò di nuovo davanti alla porta nera e mise la mano su alcune manovelle lungo la cornice, come quelle per sintonizzare la radio. Le mosse con fare esperto, mentre dentro la lente della porta comparivano dei numeri e delle scritte. «Permette di andare praticamente ovunque… e di vedere le cose con gli occhi di chi le ha vissute.»

    Quando si spostò potei finalmente leggere cosa c’era scritto dentro la lente:

    Contea di New Heaven

    Connecticut

    1889

    «Appena lo varcherete diventerete un tutt’uno con l’anima delle persone a cui appartenevano quegli oggetti» spiegò Ike, guardandomi. «Nel tuo caso si tratta della tua vita precedente. Mentre nel tuo, Evan, di te in un passato che non ricordi. I vostri ospiti non dovrebbero accorgersi di voi, quasi mai. Ricordate: state facendo tutto questo per trovare una verità importante. Non lasciatevela sfuggire.»

    «E non puoi dircela tu?» domandò critico il ragazzo, osservando l’anello che aveva messo all’indice.

    «Esatto» concordai. «Perché non ci tengo a tornare nel passato di Alice. So cosa le è successo.»

    «No, non lo sapete. E neanch’io lo so.» Ike sorrise, mordendo un altro biscotto. «Alfrimenfi non si s’arei… Altrimenti non vi starei consigliando di compiere un viaggio da cui tornerete completamente sconvolti e cambiati.»

    Aprì la piccola porta e ci guardò mentre decidevamo cosa fare.

    Le sue parole non erano affatto rassicuranti e lo era anche meno la lastra di oscurità dentro al portale, simile a una vasca d’inchiostro.

    Guardai Evan, che stava fissando la soglia con sguardo serissimo.

    «Senza offesa, Ike, ma perché dovremmo farlo?» domandò, facendo per sfilarsi l’anello. «L’ultima cosa che voglio è tornare nel diciannovesimo secolo, l’epoca in cui…»

    Prima che potesse terminare, Ike gli mise un braccio intorno alle spalle.

    «Capisco. Non preoccuparti, Evan.»

    L’attimo dopo lo costrinse a chinarsi e lo gettò nell’oscurità del portale.

    Sgranai gli occhi verso mio padre, che afferrò anche me.

    «No, aspetta!»

    «È per il tuo bene, lo capisci?» disse gentilmente, mentre faceva forza per dirigermi verso la soglia. Evan non se lo aspettava, solo per questo – e grazie alla forza da seelie – Ike lo aveva spinto senza difficoltà, ma io mi opposi e sgusciai via con un balzo, merito dell’addestramento.

    Avrei combattuto se necessario, mentre la mia mente era piena del destino di Alice come una stanza durante un allagamento, solo che invece dell’acqua vedevo sangue ovunque: avevo sognato i suoi ricordi, vissuto alcuni frammenti della sua vita, poiché condividevamo la stessa anima. Rividi Evan da bambino, le mani e la bocca sporche di sangue, mentre ghignava, poi la stanza simile a una prigione, con un letto con le cinghie, e alla fine la corsa nel bosco buio, finché tutto era finito con uno sparo.

    «Vorrei solo che la premonizione si sbagliasse, sul destino che vi aspetta» sussurrò mio padre, guardandomi serio.

    Prima che mi accorgessi che si stava avvicinando e che non potevo muovermi. Mi aveva fatto qualcosa, forse si trattava di un potere delle fate, ma la mano con cui mi cinse le spalle era gentile.

    No!

    Nel momento in cui superai la soglia, sentii la realtà intorno a me annullarsi come se qualcuno avesse spento l’interruttore.

    Specchio

    Schegge della mia anima
    Tagliano la tua pelle
    Ed entrano dentro
    KARLIENE, Become The Beast

    Era una mattina come tante e i raggi di un sole caldo scivolavano tra i rami dell’albero, sulla collina verde.

    «Esiste una realtà che non possiamo vedere, oltre a quella in cui viviamo: è il mondo impossibile dei sogni e della fantasia. Nessuno può passare dall’una all’altra, da vivo. L’unico modo è sognare. O morire.»

    Lì vicino c’era una piccola casa, un’abitazione modesta, circondata da uno steccato bianco dentro cui crescevano cespugli di fragole e mirtilli. Tutto intorno si stendeva la campagna incontaminata.

    «Ma un giorno, un mostro si innamorò di una bambina umana e la cercò per rinchiuderla in una casa che si trovava sul confine tra le realtà, per farne la sua sposa.»

    Sotto l’albero si trovava un tavolino circolare a misura di bambino, ricoperto da una tovaglia e apparecchiato per il tè. Seduti lì intorno c’erano alcuni giocattoli: una bambola di porcellana dai bei boccoli biondi e le labbra rosa, un coniglio bianco con un nastro al collo, un soldato col fucile tutto intagliato nel legno e tre bambole di pezza, piuttosto brutte, che dovevano rappresentare le tre bambine sedute sul prato.

    «Questo perché la bambina era la principessa perduta di un altro mondo» continuò a raccontare Emma. «Il mostro non sapeva che aspetto avesse la principessa in questo mondo, perciò ordinò ai suoi servi di rapire tutte le bambine e di portarle nella casa. Perché sapeva che una di loro era la sua amata Alice…»

    «No, dai!» protestò Maryrose, che era un po’ più piccola di me, aveva una voce ancora acerba e due finissime trecce pel di carota. «Perché deve essere sempre Ali?»

    «Non interrompere, Rose» la rimproverò divertita Emma, la più alta nonché la maggiore, con lunghi capelli color mogano dai riflessi rossi che scivolavano fino alla vita. «Se il mostro l’avesse trovata, l’avrebbe tenuta prigioniera fino alla morte» continuò, dimenando il mio coniglio bianco di stoffa, che adesso era appena diventato il mostro. «Fine.»

    «Ma la scegli sempre come protagonista!» Nonostante Rose fosse un po’ acida di prima mattina, solitamente era una bambina dolce ed esuberante.

    Quel giorno la mamma ci aveva fatte vestire uguali: cambiava solo il colore dell’abito che ci arrivava alle ginocchia – verde per Emma, grigio per Rosie e rosso per me – ma avevamo lo stesso grembiule bianco che a me dava un po’ fastidio. Di solito me lo sfilavo di nascosto, ma adesso avevo paura che Rose facesse la spia.

    «E gli altri chi sono?» chiesi per smorzare il litigio, indicando i pupazzi intorno al tavolo da tè che avevamo allestito.

    Emma si alzò e li indicò uno a uno con aria orgogliosa.

    «Lei è la strega» disse della bambola di porcellana coi capelli dorati. «Vive nella casa e ha dei poteri oscuri. Questo qui è il principe crudele» rimise a posto il coniglio dal fiocco azzurro al collo. «Viene da un regno vicino, ma è rimasto solo al mondo. Mentre lui…» stavolta toccò all’uomo di legno col fucile. «Lui è il cacciatore di Alici. È stato ingaggiato dal padrone di casa: il suo compito è uccidere Alice se tenterà di scappare.»

    «Non è giusto. Voglio una storia anche su di me» pretese Rose, ritornando al blocco poggiato sulle sue gambe: era difficile vederla senza il blocco da disegno in mano.

    «La storia è così. Non l’ho inventata: l’ho sognata» spiegò Emma.

    Di noi tre era la più fantasiosa, mentre Rose aveva l’arte nelle vene. Io in confronto a loro non sembravo niente di speciale; inoltre loro due si somigliavano un po’ per quei capelli rossi e per gli occhi scuri, mentre si notava subito che io ero diversa dalle mie sorelle: per colpa dei capelli nerissimi, lunghi e vaporosi, degli occhi verdi e del colorito pallido.

    Quando mi avevano trovata nella neve della steppa, senza i vestiti, dimostravo circa nove anni e l’unica cosa che ricordavo era il mio nome.

    Alice.

    I nostri genitori

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