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Il fondatore dell'Opus Dei (I): "Signore fa' che io veda"
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Il fondatore dell'Opus Dei (I): "Signore fa' che io veda"
E-book727 pagine8 ore

Il fondatore dell'Opus Dei (I): "Signore fa' che io veda"

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Info su questo ebook

Quest'opera è la più estesa biografia di san Josemaría Escrivá (1902-1975), elaborata anche sul materiale della causa di canonizzazione, avvenuta in Piazza S. Pietro a Roma il 6 ottobre 2002. Un particolare interesse rivestono le numerose citazioni dagli "Appunti intimi", una sorta di diario interiore che Josemaría Escrivá tenne a partire dall'inizio degli anni '30 del XX secolo. Questo primo volume prende in esame la vita di Escrivá dal 1902 al 1936.
LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2023
ISBN9788432163142
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    Anteprima del libro

    Il fondatore dell'Opus Dei (I) - Andrés Vázquez de Prada

    ANDRÉS VÁZQUEZ DE PRADA

    IL FONDATORE DELL’OPUS DEI

    Vita di Josemaría Escrivá

    (vol. I)

    Signore, fa’ che io veda!

    Edizione italiana a cura di

    ALDO CAPUCCI

    Traduzione di Agostino Donà

    LEONARDO INTERNATIONAL

    1999

    © 2022 by FUNDACIÓN STUDIUM

    © 2022 by EDICIONES RIALP, S. A.,

    Manuel Uribe 13-15, 28033 Madrid

    (www.rialp.com)

    No está permitida la reproducción total o parcial de este libro, ni su tratamiento informático, ni la transmisión de ninguna forma o por cualquier medio, ya sea electrónico, mecánico, por fotocopia, por registro u otros métodos, sin el permiso previo y por escrito de los titulares del copyright.

    Diríjase a CEDRO (Centro Español de Derechos Reprográficos, www.cedro.org) si necesita reproducir, fotocopiar o escanear algún fragmento de esta obra.

    Realización eBook: produccioneditorial.com

    ISBN (versión impresa): 978-84-321-6313-5

    ISBN (versión digital): 978-84-321-6314-2

    SOMMARIO

    COPERTINA

    INTERNO COPERTINA

    CREDITI

    PRINCIPALI ABBREVIAZIONI USATE NEL TESTO

    PRESENTAZIONE

    I. L’EPOCA DI BARBASTRO (1902-1915)

    II. L’EPOCA DI LOGROÑO (1915-1920)

    III. SARAGOZZA (1920-1925)

    IV. GIOVANE SACERDOTE (1925 1927)

    V. LA FONDAZIONE DELL’OPUS DEI

    VI. GLI APPUNTI INTIMI

    VII. LA GESTAZIONE DELL’OPERA

    VIII. I PRIMI CENTRI DELL’OPERA

    APPENDICE DOCUMENTALE

    AUTORE

    PRINCIPALI ABBREVIAZIONI USATE NEL TESTO

    PRESENTAZIONE

    Che cos’è una biografia? Biografia, in senso stretto, è la narrazione della vita di una persona fuori del comune; come genere scientifico, essa ricade a buon diritto nell’ambito della Storia. Però una vita non è qualcosa a sé, come un isolotto sperduto nell’oceano, ma si svolge e si sviluppa in mezzo a una comunità. Il singolo individuo è legato a un luogo, è partecipe di una certa cultura e appartiene a una patria. Inoltre, in qualsiasi epoca e Paese egli viva, gli avvenimenti contribuiscono a segnarne l’esistenza. Perciò la messa a fuoco biografica, necessariamente, non si potrà limitare a ciò che riguarda esclusivamente la persona in questione. Il ricercatore, e poi il lettore, devono tenere presenti molte altre circostanze culturali e sociali, allo scopo di puntualizzare i fatti e collocare al posto giusto la verità storica.

    Metodo di ricerca. In genere, il biografo adotta un sistema di esposizione cronologica, analizzando fino in fondo la realtà storica, per proseguire poi nella descrizione del corso degli eventi che riguardano il protagonista, dalla culla alla sepoltura. È presumibile che l’autore cominci con il descrivere la famiglia e il clima domestico, l’educazione ricevuta e gli episodi della prima infanzia, che consentono di intravederne l’incipiente personalità. Ma deve anche evitare finzioni e fantasie, lavorando in stretta aderenza a un rigoroso metodo di ricerca e ai procedimenti scientifici che concernono in particolare le fonti. In tal modo, ogni biografia che possa vantarsi di obiettività scientifica rappresenta una vera sfida, perché il biografo è costretto a intraprendere il compito preliminare di reperire documenti e testimonianze per sottoporli poi al vaglio critico, se necessario. (Il ricercatore, per quanto affidabili possano essere le fonti di cui dispone, non è mai esentato dal faticoso lavoro preliminare che consiste nel selezionare le testimonianze, nel valutarne l’importanza e nell’inserirle nel quadro storico).

    Abbondanza delle fonti. Quando, tempo addietro, credendo di aver adempiuto il gravoso impegno di raccolta delle testimonianze e di altre fonti storiche, mi accingevo a tracciare le linee conduttrici del presente libro, la mia sorpresa fu grande. Il materiale indispensabile, dal quale non era possibile né giusto prescindere, era così abbondante da eccedere il più ambizioso programma biografico. Era necessario ridurlo e concentrarsi sulla figura del Fondatore, senza disperdere l’attenzione su fatti secondari. Solo grazie a questa scelta le vicende dell’Opus Dei intimamente legate alla sua missione personale possono venire esposte con completezza. Invece altri temi di per sé importanti, quali la genesi dello spirito dell’Opus Dei, l’espansione del suo messaggio nei cinque continenti, la descrizione del panorama culturale e sociale in cui si muove il Fondatore, e quant’altro ancora, vengono trattati in modo succinto, in quanto tutto questo sarà senza dubbio materia di futuri studi. Tenendo presente tutto ciò, mi sono attenuto strettamente all’intenzione biografica, in modo che la narrazione non esca dal seminato. Allo stesso tempo, come dimostrano le note, mi sono attenuto al rigore documentale e alle altre esigenze critiche che sono la base della veracità storica.

    La visione oggettiva della realtà storica. A proposito del lavoro di ricerca da me svolto, sono stato molto aiutato da una qualità presente nella persona e negli scritti del Fondatore, per la quale gli sono molto grato. Mi riferisco alla visione oggettiva del fatti. Don Josemaría possedeva in grado molto elevato la dote intellettuale di valutare in modo giusto e con retto criterio la realtà storica. Stava sempre nell’atteggiamento vigile di considerare le cose e le situazioni alla luce dei disegni divini, prescindendo da gusti, preferenze personali e interessi egoistici. Essendo egli sempre rivolto a Dio, la scia lasciata dalla sua vita è lineare, semplice e profonda. La si può riassumere dicendo che si dedicò corpo e anima a compiere i piani divini sull’Opus Dei. Il 2 ottobre 1928, dopo dieci anni di attesa nel presentimento di qualcosa che sarebbe accaduto, fu preso per mano da Dio, che lo introdusse nella Storia. Quel giovane sacerdote ricevette assieme la missione di fare l’Opus Dei e il relativo carisma. A partire da quella data, Dio e Josemaría - Josemaría condotto per mano da Dio - avrebbero vissuto insieme una lunga e meravigliosa avventura.

    Le due facce della biografia. Ecco quindi il tema fondamentale della presente biografia: seguire passo passo la gestazione dell’Opus Dei, finché l’uomo scelto per realizzare questa colossale impresa mette il punto finale al proprio compito. In questo don Josemaría impiegò tutta la sua esistenza. Il che equivale ad affermare che il carisma ricevuto operò per tutti quegli anni nella sua anima, identificando la sua persona con l’Opus Dei. Facendosi egli stesso Opus Dei. Questa è l’altra faccia della biografia.

    Logica divina e logica umana. Dio, come fa un Padre con suo figlio, insegnò a Josemaría la logica divina, a volte sconcertante e molto lontana dalla logica umana, che giudica e agisce secondo criteri terreni. Invece i giudizi di Dio poggiano amorevolmente sul senso della filiazione divina; sulla Croce, segno gioioso della vittoria di Cristo; sul potere illimitato della preghiera; sulla misteriosa fecondità delle contrarietà... La visione oggettiva della realtà storica che possedeva il Fondatore, sopra ricordata, è qualcosa di più che una mera perspicacia chiaroveggente; è il dono di penetrare l’essenza della storia, saggiamente governata dalla Provvidenza. Alle realtà religiose, ai fatti soprannaturali, egli applicò categorie proprie della logica divina, in sintonia con la propria missione, divina e universale, all’interno della Chiesa.

    La statura del Fondatore. Per apprezzare dovutamente la grandezza della sua persona, è necessario seguirlo nella sua progressiva maturazione spirituale. Questo itinerario di crescita interiore è allo stesso tempo fonte di amore e via crucis di sofferenza, per una progressiva identificazione con Cristo. Non sono necessari, quindi, elogi agiografici, perché la sua santità è evidente e si erge in modo impressionante davanti ai nostri occhi.

    Poco dopo aver ricevuto la sua missione divina, don Josemaría si paragonava a un povero uccellino che svolazza qua e là. Ma un’aquila lo afferra e «fra i suoi artigli poderosi l’uccellino sale, sale molto in alto, oltre le montagne della terra e le vette innevate, oltre le nubi bianche e azzurre e rosa, ancora più su, fino a guardare in faccia il sole ... E allora l’aquila, liberando l’uccellino, gli dice: Forza, vola!...»[1].

    Nelle pagine di questo libro intendiamo anche proiettare la visione dell’itinerario mistico di un’anima.

    Padre di una grande famiglia. In questi nostri tempi, Dio ha suscitato un uomo per il bene della Chiesa e delle anime. Dono divino per il quale dobbiamo essere riconoscenti: a Dio in primo luogo, e in parte a don Josemaría, che ha preso docilmente su di sé l’onere di assecondare i disegni divini. Egli non voltò le spalle al mondo; si interessò al suo cammino e al suo progresso. Mise audacia e ottimismo nelle proprie aspirazioni apostoliche. Proclamò che la santità non è fatta solo per alcuni privilegiati. Aprì insomma, con il suo messaggio, i cammini divini della terra. Strade di santificazione per tutti coloro che, nel bel mezzo del mondo, si identificano con Cristo, lavorando per amore di Dio e degli altri uomini.

    Alla missione del Fondatore appartiene anche il carisma della sua paternità: Padre e Pastore di una porzione del popolo di Dio. Già in vita ebbe, come gli antichi patriarchi, un’ampia discendenza spirituale. Il 17 maggio 1992, giorno in cui la Chiesa gli tributò ufficialmente l’onore degli altari, un’immensa folla di figli del suo spirito - persone di tutte le razze e di ogni condizione di vita – affollava piazza S. Pietro a Roma.

    * * *

    Sono grato del valido aiuto ricevuto da monsignor Alvaro del Portillo, allora Vescovo Prelato dell’Opus Dei; dal suo successore Monsignor Javier Echevarría, Vescovo Prelato attuale; e da coloro che si sono assunti l’onere di accertare l’esattezza di alcuni dati di questo libro.

    ANDRES VAZQUEZ DE PRADA

    [1] Appunti, n. 244.

    I. L’EPOCA DI BARBASTRO (1902-1915)

    1. L’ascendenza familiare

    Josemaría Escrivá de Balaguer nacque a Barbastro (nella regione spagnola dell’Aragona) il 9 gennaio 1902 e morì a Roma il 26 giugno 1975.

    Poche settimane prima della sua morte, mentre cercava di rileggere nella giusta luce la propria esistenza, manifestava un profondo senso della Provvidenza divina dicendo: «Il Signore mi ha fatto vedere come mi ha condotto per mano»[1]. Fra gli anni che vanno dal 1902 al 1975 ci fu per lui una data di eccezionale importanza: il 2 ottobre 1928, giorno della fondazione dell’Opus Dei. Questo fatto soprannaturale ha segnato la sua vita in modo tale che in ogni riferimento autobiografico si rispecchia l’incancellabile consapevolezza di una missione personale. Come quando descrisse la propria venuta al mondo:

    «Dio nostro Signore fece in modo che la mia vita fosse normale e comune, senza nulla di straordinario.

    Mi fece nascere in un focolare cristiano, come sono di solito quelli della mia terra, da genitori esemplari che praticavano e vivevano la propria fede»[2].

    Josemaría nacque alla fine di un giorno d’inverno, verso le dieci di sera. Per questo motivo, con senso umoristico, definiva i suoi primi momenti come passi da nottambulo, in quanto aveva cominciato a vivere con una notte intera davanti a sé. Anche se con questa espressione alludeva velatamente alla lunga notte di oscurità che, per anni, avvolse la sua missione spirituale[3].

    Il giorno successivo, 10 gennaio, fu iscritto all’Anagrafe, dove si legge, fra altri dati:

    «Che questo bimbo nacque alle ventidue di ieri nel domicilio dei suoi genitori, calle Mayor, n. 26.

    Che è figlio legittimo di Don José Escrivá, commerciante, di 33 anni, e di Donna Dolores Albás, di 23 anni, originari rispettivamente di Fonz e di Barbastro.

    Che è nipote in linea paterna di Don José Escrivá, defunto, e di Constancia Cerzán (sic), originari rispettivamente di Peralta de la Sal e di Fonz.

    E in linea materna di Don Pascual Albás, defunto, e di Donna Florencia Blanc, originari di Barbastro.

    E che il succitato bimbo deve essere iscritto con i nomi di José María, Julián, Mariano»[4].

    Alcuni giorni dopo, il 13 gennaio, festa liturgica dell’ottava dell’Epifania, nella quale si commemorava il Battesimo del Signore, il Reggente del Vicariato della cattedrale di Barbastro impose al bambino, al fonte battesimale, i nomi che già apparivano nel registro dello Stato Civile: José, nome del padre e del nonno; María, per devozione alla Santissima Vergine; Julián, quello del santo del giorno; Mariano, per riguardo al padrino di battesimo[5].

    Con il passare degli anni, Josemaría dimostrò una profonda riconoscenza al sacerdote che gli aveva amministrato questo sacramento. Il reggente si chiamava Angel Malo - nome difficile da dimenticare - e la memoria di lui sarebbe stata presente quotidianamente nel memento delle Messe che don Josemaría avrebbe celebrato per mezzo secolo[6]. Identici sentimenti di gratitudine serbò per i padrini di battesimo.

    Quanto al fonte battesimale della cattedrale di Barbastro, di bella e accurata fattura, esso è uno degli oggetti artistici descritti nel Liber de Gestis del Capitolo, all’anno 1635[7]. Ben poco gli valsero, tuttavia, antichità e bellezza. Nel 1936, quando passò anche da lì la furia iconoclasta, fu frantumato e i pezzi gettati nel fiume. A quel fonte avevano ricevuto le acque del battesimo migliaia di cristiani, tra i quali la madre di Josemaría. A quel fonte battesimale, da bambino egli vide battezzare le sue sorelline più piccole. I suoi resti erano dunque degni di rispettosa considerazione. Fu così che, quando nel 1957 il Vescovo e il Capitolo della cattedrale gli regalarono i frammenti salvati dalla distruzione, chiese che gli fossero inviati a Roma per ricomporli e dar loro onorevole sistemazione:

    «Sono appena giunti a Roma» -scriverà nel 1959 - «i resti del fonte battesimale della Cattedrale di Barbastro, che Sua Eccellenza e l’eccellentissimo Capitolo hanno voluto regalare all’Opus Dei, e non posso a meno di ringraziare il Signor Vescovo - come farò direttamente anche con il Capitolo - per questa delicatezza, che tanto mi ha commosso.

    Quelle venerabili pietre della nostra santa chiesa Cattedrale, una volta restaurate qui in Italia dai miei figli, occuperanno un posto d’onore nella Casa Generalizia.

    Grazie di nuovo, Eccellenza, per questa cortesia, che ricorderemo sempre con profonda riconoscenza»[8].

    Non fu il fonte battesimale l’unica vittima della barbarie marxista. Maggiori danni ha subito lo Stato Civile di Barbastro. In quella stessa epoca furono ridotti in cenere archivio e documenti. L’atto di nascita oggi esistente non è quindi l’originale del 1902, ma una copia autenticata del 1912[9]. Per inciso, diremo che la copia contiene alcuni lievi errori di nomi e di luoghi. Poco importava questo al padre di Josemaría, fatta eccezione per una inesattezza ortografica che toccava nella sostanza la sua parentela. José, uomo quanto mai pacifico, non era disposto a subire passivamente alterazioni del proprio cognome.

    Il fatto è che in alcuni documenti il cognome Escrivá appare alterato in Escribá[10]. Questa innocente svista ortografica non stupiva più di tanto, dato che in spagnolo non esiste differenza fonetica fra la b e la v. Il guaio era che, pronunciando il nome con una trasposizione dell’accento sulla penultima sillaba, si richiamava qualcosa di ben diverso: il niente affatto onorevole binomio evangelico degli scribi e farisei.

    Non era che una lieve burla lo scherzo dei compagni di scuola, che facevano arrossire Josemaría con la faccenda degli scribi e farisei[11] e non lasciavano in pace neppure sua sorella Carmen. Finché un giorno il padre, indignato, prese le difese del cognome, esigendo da Josemaría che non tollerasse oltre battute di quel genere. Avvertimento che rimase ben impresso nel figlio, il quale avrebbe dovuto ingaggiare una vera battaglia contro la b. In una nota sulla sua vita interiore, del maggio o giugno 1935, così scriveva, riferendosi alla voluta particolarità della propria firma:

    «Ho incominciato intorno al 1928 ad esagerare la V del mio cognome, solo perché non scrivessero Escrivá con la b». E in una nota posteriore ricordava: «È stato mio padre (che sta in Cielo) a ordinarmi che non tollerassi la b nel cognome: mi disse qualcosa sulla nostra ascendenza... Ott. 1939»[12].

    Da tali errori ortografici non andava esente il Reggente che lo battezzò in cattedrale. L’equivoco nella registrazione del suo battesimo egli non lo scoprì che nel 1960, a quanto si legge nelle lettera di risposta a una persona che gli aveva inviato la fotocopia del suo atto di battesimo:

    «Mi ha fatto piacere la fotocopia dell’atto di battesimo, ma mi ha rivelato che il buon don Angel Malo sbagliò il cognome Escrivá scrivendolo con la b. Non sarebbe possibile - se c’è spazio! - inserire una nota a margine con la rettifica?»[13].

    Simili lamentele fanno capire che la difesa del cognome è stata una campagna di lunga durata; e questo spaccato di lealtà familiare rivela, del resto, una profonda sintonia tra padre e figlio.

    Ma chi erano gli Escrivá e da dove proveniva la loro ascendenza? Originari di Narbona, i loro antenati avevano attraversato i Pirenei, già avanzato il XII secolo, per stabilirsi nella regione catalana di Balaguer, nel distretto di Lerida confinante con l’Alta Aragona. Il ramo degli Escrivá rimasto nella regione aggiunse al proprio cognome il toponimico de Balaguer, mentre un altro ramo andò a stabilirsi a Valencia, dopo che Giacomo I il Conquistatore ebbe espugnato la città, nel 1238[14]. Josemaría Escrivá, discendente dal ramo catalano, nel 1940 chiese e ottenne di avere come primo cognome la forma, Escrivá de Balaguer, per distinguerlo da quello degli altri rami familiari[15]. A Balaguer era nato, nel 1796, il suo bisnonno José María Escrivá Manonelles, che studiò medicina e si stabilì a Perarrúa, sposandosi con Victoriana Zaydín y Sarrado. Ebbero sei figli. Uno di essi fu ordinato sacerdote; il secondo, José Escrivá Zaydín, sposò nel 1857 Constancia Corzán Manzana, originaria di Fonz, unendo nomi illustri delle casate del Ribagorza con quelli dell’Alta Aragona. Pure sei furono i figli di questa coppia; il minore, José, fu il padre del nostro Josemaría[16].

    José Escrivá Zaydín, che non arrivò a conoscere suo nipote poiché morì nel 1894, ricoprì a intervalli cariche pubbliche locali e dovette fronteggiare gli eventi e gli infortuni del secolo: aspre lotte ideologiche e di partito, diverse guerre carliste e, in più occasioni, aperte persecuzioni contro la Chiesa. Se si dà credito ai racconti che ci sono giunti sul suo conto, dovette essere un uomo estremamente conservatore nelle usanze e fortemente radicato nel paese dove si era stabilito, perché a Fonz, località avita della madre, rimase tutta la famiglia. Tutti ad eccezione del figlio minore, il padre di Josemaría[17].

    Forse la crisi che colpì l’agricoltura dell’Alta Aragona intorno al 1887 lo costrinse a guadagnarsi la vita fuori da Fonz. Le persistenti siccità, le crude gelate e, per colmo di sventura, la fillossera nei vigneti, spinsero molti ad abbandonare i campi. Risulta che già prima del 1892 il giovane José si era stabilito a Barbastro, a poca distanza da Fonz[18]. Abitava in una strada chiamata via Río Ancho, in una casa di proprietà di Cirilo Latorre, dove a pianterreno si trovava il negozio di tessuti Cirilo Latorre, più noto alla gente come Casa Servando. Poco dopo la morte del padre, il giovane José si associò a Jerónimo Mur e a Juan Juncosa, creando una società denominata Sucesores de Cirilo Latorre. Successivamente, quando nel 1902 il signor Mur si ritirò, gli altri due soci costituirono la nuova società Juncosa y Escrivá[19]

    * * *

    Dolores Albás y Blanc, madre di Josemaría, apparteneva a una famiglia originaria di Aínsa, capoluogo del Sobrarbe, a metà strada fra Barbastro e le vette dei Pirenei. Nel XVIII secolo gli Albás erano assurti al rango della nobiltà contadina del luogo. Ma non si stabilirono a Barbastro fino al XIX secolo, quando nel 1830 un certo Manuel Albás Linés si sposò con Simona Navarro y Santías[20]. Da essi nacquero quattro figli. I due maggiori, Pascual e Juan, contrassero matrimonio nello stesso giorno con due sorelle, Florencia e Dolores Blanc. Le due coppie andavano perfettamente d’accordo e andarono ad abitare in due appartamenti della stessa casa (al numero 20 di Via Romero), casa che ben presto, a motivo della numerosa prole che la popolava, fu chiamata la casa dei bambini[21].

    Pascual e Florencia avevano già dodici figli (dei quali solo nove sopravvissero) quando nel 1877 Florencia diede alla luce due gemelle. Le bambine furono battezzate con i nomi di Dolores e María de la Concepción. Quest’ultima morì due giorni dopo la nascita. L’altra divenne a suo tempo la madre di Josemaría. E quando questi, già sacerdote, ebbe occasione di affermare pubblicamente quale grande beneficio spirituale rappresenti una pronta iniziazione alla vita cristiana in virtù del sacramento del battesimo, citava il caso dei suoi genitori: «che furono battezzati lo stesso giorno in cui nacquero, pur essendo nati sani»[22]. Questo viene confermato dai certificati di battesimo. In quello della madre si dice: «Ho battezzato solennemente una bimba nata alle due del pomeriggio dello stesso giorno (23 marzo 1877)»; e in quello del padre si legge: «Ho battezzato solennemente un bimbo nato alle ore dodici dello stesso giorno (15 ottobre 1867)»[23].

    Come si vede, la famiglia era numerosa e le usanze cristiane. Per cui non sorprende il fatto che, al momento di essere ricevuto in seno alla Santa Madre Chiesa, il piccolo Josemaría avesse tre zii sacerdoti: don Teodoro, fratello del padre José, don Vicente e don Carlos, fratelli della madre, Dolores. Aveva inoltre, da parte di madre, due zie religiose: Cruz e Pascuala. Tutto questo senza estendere la ricerca alla parentela più lontana[24].

    Quando il Fondatore stava a Burgos, durante la guerra civile spagnola, il 10 gennaio 1938 gli presentarono un sacerdote che era parroco a Madrid, il quale immediatamente si affrettò con gioia a informare don Josemaría che era amico di Carlitos, Alfredo e José, tre sacerdoti parenti della madre[25]. Notizia che commentò con un obiter dictum: «si vede che la famiglia di mia madre è conosciuta perfino in Siberia»[26]. È un modo di dire, un riferimento agli abbondanti parenti della madre. Don Carlos, don Alfredo e don José erano tre sacerdoti imparentati con le due coppie di fratelli che si erano sposate lo stesso giorno.

    Il 19 settembre 1898 José Escrivá - «celibe, originario di Fonz, abitante a Barbastro, commerciante» - si sposò con Dolores Albás - «nubile, originaria di Barbastro e qui abitante» -. Gli sposi avevano trenta e ventun anni di età, rispettivamente. Il matrimonio fu celebrato nella cappella del Santo Cristo dei Miracoli, in cattedrale, e officiato da don Alfredo Sevil, zio della sposa, Vicario Generale dell’Arcivescovo di Valladolid, uno di quelli «conosciuti perfino in Siberia»[27].

    Il Santo Cristo dei Miracoli era una bella scultura lignea medievale, che si trovava in una cappella addossata alle mura che cingevano la cattedrale, e che era stata costruita nel 1714 su uno dei torrioni dell’antica cerchia difensiva. Questo fondersi della cattedrale con le mura, frequente in molte altre cittàfortezza del medio evo, era un simbolo consono con la storia dei loro abitanti.

    L’epopea di Barbastro cominciò con la sollevazione degli indigeni contro i dominatori romani, alla morte di Giulio Cesare. A questo episodio fece seguito l’assalto alla cittadina da parte della legione di Sesto Pompeo. Si susseguirono poi inarrestabili e ripetute ondate di invasori: visigoti, franchi e mussulmani. Barbastro crebbe e nell’XI secolo diventò una piazzaforte importante e ben munita del regno arabo di Saragozza. Cittadella della regione la definisce uno storico arabo. Città ricca e popolosa, con buoni orti e migliori mura. Nel 1064 i cristiani assediarono la fortezza, cuneo che espandeva il potere moresco fino alle valli dei Pirenei. Il Papa Alessandro II proclamò la crociata, alla quale parteciparono truppe provenienti dall’Italia e dalla Borgogna. Ad esse si unirono, presso Barbastro, i guerrieri normanni agli ordini del duca di Aquitania, le masnade del Vescovo di Vich e truppe della Catalogna capitanate dal conte di Urgel[28]. Nel mese di agosto di quell’anno le forze cristiane irruppero nella piazzaforte, da dove furono sloggiate l’anno successivo, dopo un breve assedio, da Moctádir, re arabo di Saragozza. Dall’effimera vittoria dei cristiani trasse ispirazione la leggenda per intonare, ben lungi dalla verità storica, un’eroica canzone di gesta: Le siège de Barbastre[29].

    La città fu definitivamente riconquistata nel 1100 da Pietro I di Aragona, che le concesse uno statuto giuridico privilegiato. La moschea principale fu trasformata in cattedrale, e vi fu trasferita la vecchia sede episcopale di Roda. Nella cattedrale di Barbastro fu sancita l’unione dell’Aragona con la Catalogna mediante il matrimonio di Petronilla, figlia del re Ramiro il Monaco, con Raimondo Berengario IV di Catalogna. Barbastro ebbe il rango di città nobile e fu sede delle Cortes convocate nel 1196. La sua gloria durò poco. Le città dell’Alta Aragona divennero ombre di un glorioso passato quando i confini militari e commerciali si spostarono verso il sud. Zurita, lo storico aragonese, riferisce che, a partire dalla presa di Barbastro, i rudi montanari del nord «facevano guerra ai mori, non come prima, quando si seguivano certe regole, ma con una furia e una veemenza incredibili»[30].

    Passò il tempo. Le mura e i torrioni che prima cingevano i due vecchi castelli di Barbastro, furono abbattuti nel 1719 dal duca della Atalaya. E, come si è detto, su uno di essi fu costruita la cappella nella quale si sarebbero sposati i genitori di Josemaría. Fu riempito il fossato, favorendo l’espansione urbanistica, e furono livellati i baluardi. I cittadini vissero secoli di pace, turbati solo di quando in quando; ma confitta nel cuore di Barbastro vi fu sempre una spina di irrequietezze storiche.

    Quando il re Pietro I, dopo la presa di Barbastro, vi creò una sede episcopale, rivale della vicina Huesca, nacquero interminabili conflitti ecclesiastici. Nel 1500, gli abitanti, per riaffermare la propria indipendenza dalla diocesi di Huesca, costruirono una nuova cattedrale, insistendo con ostinazione nelle loro pretese, ottenendo infine che, su istanza e pressione del re Filippo II, il Papa Pio V erigesse, con una bolla del 1571, la sede episcopale di Barbastro. Ma quando la diocesi «si cullava tranquilla all’ombra di gloriosi ricordi e tradizioni» - lamenta uno storico del secolo scorso - in virtù del Concordato del 1851 fra la Spagna e la Santa Sede, fu unita nuovamente a quella di Huesca, e la cattedrale miseramente ridotta al rango di collegiata[31].

    Tutta la città si dolse del fatto come di un affronto, il che contribuì a creare una certa intesa fra l’autorità ecclesiastica e la popolazione di Barbastro. Grazie alla tenacia di quanti gestirono la questione, fu tenuta in sospeso l’applicazione del provvedimento concordatario. Più tardi, d’accordo con la Santa Sede, fu istituita per la diocesi, con Regio Decreto del 1896, un’Amministrazione Apostolica[32].

    * * *

    Appena sposati José e Dolores andarono a vivere in una casa della calle Mayor, di fronte al nobile edificio degli Argensola. Il loro appartamento era piuttosto grande. Alcuni balconi davano sull’angolo della piazza contigua, nel centro stesso della città, non lontano da via Ricardos, nella quale aveva il proprio negozio la ditta Successori di Cirilo Latorre.

    Per la festa della Madonna del Carmine - 16 luglio 1899 - alla giovane coppia nacque una figlia. Le misero i nomi di María del Carmen, Constancia, Florencia. I due ultimi sono quelli delle nonne. Sull’atto di battesimo della figlia i genitori vengono indicati come «abitanti e commercianti» di Barbastro[33]. Termine, quello di commerciante, che non disdice alla loro buona condizione sociale, osserva con un certo puntiglio la baronessa di Valdeolivos, perché «a quel tempo a Barbastro i commercianti costituivano l’aristocrazia della popolazione». Per quanto si riferisce agli sposi, essa aggiunge che la loro situazione economica era «buona e agiata» e che erano «molto stimati da tutti»[34].

    José, che aveva un certo spirito imprenditoriale ed era molto metodico, dopo pochi anni vissuti a Barbastro aveva una rete di relazioni commerciali estesa a tutta la regione, anche se il suo centro operativo continuò a essere in via Ricardos. Barbastro era capoluogo di circoscrizione, centro commerciale di molti paesi all’intorno, e contava più di settemila abitanti. Per la sua buona ubicazione geografica, fra Huesca e Lerida, capoluoghi di provincia, e il suo collegamento ferroviario con la linea Barcellona-Saragozza, era un centro obbligato per gli acquisti e le trattative commerciali di tutta la regione. Le sua fiere periodiche di bestiame e prodotti agricoli mantenevano attivo il commercio.

    Dopo otto anni di presenza in città, la figura di José Escrivá si era già fusa con l’ambiente sociale di Barbastro. Era conosciuto in chiesa, per strada e al circolo. Si faceva notare se non altro per il suo aspetto elegante. Fin da lontano si notava la sua eleganza nel vestire, discreta e senza esagerazioni. Portava la bombetta e aveva una piccola collezione di bastoni da passeggio. Era un uomo cortese, piacevole e mite, anche se non troppo espansivo e piuttosto parco di parole. Dimostrò sempre rettitudine verso i dipendenti, generosità verso i bisognosi e devozione verso Dio. Il suo tempo era diviso fra gli affari e la famiglia[35].

    Affari e famiglia prosperavano. All’inizio del 1902 ebbero un altro figlio. Al bambino, nato il 9 gennaio, fu posto il nome di suo padre. (Più avanti negli anni avrebbe unito i suoi due primi nomi di battesimo per formare quello di Josemaría, per la sua devozione congiunta per S. Giuseppe e la Santissima Vergine)[36].

    Con un nuovo bambino in casa, Dolores (Lola per la famiglia) vide aumentare il proprio lavoro, come pure la bambinaia. La padrona di casa, più giovane di suo marito di quasi dieci anni, era di media statura, di modi gentili e di serena bellezza. Era adorna di una naturale signorilità e si dimostrava disinvolta e semplice nella conversazione. A detta di quanti la conobbero, si distingueva per «la pazienza e il buon carattere»[37], forse ereditati dalla madre Florencia, che seppe educare quella numerosa prole della quale Lola fu il penultimo anello.

    Dopo l’ostinato tira e molla fra le sedi episcopali, ristabilita la pace per Decreto Reale nel 1898 - anno in cui si sposarono i genitori di Josemaría - si fece carico della diocesi don Juan Antonio Ruano y Martín, primo Vescovo Amministratore Apostolico di Barbastro. Il nuovo prelato si trovò di fronte a molte cose in sospeso, per cui, con energici interventi, si diede da fare per sistemare gli affari ecclesiastici. Con criterio ampio, seguendo una pratica tradizionale e legittima per le chiese spagnole fin dal Medio Evo, il 23 aprile 1902 amministrò la Cresima a tutti i bambini della città[38]. I cresimati formavano due gruppi consistenti: 130 bambini e 127 bambine. Negli atti di questa Cresima collettiva sono annotati, in ordine alfabetico, i nomi dei bambini; l’elenco occupa sei fogli. Nel gruppo dei bambini appare Josemaría, che allora aveva tre mesi, e tra le bambine sua sorella Carmen, che aveva meno di tre anni[39].

    Il bambino aveva circa due anni quando i suoi genitori ritennero che fosse giunto il momento di lasciare una testimonianza storica della sua infanzia. Ma quando cercarono di fotografarlo nudo per l’album di famiglia, proruppe in un pianto tanto sfrenato e lanciò tali urla che fu necessario desistere dall’operazione. Mamma Lola con pazienza e rassegnazione gli fece indossare un vestitino e così, con l’espressione ancora a metà fra il sorriso e il pianto, gli fu fatta la famosa foto per i posteri[40].

    Intorno alla stessa epoca, a causa di una grave malattia, fu sul punto di morire. Forse si trattò di un’infezione acuta. Familiari e conoscenti ricordavano per filo e per segno quanto accadde e il fatto che il bambino era stato dato per spacciato dai medici, che già «vedevano l’esito fatale, inevitabile e immediato»[41]. La notte prima dell’evento sorprendente, il dottor Ignacio Camps Valdovinos, medico della famiglia, si era recato a far visita al bambino. Era un medico esperto, dotato di un buon occhio clinico, ma a quel tempo non era possibile arrestare il decorso virulento dell’infezione. Data la gravità del caso era andato a casa degli Escrivá un altro medico loro amico, Santiago Gómez Lafarga, medico omeopata. E giunse il momento in cui il dottor Camps dovette dire a José: «Guarda, Pepe: non supererà la notte!».

    I genitori stavano chiedendo a Dio, con molta fede, la guarigione del figlio. Dolores cominciò, con grande fiducia, una novena alla Madonna del Sacro Cuore; ed entrambi i genitori promisero alla Vergine di condurre in pellegrinaggio il bambino, se fosse guarito, all’immagine che si venerava nella cappella di Torreciudad.

    Il giorno seguente, di prima mattina, il dottor Camps andò di nuovo a far visita alla famiglia per fare le condoglianze, poiché era certo che il bambino fosse morto. «A che ora è morto il bambino?», fu la sua prima domanda mentre entrava. E José, con gioia, gli rispose che non solo non era morto, ma che era completamente guarito. Il medico entrò in camera e vide il bambino nel lettino, attaccato alle sbarre, che saltellava pieno di vita.

    I genitori compirono la promessa. A dorso di cavalcatura e per sentieri impervi, fecero più di venti chilometri. Dolores portava il bambino in braccio. Seduta in sella alla amazzone, passò dei brutti momenti, sospesa fra dirupi ed erte scoscese che strapiombavano sul fiume Cinca. Lassù stava la chiesetta di Torreciudad, dove, ai piedi della Santissima Vergine, offrirono il bambino in ringraziamento[42].

    Anni dopo, ricordando questo episodio, Dolores ripeté più di una volta al figlio: «Figlio mio, la Vergine ti ha lasciato in questo mondo per fare qualcosa di grande, perché eri più morto che vivo»[43]. Da parte sua, Josemaría lasciò una testimonianza scritta, nel 1930, della propria convinzione di essere stato guarito dalla Vergine Santissima: «Signora e Madre mia! Tu mi hai dato la grazia della vocazione; mi hai salvato la vita, quand’ero bambino; mi hai ascoltato molte volte!...»[44].

    2. «Quei candidi giorni della mia fanciullezza»

    Dalla malattia non gli rimase alcuna conseguenza. Godeva di perfetta salute. Era «l’invidia di tutte le mamme di Barbastro», abituate a vedere il bambino, seduto sul balcone e con le gambe penzoloni tra le barre della ringhiera, che dall’alto salutava gioioso i passanti[45].

    Forte e sveglio, il piccolo possedeva una grande capacità di osservazione, grazie alla quale trattenne nella memoria fatti accaduti in tenera età. Fra quei primi ricordi vi sono le preghiere apprese dalle labbra della madre e che, con l’aiuto del papà o della mamma, recitava quando si alzava da letto o vi si coricava. Preghiere ingenue, brevi e infantili, al Bambino Gesù, alla Santa Vergine o all’Angelo Custode:[46]

    «Angelo mio Custode, dolce compagnia,

    né di notte né di giorno, non andar via.

    Se mi lasci, che cosa sarà di me?

    Angelo mio Custode, prega Dio per me».

    Alcune di esse imparate anche dalle nonne:

    «Sono tuo, sono nato per te: che cosa vuoi, Gesù, da me?»[47].

    Più avanti, il bambino avrebbe recitato il «Benedetta sia la tua purezza» e l’offerta alla Santa Vergine:

    «Signora mia e Madre mia, io mi dono interamente a voi, e in prova del mio affetto filiale vi consacro in questo giorno i miei occhi, le mie orecchie, la mia lingua, il mio cuore. In una parola, tutto il mio essere. E poiché sono tutto vostro, Madre di bontà, proteggetemi e difendetemi come cosa e possesso vostro»[48].

    Per tutta la vita fu grato ai suoi genitori per queste preghiere, che gli rimasero incise nella mente e nel cuore. Le recitò spesso e fece ricorso ad esse nei momenti di aridità spirituale[49].

    Non aveva ancora raggiunto il pieno uso di ragione quando incominciò a unirsi alla recita del rosario in famiglia, o a recarsi a Messa con i genitori, o ad assistere alla funzione a S. Bartolomeo, un oratorio accanto alla sua casa dove gli Escrivá si recavano tutti i sabati a recitare la Salve Regina[50]. I suoi ricordi erano soprattutto legati alle feste domestiche di Natale, quando insieme a Carmen aiutava il padre a montare il presepio, cantando in famiglia canti natalizi popolari. Si ricordava soprattutto di uno che diceva: Madre, alla porta c’è un Bambino. Le parole della canzone avevano un ritornello in cui il Bambino Gesù ripeteva: Sono venuto sulla terra per patire. Questa canzone lo accompagnò dalla culla alla sepoltura. «Quando avevo circa tre anni» - raccontava in famiglia - «mia madre mi cantava questa canzone, mi prendeva fra le braccia e io mi addormentavo placidamente»[51]. Nei suoi ultimi anni, quando la sentiva cantare nel periodo natalizio, si commuoveva, raccogliendosi in preghiera.

    * * *

    La signora Dolores viveva dedita interamente alla propria famiglia. Insieme al marito, concentrò i suoi sforzi nell’educazione di Carmen e Josemaría, creando un ambiente familiare al quale si aggiunsero poi i figli che più tardi il Signore inviò loro. La padrona di casa era una donna di carattere e di molto buon senso. E quando il bambino, che come tutti i bambini aveva piccoli capricci e manie, s’impuntava a non voler mangiare qualcosa, senza perdere la calma gli diceva: «Non lo vuoi mangiare? Ebbene, non mangiarlo» e non gli dava nient’altro[52].

    Un giorno gli misero davanti un piatto che non gli piaceva ed egli, prevedendo che poi sarebbe rimasto a digiuno, lo gettò arrabbiato contro la parete tappezzata. Non fu cambiata la tappezzeria. Per diversi mesi rimase lì la macchia, perché il bambino non si scordasse troppo in fretta del suo gesto di rabbia[53].

    Le fini doti pedagogiche della madre a volte erano accompagnate da detti proverbiali o da frasi con la morale. Alla tendenza alla trascuratezza, al lasciare le cose buttate là o rivoltate a rovescio, opponeva un saggio avvertimento: «Gli altri non son fatti per riordinare quello che noi lasciamo in disordine». Non abusava mai del servizio domestico e non sdegnava di servire gli altri. «Non mi si sfileranno certo gli anelli!», era solita ripetere e il suo esempio era un soave e continuo invito per i suoi figli. Li preveniva anche dai giudizi temerari: «Non c’è parola mal detta, bensì mal compresa»; questo perché non si scandalizzassero per la malizia di qualcuno[54].

    Con il passare degli anni, nelle considerazioni di Josemaría sul comportamento umano sarebbero apparsi, qua e là, alcuni detti sapienziali uditi dalla signora Dolores.

    «Da piccolo» raccontava «c’erano due cose che mi davano fastidio: dare un bacio alle amiche di mia madre, che venivano a farle visita; e mettermi vestiti nuovi.

    Quando indossavo un abito nuovo, mi nascondevo sotto il letto e mi rifiutavo di uscire in strada, cocciuto...; e mia madre, con un bastone di quelli che usava mio padre, batteva dei colpetti per terra, dolcemente, e allora uscivo: per paura del bastone, non per altro.

    Poi mia madre mi diceva con affetto: Josemaría, vergognati solo di peccare. Molti anni dopo mi sono reso conto che in quelle parole c’era una verità molto profonda»[55].

    A difesa del bambino si deve dire che esistevano parecchi buoni motivi perché gli sbaciucchiamenti di quelle buone signore a volte gli divenissero insopportabili, soprattutto quelli di una lontana parente di sua nonna, persona in età alla quale spuntavano i baffi, che pungevano la faccia del bambino quando lo baciava. La madre si rendeva certamente conto del fastidio che davano a Josemaría quando lo abbracciavano lasciandogli la faccia tutta macchiata di cipria e di belletto. Quando la avvertivano di una visita, prima di uscire in anticamera, la signora Dolores diceva al bambino, con uno sguardo d’intesa: «Questa sarà tutta stuccata e non la possiamo far ridere perché se no le cade la crosta»[56].

    I bambini non videro mai litigare i loro genitori. In casa c’era affetto, rispetto e un tratto cortese anche con le persone di servizio, che erano come parte della famiglia. Quando una delle ragazze di servizio si sposava, i coniugi Escrivá la provvedevano di un corredo da sposa, come se si trattasse di una figlia[57].

    I genitori erano molto mattinieri, nonostante si coricassero per ultimi. Al mattino il signor José usciva per recarsi al lavoro con estrema puntualità e si sapeva sempre dove stava e a che ora sarebbe ritornato. Il bambino aspettava con impazienza e vivo desiderio il ritorno del signor José. A volte gli correva incontro; alla fine della giornata andava al negozio di via Ricardos e si divertiva a contare le monete della cassa, mentre suo padre approfittava per spiegargli le nozioni elementari della somma e della sottrazione. E sulla strada del ritorno a casa, in autunno, José comperava le caldarroste e se le metteva nella tasca del cappotto. Allora Josemaría, in punta di piedi, metteva dentro la manina alla ricerca delle castagne, trovandosi la tenera stretta della mano del padre[58].

    La gente di Barbastro li vide per molti anni passeggiare insieme. Quella stretta relazione di fiducia e amicizia che esisteva tra padre e figlio era dovuta all’attenzione del signor José, che coltivava in Josemaría la generosità e la sincerità. Non lo picchiò mai. Solo una volta gli sfuggì un affettuoso scappellotto di fronte alla cocciutaggine del bambino, che si voleva sedere su una sedia alta in sala da pranzo, perché voleva essere come i grandi[59].

    Il padre lo invitava ad aprire il cuore e a raccontargli quello che lo preoccupava, allo scopo di aiutare il bambino a vincere reazioni impulsive del suo carattere incipiente o a sacrificare gusti e capricci. Il signor José lo ascoltava senza fargli fretta e soddisfaceva le domande proprie della curiosità infantile davanti alla vita. Al bambino faceva piacere vedere che il padre si dimostrava disponibile a essere interrogato e che, se gli faceva una domanda, «lo prendesse sempre sul serio»[60].

    I due coniugi insegnarono ai figli a praticare la carità nei fatti e senza ostentazione: a volte dando un conforto spirituale, a volte aggiungendo un’elemosina. Esisteva a quel tempo, in molti paesi e città di Spagna, l’abitudine di dare l’elemosina in un giorno fisso della settimana, nelle case delle famiglie agiate. A quanto riferisce un nipote della famiglia, gli Escrivá praticavano questa usanza: il signor José, dice Pascual Albás, «era molto generoso nell’elemosina; tutti i sabati si formava una gran coda di poveri che andavano a chiedere l’elemosina e per tutti c’era sempre qualcosa»[61]. Al piccolo Josemaría rimase indelebilmente impressa l’immagine di una zingara che non veniva di sabato, come gli altri poveri. La vedeva talvolta di sera entrare in casa con familiarità, su invito della madre. La zingara, quasi avvolta nel mistero, stava a parlare con la signora Dolores nella camera di questa, dove non le potevano interrompere, poiché non vi avevano accesso neppure i parenti più prossimi. Il bambino non capì mai le ragioni di queste visite singolari. Quanto alla zingara, che si chiamava Teresa, seppe solo in modo molto vago che era una donna che si sacrificava per la sua gente e che veniva a consigliarsi per qualche segreta pena[62].

    Per il bambino era un momento di gioia quando distribuiva, fra i mendicanti che chiedevano l’elemosina alla porta della cattedrale, le monete che il signor José gli dava quando la famiglia assisteva alla Messa, le domeniche e i giorni di festa[63]. Avvicinandosi alla cattedrale, imponente nella sua austera mole di pietra, Josemaría si affrettava, pieno di compassione, a soccorrere un povero storpio appoggiato all’ingresso. Poi, una volta entrati, con la luce che filtrava dagli alti finestroni, il suo sguardo saliva lungo la schiera di snelle colonnine per perdersi nell’intreccio di nervature che corrono sulle volte. Passando davanti a una delle cappelle laterali, un’immagine della Santissima Vergine giacente tratteneva la sua curiosità; quella vista affascinava dolcemente il bambino. Per la festa dell’Assunzione l’immagine veniva esposta alla venerazione dei fedeli, poiché rappresentava la Dormizione della Vergine.

    Un quarto di secolo più tardi, nel 1931, nella festa del 15 agosto, echeggeranno nel suo cuore i ricordi emozionati della fanciullezza:

    «Giorno dell’Assunzione di Maria 1931: (...).

    Sono davvero felice, perché mi sembra di essere presente... con la Trinità beatissima, con gli Angeli che ricevono la loro Regina, con tutti i Santi, che acclamano la Madre e Signora.

    E ricordo quei candidi giorni della mia fanciullezza: la cattedrale, così brutta di fuori e così bella dentro... come il cuore di quella terra, buono, cristiano e leale, celato dietro le asperità del carattere contadino.

    In mezzo a una cappella laterale si ergeva il tumulo su cui riposava l’immagine della Madonna dormiente... Il popolo passava, con rispetto, e baciava i piedi della Vergine del Letto...

    Mia mamma, mio papà, i miei fratelli e io andavamo sempre insieme a sentir Messa. Mio padre ci dava l’elemosina, che portavamo con gioia allo storpio che stava addossato al palazzo episcopale. Poi mi affrettavo a prendere l’acqua benedetta, per darla ai miei. La Santa Messa. Poi, tutte le domeniche, nella cappella del Santo Cristo dei Miracoli recitavamo un Credo. E il giorno dell’Assunzione come ho detto era d’obbligo adorare (così dicevamo) la Vergine della Cattedrale»[64].

    * * *

    Nella casa paterna - dice di sé don Josemaría - «cercavano di darmi una formazione cristiana, e lì l’ho acquisita, più che a scuola, anche se dai tre anni mi hanno fatto frequentare una scuola di religiose e dai sette anni una scuola di religiosi»[65].

    La scuola materna delle Figlie della Carità, dove stette dal 1905 al 1908, consisteva in una sola aula ad anfiteatro. Nella parte bassa si intrattenevano i più piccoli con giochi e canzoni e si insegnava loro il sillabario. Sul fondo, invece, a diverse altezze della gradinata, le suore formavano dei gruppi a parte con i bambini più grandicelli, spiegando loro il catechismo, la storia sacra, e qualche nozione di scienze naturali, chiamate anche, con nome meno pretenzioso, lezioni di cose. Josemaría si distinse nella scuola materna, non tanto per merito suo, quanto perché i suoi genitori gli avevano fatto prima a casa lezioni di catechismo e di aritmetica e gli avevano insegnato a leggere. Ma fu una suora a iniziarlo ai primi passi della scrittura[66].

    Di quegli anni di scuola materna gli rimase impresso nella memoria un doloroso evento della sua prima infanzia, attorno ai tre anni. Questa memorizzazione precoce, anche se non prodigiosa, era dovuta in gran parte all’impressione causata dall’intensità di sentimenti o da qualsiasi scontro troppo brusco con la realtà. Non si trattava di un’impressione alla cieca, ma la sensibilità del bambino, davvero straordinaria, risvegliava nella sua anima lo sforzo di capire il significato e le conseguenze dei fatti.

    Accadde un giorno che qualcuno disse alla bambinaia, che andò a prenderlo all’uscita dell’asilo per condurlo a casa, che Josemaría aveva picchiato una bambina, cosa non vera e che peraltro gli fruttò un forte rimprovero. Quell’accusa ingiusta lo colpì profondamente nell’anima. Fu in questo modo che comprese il senso della giustizia, così che da quel momento in poi gli rimase impresso che non si deve giudicare prima di aver ascoltato l’accusato[67].

    Le suore avevano tale buona opinione del bambino che, nel giugno 1908, alla fine della sua permanenza nella scuola materna, lo proposero come candidato a un concorso per Premi alla virtù. Il concorso faceva parte di un programma di iniziative con cui l’Amministratore Apostolico di Barbastro, mons. Isidro Badía y Sarradell, si proponeva di celebrare nella diocesi i 50 anni dell’ordinazione sacerdotale di Papa Pio X[68]. Fu nominata una giuria per l’aggiudicazione dei premi. Il premio al quale aspiravano le scuole materne, consistente "in trenta pesetas per ciascuno, veniva promesso al bambino di ciascuna delle scuole di istruzione primaria di questa città che sia modello agli altri per la sua applicazione e il buon comportamento".

    Il 4 ottobre 1908 ebbe luogo la manifestazione letterariomusicale e la distribuzione da parte del Vescovo dei diplomi ai concorrenti. Nel concorso sulle virtù infantili furono premiati diversi bambini: uno della scuola materna comunale, due della scuola degli Scolopi e Josemaría come allievo della scuola delle Figlie della Carità. Al termine della manifestazione fu inviato un telegramma a Roma, rinnovando al Papa, in occasione della ricorrenza, la testimonianza di amore filiale di tutta la diocesi.

    Subito giunse a Barbastro la risposta:

    "Roma, 6.

    Amministratore Apostolico.

    Il Santo Padre, grato filiale omaggio occasione suo Giubileo sacerdotale, benedice con affetto Signoria Vostra, autorità, clero e fedeli di Barbastro. Cardinale Merry del Val"[69].

    3. La prima Comunione

    In ottobre 1908 Josemaría divenne alunno degli Scolopi. La scuola di Barbastro dei Padri Scolopi fu la prima che questi religiosi aprirono in Spagna[70]. Il loro fondatore, S. Giuseppe Calasanzio, era nato nello stesso paese in cui era vissuto il nonno paterno di Josemaría, Peralta de la Sal, a 20 chilometri da Barbastro. La scuola era poco distante dalla casa degli Escrivá.

    Due giorni dopo aver ricevuto il telegramma del Cardinale Merry del Val, il Vescovo di Barbastro diede inizio a una visita pastorale alla diocesi. Fin dal mese precedente veniva ricordata, nella parrocchia dell’Assunzione, nella cattedrale, l’importanza che si confessassero gli adulti e tutti i bambini preparati a farlo, per lucrare così le indulgenze della visita pastorale. Fu durante quell’anno scolastico 1908-1909, durante il quale il bambino frequentava il giardino d’infanzia degli Scolopi, che la signora Dolores preparò personalmente il figlio alla prima confessione. Lo condusse poi dal proprio confessore, padre Enrique Labrador[71]. Il bambino aveva sei o sette anni quando sua madre lo accompagnò in chiesa.

    Allora gli uomini si confessavano sul davanti del confessionale e le donne alla grata laterale. Il buon Scolopio accolse il bambino il quale, inginocchiandosi, scomparve del tutto dietro la porticina del confessionale; la dovette aprire perché si inginocchiasse all’interno. Il penitente incominciò a sgranare i propri peccati mentre padre Labrador lo ascoltava con un sorriso. Per un momento il bambino si scoraggiò, pensando che non lo prendesse sul serio, cosa che invece faceva il signor José. Alla fine, il confessore gli fece una breve raccomandazione e gli impose la penitenza.

    Questa prima confessione gli procurò una grande pace di spirito. Ritornò a casa di corsa, per annunciare che doveva compiere la penitenza. Sua madre si offrì di aiutarlo. «No» - rispose il bambino «la penitenza la faccio da solo. Mi ha detto il padre di farmi dare un uovo fritto»[72].

    * * *

    A quel tempo aveva due sorelle minori: María Asunción, nata il 15 agosto 1905, e María de los Dolores, nata il 10 febbraio 1907. Una terza, María del Rosario, venne al mondo il 2 ottobre 1909[73].

    Con cinque figli, la madre aveva acquisito buona esperienza per governare l’infanzia. Data la sua condizione sociale, aveva un buon servizio domestico. Oltre alla cuoca e a una ragazza per le pulizie della casa, poteva contare su una bambinaia e su di un ragazzo che, di quando in quando, dava loro una mano nei lavori meno adatti alle donne. La signora Dolores era una donna sempre in movimento e la si vedeva sempre mettere in ordine la casa, poiché aveva uno spiccato senso pratico. Per quando i bambini tornavano da scuola, a volte accompagnati dai loro amici, aveva destinato una stanza per i giochi, che chiamavano la gabbia dei leoni[74]. Nel suo modo di fare usava con discrezione la flessibilità o si dimostrava inflessibile, secondo i casi. A volte i bambini strepitavano a tavola, nei giorni di festa, quando veniva servito il pollo. Pareva che tutti si fossero messi d’accordo per reclamarne una coscia. La signora Dolores, senza batter ciglio, cominciava a moltiplicare cosce di pollo: tre, quattro, sei: quante ne occorrevano. Tuttavia non tollerava capricci e neppure che i bambini andassero in cucina a mangiare fuori orario. La cucina era per i bambini una tentazione permanente. Invece la signora Dolores vi entrava solo eccezionalmente, per vedere come andavano le cose o per preparare qualche piatto fuori dal comune. E fuori dal comune erano i crespillos, che comparivano il giorno del suo onomastico o in limitate occasioni familiari[75]. Era un dolce alla portata di qualsiasi tasca e non implicava alcun segreto culinario se non quello di saperli presentare come si deve: delle foglie di spinaci passate in una pastella di farina e uova; venivano quindi fritte in padella con poco olio bollente e poi, tiepide e spolverate di zucchero, venivano servite in tavola. In casa degli Escrivá si salutava sempre con entusiasmo il giorno dei crespillos.

    Vi era anche un’altra ragione, a parte i dolci o le patate fritte, per cui il bambino vagava nei pressi della cucina: le donne di servizio gli raccontavano cose divertenti e storielle. Soprattutto Maria, la cuoca, che conosceva una storia di ladri, senza tragedie né violenze. Una, una sola; ma la raccontava in modo magistrale e il bambino non si stancava mai di sentirla ripetere[76]. Ascoltando Maria cominciarono ad affiorare le sua doti di narratore.

    Alcuni pomeriggi, quando Carmen ritornava da scuola con le sue amiche, si chiudevano a giocare nella gabbia dei leoni. La signora Dolores, accondiscendente con le loro preferenze, le intratteneva o dava loro vecchi capi di vestiario per giocare. Spesso ci fermavamo a far merenda - riferisce Esperanza Corrales - e ricordo che ci davano pane con cioccolato e arance[77].

    Se Josemaría non era uscito con i suoi amici, le raggiungeva per farle divertire. Gli piaceva farci giocare - racconta la baronessa di Valdeolivos -. Molte volte andavamo a casa sua e ci tirava fuori i suoi giochi: aveva molti rompicapi[78]. Aveva anche soldatini di piombo, birilli e un grande cavallo di cartapesta con le ruote che faceva montare a turno dalle bambine e le portava a spasso per la stanza tirando il cavallo per la cavezza. E se le bambine litigavano, il proprietario della cavalcatura metteva pace con delle buone tirate di trecce.

    Ma ciò che più gli piaceva quando stava con noi - ricorda Adriana, sorella di Esperanza - era sedersi su una sedia a dondolo del soggiorno e raccontarci delle storie - normalmente storie paurose, per spaventarci - che inventava lui stesso. Aveva una viva immaginazione e noi - comprese Chon e Lolita, le sue sorelle, che avevano tre e cinque anni meno di Josemaría - lo ascoltavamo attentamente e un po’ impaurite[79].

    * * *

    Dal 1908 al 1912, anno in cui iniziò gli studi liceali, Josemaría frequentò la scuola elementare. Secondo la normativa allora vigente, la giornata scolastica era di sei ore di lezione, tre al mattino e tre al pomeriggio. Per il figlio degli Escrivá l’orario si prolungava: al pomeriggio faceva i compiti con la supervisione di un insegnante, perché ne potesse trarre maggior profitto. Un corso dopo l’altro gli alunni studiavano le stesse materie, ma ogni anno con maggiore ampiezza. Il programma delle materie era un combinato enciclopedico di disparati ingredienti; si andava dalle nozioni di igiene e dai rudimenti del diritto fino al canto e al disegno[80].

    L’insegnamento specifico e principale della scuola era la scrittura, arte in cui gli Scolopi avevano una meritata fama. Il carattere scolopio della scrittura era un robusto carattere spagnolo, alto, grosso e senza ornamenti o tratti stravaganti[81]. Diventarne abili richiedeva molta applicazione. I principianti imbrattavano

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