Sukiya, la casa da tè
Di Nyuka
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Anteprima del libro
Sukiya, la casa da tè - Nyuka
© 2012 Società Editoriale ARPANet Srl, Milano
Edizione: settembre 2012
ISBN 978-88-7426-153-6
Via Stampa, 8
20123 Milano
Tel. 02.670.06.34
ARPABook@ARPABook.com
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Collana diretta da: Paco Simone
Art director: Francesca Fasoli
nyuka
Sukiya,
la casa da tè
ARPABook
eBook
La stanza del tè
Agli occhi degli architetti europei, educati alla scuola di Architettura della pietra e mattone, il modo di costruire asiatico usando materiali di legno e bambù può sembrare indegno di essere chiamato architettura; ma non per il padre di Micol.
Comodamente disteso nella sua Le Corbusier, sfogliando testi e illustrazioni di templi giapponesi, si lasciava incantare da quella che per lui era la quintessenza della comprensione dello spazio.
Così nella Sukiya, la fugacità delle cose si trovava suggerita dal tetto di paglia, dalla fragilità di esili colonne, dalla leggerezza delle travi di bambù, dalla loro apparente noncuranza e dall’impiego di materiali comuni.
Pensò: il concetto di eternità per il giapponese risiede unicamente nello spirito, che incarnandosi in queste semplici cose, le abbellisce della luce che emana dalla sua raffinatezza.
Girò pagina e le illustrazioni della Pagoda di Horyuji e di Yakushiji fecero battere più forte il suo cuore: grandi pilastri di legno del diametro di sessanta, perfino novanta centimetri e dodici metri di altezza, sopportavano, grazie a un complicato gioco di mensole e travi enormi, il peso degli obliqui tetti di tegole, tutto in legno e tutto ancora intatto dopo dodici secoli di esistenza.
Ma se il suo spirito maschile esultava di ammirazione per l’infaticabile lavoro del pensiero sulla materia, la sua anima si specchiava nella Sukiya.
Levò gli occhi dal libro e guardò verso un divano bianco dove era appoggiato un cappellino di paglia con un rametto di gelsomino, come se qualcuno l’avesse lasciato lì un attimo prima.
Il divano bianco, vuoto e intatto, raccolse le sue parole:
Laura, costruirò la Sukiya per Micol
.
Michele Giordani non faceva del dolore un luogo di vanità: si alzava all’alba e andava a camminare dentro la nebbia sul lago di Massaciuccoli, lasciandosi muovere come le canne. Non lottava con il dolore, lo mischiava alle altre cose come un diverso colore di se stesso.
L’amore per sua moglie in tutto quel tempo, era diventato come un’altro respiro che lo ristorava.
Guardò il grande incensiere con la pasta di sandalo che bruciava spargendo nella stanza aroma di resina, si toccò una gamba che riposava nei soliti pantaloni larghi, sentì la forza dei suoi muscoli e il calore della pelle.
Non aveva permesso più a nessuna donna di toccarlo.
Il suo corpo risuonava col battito del suo cuore e il suo cuore era tutt’uno con quello di Laura.
Ascoltò quel battito, fondo come una radice.
La scritta
Il muro era alto quasi due metri e mezzo e lungo diversi chilometri perché più che un muro, era quella divisione tra acqua e terra ferma che viene chiamata molo.
E lì c’era di tutto, dalle scalette di ferro dove si poteva salire e scendere alla spiaggia, alle barchette un po’ scolorite e odorose di pesce dei pescatori, dai mucchi di rete color rame acciuffate in terra, a bici lasciate arrugginire fin nelle catene.
Ci sostavano anche macchine con coppiette che si scambiavano baci ardenti e carezze frettolose, qualcuna riusciva anche a litigare perché quel molo era fatto per tante cose, ci si poteva anche passeggiare e portare i cani a correre.
Ma quel pomeriggio la vera novità era una scritta grande, a lettere cubitali, alta più di un metro che diceva:
Non ho che i miei sogni, cammina con dolcezza, perché è sui miei sogni che cammini.
Tutti si fermavano a leggerla, anzi più che altro la guardavano, perché la scritta era visibile a metri e metri di distanza, tutti ci si avvicinavano, quasi non credessero ai loro occhi.
E nessuno diceva niente, restavano lì, senza accorgersi che avevano creato un capannello di gente.
Gabriel
Quando Gabriel tornò dagli States la prima cosa che pensò fu:
‘Devo cambiare il nastro alla stampante’ e mentre lo stava facendo, un’infinita tristezza s’impossessò di lui.
Tutto era andato al meglio, il contratto era stato ricalcato esattamente come lo aveva preparato, i disegni dei progetti grafici accettati esattamente senza cambiare una striscia, i very good, great, cool non si erano risparmiati le cene e vari produttori lo avevano voluto accanto per parlare dell’Italia e delle possibilità di metamorfizzare il suo fumetto in un play game, la playmate della compagnia gli si era offerta senza indugi e aveva imparato anche qualche parolina dolce in italiano. E allora, cosa non andava?
Perché si sentiva con un masso addosso e senza forze?
Buttò giù una Red Bull e sedette nella sua amata poltrona.
Forse il successo non dà alla testa, ma dà un senso che ‘si fa, si fa, e si arriva dove?’
Dove era arrivato?
A quello che voleva, cioè l’espansione del suo lavoro di produttore di fumetti e esperto in trend del costume. Riconosceva al volo scarpe, maglie, tagli di capelli e anticipava ogni possibile stile che avrebbe fatto la felicità di discografici e merchandiser, alla venerabile età di 27 anni, veneto, poteva dirsi a buon punto.
Eppure, le lunge gambe appoggiate alla poltrona nei comodi pantaloni color caki tradivano l’incapacità di rilassarsi.
Chiuse gli occhi e migliaia di immagini s’affacciarono dal balconcino della sua mente:
l’aeroporto, i bagagli, l’Oceano, il vento, la folla, le chiacchiere, le parole dette, ricevute, svolazzate qui e là nel cercare di spiegare e proteggere il senso della sua vita e del suo lavoro.
Sentì che avrebbe potuto rompere il computer con un pugno e tirar giù tutti i libri, i disegni, i suoi miti e se stesso.
La stanchezza lo rendeva cattivo.
S’alzò di scatto camminando in su e in giù per la stanza, prese il cellulare e scrisse: ‘Che stai facendo?’
Il messaggio arrivò in pochi attimi, qualcuno aveva scritto ‘Nulla’.
Quando arrivò