La neve
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Anteprima del libro
La neve - Gianna Besson
www.edizioniallaround.it
La neve
Che assurda questa neve. La neve a Roma è una sorpresa forte fatta a bambini troppo piccoli. Il tergicristallo si lamenta e delimita una specie di finestrella in tutto quel bianco che si ammucchia morbido sul vetro. Il candore abbacinante è illuminato dai fari delle auto che arrivano in senso contrario e dalle luci rosse di quelle in coda davanti. Anche quando era andato in viaggio di nozze nevicava così. Ricorda ancora le stesse luci sul candore senza tracce, incontaminato, perché nessuno era passato prima e comunque veniva giù tanta di quella roba che faceva in tempo a coprire ogni cosa. Non aveva avuto paura. Quel deserto strano era rassicurante, calmo, in grado di attutire rumori e dolori.
Anche adesso Oscar Scarpini, in coda sotto la neve sulla consolare alle porte di Roma, si sentiva tranquillo. Solo un lieve smarrimento, quasi affettuoso, lo avrebbe definito ovattato perché l’ovatta è bianca e la neve pure e una gli ricorda l’altra. Associazioni semplici, perché lui è un uomo semplice. Non pensa di essere meno intelligente della media ma certo non un filo di più. E si perde un poco nelle parole e nei suoi stessi pensieri. Insomma dove era rimasto? Ecco: al viaggio di nozze. Erano i primi di febbraio di tanti anni fa e lui e sua moglie avevamo deciso di andare in viaggio di nozze in montagna. Non c’erano soldi per fare di più. Si erano messi in macchina. Era pomeriggio tardi. Serena era già incinta ma non lo sapevano ancora. Si erano fermati a dormire a Orvieto. Bell’albergo, antico, sontuoso. Stava bene con Serena. Si baciavano continuamente e sentiva il suo seno che gli premeva sul petto e la pelle del collo che profumava di saponetta. Poi si erano rimessi in autostrada, diretti al nord. Erano usciti in Piemonte e si erano infilati nella provinciale. A sera, quando mancavano ormai pochi chilometri per arrivare all’albergo di montagna dove avevano prenotato, aveva cominciato a nevicare come adesso. Intorno nessuno. Erano andati avanti pianissimo, senza vedere dove fosse la strada. Così fino alla meta. Erano stati per ore zitti, soli, felici.
Qui invece le cose si stanno mettendo male. La coda si muove lentissima. È quella dei pendolari che hanno lavorato a Roma tutto il giorno e ora tornano a casa, nei Comuni oltre il raccordo. Oscar invece sta andando al lavoro adesso. Ha il turno di sera. Lo sceglie spesso perché è pagato con la maggiorazione. Si sta tranquilli, c’è poca gente in redazione, si può gironzolare sul web buttando un occhio alle agenzie. Il turno di notte comincia alle 18 ma arriverà in ritardo e Nicola, il caporedattore, troverà il modo di farglielo notare, magari fingendo di scherzare, con una battuta delle sue, di quelle pronunciate con falsa benevolenza ma che sono invece maligne e cattive. Probabilmente Nicola vorrebbe apparire amichevole perché è caporedattore per grazia ricevuta, non si sa bene da chi. Ogni tanto fa certi svarioni, diciamo culturali, che Oscar immagina derivati da un liceo malfatto, pieno di bocciature e con la licenza presa in un diplomificio. Lui invece, Oscar, ha fatto l’istituto tecnico ma certe cose di storia o di italiano se le ricorda. Basta così. Non vuole cominciare a macinare rancore. Adesso il problema è solo questa cavolo di neve. Meno male che ha le gomme invernali. Regalo del carrozziere sotto casa. Sono di uno che ha cambiato auto e non vanno bene col nuovo modello. Per la sua Punto invece sì. La Mercedes scura davanti non deve avere un carrozziere amico sotto casa – pensa Oscar – perché nonostante lo stralusso della macchina le ruote slittano. Anzi, si mette anche un po’ di traverso adesso che frena perché quello davanti ha inchiodato. Ci mancava anche questo. Ecco: siamo proprio fermi.
E chi viene adesso a tirarci fuori di qui?
Oscar Scarpini ha 53 anni, il naso grosso, un residuo di capelli rossi e i vestiti che gli cadono da tutte le parti. Si direbbe snello se fosse tonico. Invece il modo esatto di definirlo è macilento
. Oscar Scarpini è macilento e lo sono anche il suo cuore, la sua volontà, il suo cervello, la sua anima. Pensa questo di se stesso. E lo ha pensato anche sua moglie, Serena. Glielo disse quando lo lasciò. «Sei un depresso, sei un vinto, non hai midollo, sei, sei, sei... macilento», urlava correndo per la casa come una pazza. E pensare che gli era sempre sembrata timida, non parlava quasi mai. Credeva che neppure conoscesse il significato del termine macilento
. Forse davvero non lo conosceva perché lo usava come un insulto.
Dieci anni prima, quando la loro figlia era ancora piccola, Serena era tornata da sua madre. Proprio in senso letterale, a casa di sua madre, lei e la bambina in una stanza in fondo al corridoio, lasciando lui da solo nell’appartamento a piano terra vicino alla Cristoforo Colombo, quello che era stato costretto a comprare e per il quale doveva pagare ancora 15 anni di mutuo. La moglie gli aveva lasciato la casa in cambio degli alimenti, più di metà del suo stipendio. E doveva ritenersi fortunato, aveva detto Serena, dal momento che lei avrebbe potuto far valere il diritto alla casa visto che la bambina ci era cresciuta.
Avevano passato insieme cinque anni, un tempo breve e meraviglioso. Serena era bella e lui quasi non ci credeva che una ragazza così avesse sposato uno come lui, giornalista in una importante testata nazionale ma, si capiva dall’inizio, che sarebbe stato sempre uno sfigato destinato a non fare mai carriera. Non aveva protezioni, non aveva neppure talento, se mai fosse servito. Aveva una gran tigna questo sì, una costanza e una determinazione disperata. Aveva dovuto chiudere il negozio di cappelli ereditato dal padre. Non se ne vendevano ormai di cappelli, da tanto tempo. Ricordava bene le cene a casa, tutti e tre insieme, con il padre che si sedeva a tavola svogliato e tuffava il cucchiaio nel minestrone: «Oggi uno. Capisci Cesira, uno solo. E oggi era sabato».
Poi giù un altro cucchiaio, mentre sua madre sospirava. Il padre, poveruomo, aveva tirato avanti a fatica proprio per lasciargli un’attività. Finché era morto, infilzato di tubi, in quell’ospedale grande dove lui andava a trovarlo tutti i giorni, dopo la scuola, con sua madre, che sospirava sempre più forte. Intanto che lei faceva carezze caute sulla fronte del marito malato, Oscar pensava che prima di allora non aveva mai visto un carezza scambiata tra i suoi genitori, né mai un altro gesto d’affetto e che forse adesso suo padre era felice ma non lo poteva dire perché aveva un tubo anche in bocca.
Oscar, dopo il diploma, si era impiegato per un poco come commesso, poi si era trovato una specie di collaborazione nella rivista di moda di un amico. Era diventato giornalista e quasi per caso era stato catapultato come precario nella rubrica televisiva di un programma di medicina. Da lì il salto nell’edizione del mattino di una testata prestigiosa. Avevano bisogno di un precario in cronaca per una sostituzione. Come dire di no. L’orario era infame ma il Tg importante. Perfino le segretarie vantavano nomi grossi e parentele di prestigio. In redazione gli affidavano tutto quello che c’era di peggio: collegamenti dai luoghi in cui erano cadute