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Eco di parole lontane (eLit): eLit
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E-book219 pagine2 ore

Eco di parole lontane (eLit): eLit

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Info su questo ebook

43 Light Street 3

Di chi è figlio? Travis Stone se lo chiede da tempo. Adesso, però, la sua vita dipende da quella risposta. Del suo passato rimangono solo vaghi ricordi e la fotografia ingiallita di un neonato, con i quali Travis inizia la ricerca dei suoi veri genitori. Invece, su una strada nevosa del Maryland trova Erin Morgan, direttrice della Birth Data, Inc., agenzia che aiuta i figli adottivi a contattare i genitori naturali. Ma quella non è la Erin che lui ricorda. Il suo sguardo è confuso e le sue braccia lo cercano. Una volta si erano amati, anche se quell'amore è vietato, ormai. Perché, ovunque cerchi, Travis trova soltanto vicoli ciechi... e cadaveri.

ROMANZO INEDITO
LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2018
ISBN9788858993859
Eco di parole lontane (eLit): eLit

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    Anteprima del libro

    Eco di parole lontane (eLit) - Rebecca York

    successivo.

    1

    Colpevole fino a prova contraria.

    Stringendo le labbra, Erin Morgan sbirciò attraverso la nebbia che trasformava gli edifici su entrambi i lati di Light Street in un canyon di apparizioni indistinte.

    «Colpevole fino a prova contraria» ripeté a voce alta.

    Non avrebbe dovuto funzionare in quel modo. Tuttavia, era così che si sentiva Erin da quando i cosiddetti Omicidi del Cimitero avevano fatto tremare Baltimora. Da quando l'assassino l'aveva convinta con l'inganno a incastrare la sua amica Sabrina Barkley.

    Sabrina l'aveva perdonata. Ma lei non aveva perdonato se stessa e non avrebbe più permesso che accadesse qualcosa del genere.

    Guardò la borsetta sul sedile del passeggero e rabbrividì. Conteneva cinquemila dollari di offerte per il Santa's Toy and Clothing Fund. Erano perlopiù assegni, ma lei non avrebbe girato con oltre ottocento dollari in contanti. E non avrebbe tenuto l'incasso con sé un minuto più del necessario.

    Erin rallentò quando un banco di nebbia inghiottì l'automobile. Non vedeva nemmeno le decorazioni natalizie che adornavano le finestre di molti edifici del centro.

    «Astro del ciel, pargol divin...» Cantò alcune strofe per farsi coraggio, ma le morì la voce in quell'atmosfera cupa.

    Il 43 di Light Street si stagliò nella nebbia come un'immensa formazione rocciosa sott'acqua.

    Erin si portò sul retro dell'edificio dove sarebbe potuta entrare e uscire nel minor tempo possibile. Chiudendosi il cappotto per combattere il gelo, corse alla porta di servizio con la chiave in mano.

    Le fece piacere lasciare il freddo. Ma non c'era niente di gradevole in quel piccolo ingresso male illuminato, così diverso dall'opulento atrio marmoreo. Lì non c'erano pretese di raffinatezza, solo pareti grigie e un pavimento di cemento.

    Stringendo la borsetta, Erin aguzzò lo sguardo e le orecchie. Non sentì niente se non il familiare sgocciolio del sistema di riscaldamento. E non vide nessuno muoversi nel buio. Tuttavia, le si rizzarono i capelli sulla nuca.

    «Lou?» chiamò ad alta voce, chiedendosi se il custode fosse nei paraggi. Quando non ottenne risposta, si precipitò nell'ascensore di servizio e schiacciò il pulsante.

    Di sopra, la vernice era più recente e i pavimenti piastrellati. Ma a quell'ora della notte, solo poche luci sfidavano le ombre e, nel silenzio ovattato che regnava ovunque, il ticchettio dei suoi tacchi alti era quasi snervante.

    Sentendosi stranamente esposta nel buio, Erin tenne lo sguardo puntato sulla porta del proprio ufficio. Stava quasi correndo quando la raggiunse.

    La sua mano si strinse intorno alla maniglia. Era salda e rassicurante contro il suo palmo umido, e si sentì rinascere. Con un sospiro di sollievo, entrò e chiuse la porta alle sue spalle, bloccando gli invisibili fantasmi del corridoio.

    Sporgendosi al di sopra di uno dei divani spaiati dell'anticamera, premette l'interruttore della luce. Non successe nulla. Accidenti. Doveva essersi bruciata la lampadina.

    Nel buio, Erin mosse qualche passo verso l'archivio e si fermò.

    C'era qualcos'altro che non andava. Forse era l'odore. Non il fresco profumo dell'alberello di Natale che aveva messo davanti alla finestra, ma l'acre lezzo del sudore.

    Stava indietreggiando verso la porta quando una mano d'acciaio le bloccò il polso.

    Un grido di terrore le salì in gola. Il suono fu soffocato da un guanto di lattice.

    C'era qualcuno nell'ufficio.

    La sua mente registrò soltanto quello. Ma il suo corpo stava già lottando, cercando di divincolarsi.

    «No. P... per favore.» Anche mentre mugolava, sapeva di sprecare il fiato.

    L'uomo era forte. Deciso.

    Con la mano libera, Erin lo colpì alla spalla. Lui grugnì e la scrollò così forte da annebbiarle la vista.

    Lei cercò di morsicare il palmo gommoso che le tappava la bocca.

    La presa si spostò sulla gola. L'aggressore incominciò a stringere. La piegò all'indietro sopra il proprio braccio ed Erin intravide un volto nascosto da occhiali da neve. I lineamenti erano una strana parodia di qualcosa d'umano.

    La pressione aumentò. Lei si sentì soffocare.

    No, per favore. Lasciami andare. Ho un bambino. Ha bisogno di me.

    Le parole s'interruppero come il suo respiro.

    Stava morendo. Scene della sua vita le balenarono davanti agli occhi. La domenica mattina nel lettone dei genitori. La prima elementare. Il diploma. Il suo matrimonio con Bruce. La nascita di Kenny. La morte di suo marito. Tradire Sabrina. Finire il college. Il suo recente impiego presso la Silver Miracles Charities. La festa di beneficenza di poco prima. Tutte quelle immagini filtrarono nella mente di Erin come granelli di sabbia in una clessidra.

    Poi, ci fu soltanto buio.

    «Ehi, amico, sei sempre il migliore!» esclamò una vocina infantile.

    «Grazie» rispose Travis Stone mentre guardava il faccino lentigginoso e sorridente dell'ultimo bambino nella fila... uno dei tanti che dalle nove aspettava di vedere lui e un'altra decina di giocatori nella palestra della St. Stephens High School.

    Sebbene Trav avesse trascorso gli ultimi sei mesi lontano dal campo, i tifosi non avevano dimenticato il formidabile campione degli Orioles che aveva effettuato più di venti corse l'anno alla casa base nelle ultime dieci stagioni.

    Il viso adorante del ragazzino gli fece venire un groppo alla gola. «Giochi a baseball?»

    «Sì, sono lanciatore per la squadra della St. Stephens.» Gli passò un cappellino e lui fece l'autografo.

    «Bravo. Continua così.»

    Parlarono per qualche altro minuto, e Trav cercò di non strascicare le scarpe da ginnastica sotto il tavolo. Aveva accettato quell'incontro nove mesi prima, ma avrebbe dato forfait se non avesse avuto altri impegni in città quel giorno. Mentre concedeva l'ultimo autografo, alzò lo sguardo e vide Jake Wallace, il cronista sportivo del Baltimore Sun, venirgli incontro con passo deciso. Accidenti. Si era augurato di evitare la stampa.

    «Trav. Che cos'hai di nuovo?»

    «Niente. Perché non intervisti loro?» Indicò gli altri giocatori intorno al tavolo.

    Ignorando il consiglio, il giornalista tirò fuori un taccuino. «Rispondi soltanto a un paio di domande per la mia rubrica.»

    Trav pensò di rifiutare. Ma non poteva nascondersi in eterno, e Wallace non era male. «Okay. Ma qui stanno chiudendo.» Alzandosi, si sgranchì le gambe.

    Wallace, un ex giocatore di football americano che si era ritirato dopo una grave lesione al ginocchio, lo fissò attento. «Come va la schiena?»

    Tanto per andare sul sicuro, Travis si premette le mani contro la base della spina dorsale e inarcò le spalle. La schiena era il pretesto con cui aveva spiegato la sua protratta assenza dal campo di gioco. «Tutto considerato, bene.»

    Fuori, il sole dicembrino stemperava il gelo mentre risalivano la strada alberata. Trav s'infilò le mani nelle tasche del giaccone imbottito. Odiava mentire. Ma il pensiero della verità in prima pagina gli dava il voltastomaco.

    «Ascolta, Trav, posso darti una mano se tu la dai a me.»

    «Sì?»

    «Mettiamo a tacere certe voci.»

    «Che cosa si dice in giro?»

    «Droga. Sei stato visto in una comunità terapeutica. Ma non siamo mai riusciti a dimostrare la notizia.»

    Lui si accigliò. «È una frottola, e sarà meglio che non la veda pubblicata.»

    «Okay, okay. Dovevo chiedertelo, lo sai. Giocherai la prossima stagione?»

    «Proverò.»

    «Qualche informazione sulla campagna acquisti?»

    Trav si rilassò adesso che l'argomento era cambiato. «Ho sentito che Lemand sta per aggiudicarsi due esterni coi fiocchi.»

    «Chi? Non puoi essere un po' più preciso?»

    «Spiacente, Jake. È tutto ciò che posso dirti.» Si fermò accanto alla sua Corvette rossa, salì e chiuse la portiera. Alcuni giornalisti se ne sarebbero rimasti lì a picchiare sul vetro finché non fosse partito. Jake aveva più classe. Dopo qualche secondo, si allontanò.

    Trav aspettò che fosse scomparso. Poi, uscì dall'auto e percorse in fretta i pochi isolati che lo separavano dal centro di St. Stephens. Quando ebbe raggiunto Main Street, si mescolò alla folla che gremiva i marciapiedi. Non parlò con nessuno. Anzi, era appena consapevole dei passanti, della musica natalizia che si diffondeva dagli altoparlanti o delle decorazioni nelle vetrine dei negozi. Era completamente assorto. Aveva molto su cui riflettere e conosceva un posticino tranquillo sull'acqua.

    In quel periodo dell'anno, il molo era quasi deserto. Una solitaria barca a vela sfidava il vento gelido che soffiava sulla distesa azzurro cupo. Travis fissò la bella imbarcazione, immaginando che l'uomo al timone stesse fuggendo. Si sarebbe voluto trovare a bordo, in viaggio verso un mondo incantato.

    Riconobbe la fantasia per ciò che era. Wallace gli aveva fatto capire che non era il caso di aspettare. Forse avrebbe dovuto indire una conferenza stampa, annunciare il proprio ritiro dal baseball all'età di trentadue anni e farla finita.

    Gli si contorse il viso. Automaticamente, lottò per ricomporsi nel caso in cui qualcuno l'avesse visto. Poi, rise. Per quanti anni fossero passati, lui continuava a temere che Wayne e Peg Stone lo stessero spiando, pronti a rinfacciargli la più piccola debolezza.

    Be', c'era un vantaggio in quell'addestramento precoce. Gli aveva lasciato qualcosa di utile. Per non ricevere botte in testa - sia fisiche che morali - bisognava nascondere i propri pensieri e fingere che filasse tutto alla perfezione. I riflessi acquisiti erano stati la sua prima difesa. Col tempo, Travis aveva imparato a reagire, poi aveva visto ciò che ci voleva per aver successo agli occhi del mondo. Persino ai propri.

    Strinse i pugni. Sei mesi prima, tutte le regole erano state cambiate all'improvviso. Il destino gli aveva servito una mano che Trav non sapeva giocare. Non gli restava che convertire in denaro le fiches o escogitare una tattica migliore.

    Erin si dondolava nella culla dei sogni. Piano. Avanti e indietro. Il movimento era dolce e rassicurante. Forse era in paradiso e gli angeli le si affollavano intorno, muovendo la culla con le ali.

    Ma l'odore non era quello del paradiso. L'aria era umida. Gelida. Odorava di muffa e di pesce marcio.

    Strizzando gli occhi, Erin rotolò sul fianco e ritardò il momento in cui si sarebbe dovuta ridestare. Ma non poteva rimandare l'inevitabile. Ogni volta che deglutiva, le sembrava che dei vetri rotti le scivolassero giù per la gola. In bocca, aveva il gusto dei medicinali. Le batteva forte il cuore.

    Aprì un occhio, poi un altro. Ciò che vedeva non aveva senso. Pareti ricurve, fatte di tavole strette a meno di un metro dalla sua faccia. Girandosi supina, guardò in alto. Il sole filtrava attraverso le fessure di un tetto rotto.

    Lottando contro nausea e vertigini, Erin si sollevò a sedere e la sua mano sfiorò uno strato di tela cerata. Il suo piccolo angolo di mondo incominciò a svelarsi. Si trovava in una barca a remi che dondolava adagio su uno specchio di acqua scura. Intorno all'acqua c'era un edificio fatiscente. Tre lati erano chiusi da tavole verticali e pilastri di pietra. Il quarto era diviso da grandi porte.

    La sua mente elaborò l'informazione e individuò la parola giusta. Rimessa per barche. Doveva trovarsi in una rimessa per barche.

    Ma l'ultima cosa che ricordava era la nebbia. Raggiungere l'ufficio nella nebbia. Per depositare l'incasso della serata di beneficenza.

    Fu travolta dal panico e incominciò a tastare il fondo della barca. Quando le sue dita si chiusero intorno al cuoio consunto della sua borsetta, un sospiro grato le sfuggì dalle labbra.

    Aprì la cerniera e rovistò. Portafogli. Chiavi. Pettine. Rossetto. Fazzoletti di carta. Biglietti da visita. Tutto tranne la busta coi soldi e gli assegni.

    «No!»

    Con un piccolo singhiozzo, si lasciò cadere contro la tela ruvida. L'uomo le aveva preso il denaro.

    L'uomo?

    Il volto irreale con gli occhiali da neve le balenò davanti agli occhi. Risentì di colpo la mano sulla bocca. La mano intorno alla gola. Che stringeva... stringeva... soffocandola.

    Con dita tremanti, Erin si toccò il collo. Le faceva male. Anche quel tocco leggero le procurò una fitta.

    Ma il dolore fu come una secchiata d'acqua in faccia. La riportò al presente con tragica immediatezza.

    Era giorno. E l'ultima cosa che ricordava lei era sabato notte. La notte prima?

    Da quanto mancava?

    Santo cielo. Kenny e la sua governante, la signora Vickery, dovevano essere sconvolti. Bisognava avvertirli.

    Erin tornò a sollevarsi. Questa volta, la vertigine passò in fretta. Afferrando la corda che ancorava la barca alla parete, incominciò a tirare. Lo sforzo le annebbiò di nuovo il cervello e lacrime di frustrazione incominciarono a rigarle il viso. Ma adagio, centimetro per centimetro, il pontile che correva su un lato dell'edificio diventò più vicino. A fatica, si trascinò fuori dalla barca e restò seduta a tirare fiato. Un velo di sudore le ricopriva il corpo. Non si era mai sentita così debole e disorientata in vita sua.

    Colpa del tentato strangolamento? O c'era dell'altro? Erin si passò la lingua sui denti. Sentì di nuovo il gusto dei medicinali. Era per questo che aveva dormito per ore? Il suo aggressore l'aveva anche drogata? E quindi lasciata lì a morire?

    Scosse il capo. Era assurdo. Avrebbe potuto ucciderla in ufficio. Ma non l'aveva fatto. Perché?

    La paura rischiò di pietrificarla, ma la ricacciò indietro. Sarebbe scappata da quel posto. Non soltanto per se stessa. Per Kenny. Suo figlio aveva bisogno dell'unico genitore rimastogli.

    Adagio, si alzò in piedi. Poi, con una spalla contro la parete, incominciò ad avanzare verso la porta sul retro dell'edificio.

    Sembrarono passare ore prima che raggiungesse l'uscita. Sul momento non successe nulla quando spinse la porta. Con un grido soffocato, provò e riprovò... anche con calci e spallate. La porta cedette di schianto e lei ruzzolò fuori, precipitando nel vuoto.

    Un grido le uscì dalle labbra mentre atterrava come un sacco di patate su una duna di sabbia. Per alcuni secondi, rimase ferma a respirare lunghe boccate di aria salmastra. Poi, si raddrizzò.

    Si trovava tra una vecchia rimessa per barche e un molo malconcio che sembrava sul punto di crollare. L'erba alta ondeggiava al vento. E una distesa d'acqua azzurro cupo si apriva davanti a lei.

    Riparandosi gli occhi con la mano, si guardò intorno e vide un vialetto di terra battuta che si dipartiva dalla spiaggia.

    Il vento le pungeva la pelle. Lottando per chiudersi il cappotto, Erin si strappò un bottone e lo vide cadere sulla sabbia. Lo fissò con aria confusa, chiedendosi se chinarsi a raccoglierlo. No. Alzarsi la prima volta le era costata troppa fatica. Così, si tenne stretto il colletto e risalì adagio il viale. Erbacce e alberi spogli le ondeggiarono davanti agli occhi mentre metteva un piede dopo l'altro.

    Arrivò in cima. Il vialetto sbucava su una strada a due corsie. A destra vide delle case in lontananza, così si avviò in quella direzione. Qualche secondo dopo, il suono di un motore sferragliante la fece sussultare. In fretta, si spostò sul ciglio della strada.

    Batté le palpebre quando un camioncino scassato si fermò stridendo e un intero carico di tacchini gloglottò la propria disapprovazione. Un vecchio dal volto coriaceo tirò giù il finestrino. «Che cosa ci fa qui, signorina?» domandò con voce gracchiante.

    Erin

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