In Svizzera. Sulle tracce di Helvetia
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“Seguire i tre fiumi nel loro tratto svizzero per iniziare a districare la complessa matassa della mia identità. Questa l’idea, almeno per la partenza. Il resto, poi, si vedrà.”
Inizia così, al triplice spartiacque del Piz Lunghin in Engadina, un viaggio attraverso la Svizzera alla ricerca di risposte non sempre facili da trovare per chi è nato in Ticino ed è separato dal resto del Paese, oltre che dalle Alpi, da distanze linguistiche e culturali. I fiumi le cui sorgenti si trovano su quella montagna, l’unico spartiacque europeo verso tre mari, sono la Meira che finisce nell’Adda e nell’Adriatico; il Reno che sfocia nel mare del Nord e l’Inn che attraverso il Danubio raggiunge il Mar Nero.
Le montagne, i laghi e le città. Lorenzo Sganzini ha viaggiato attraverso la Svizzera visitando luoghi simbolici come il Cervino, le gole della Schöllenen o il Grütli e incontrando i grandi personaggi che ne hanno fatto il mito e la storia: Guglielmo Tell, Nicolao della Flüe, il generale Guisan, Giacometti, Hodler, Frisch, Dürrenmatt... Ma soprattutto si è lasciato guidare dalla curiosità dello sguardo, perché come dicono i versi di Antonio Machado “il cammino si fa camminando”.
Sul Lunghin ha percepito la presenza di Gaia la dea della terra, al Bernina di una diavolessa, al Morgarten di Gertrud Stauffacher. Helvetia è stata rincorsa un po’ ovunque. Ha riscoperto le città come incubatrici di un pensiero a cui non è estraneo il loro essere svizzere. A Basilea si è ricordato della famosa frase di Orson Welles, un vero concentrato di luoghi comuni: “In Italia sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”. Le cose non stanno proprio così. Erasmo, Holbein il Giovane, Paracelso, per un breve periodo anche Calvino, le tipografie e l’università resero Basilea la culla dell’Umanesimo; come ha osservato lo storico Jacques Le Goff, ne fecero, proprio in quei primi anni del Cinquecento, uno straordinario “agente di civilizzazione” al centro di una fitta rete europea.
Il viaggio, partito tra le montagne, il cuore geografico della nazione, si conclude al Palazzo federale di Berna, il suo cuore politico, dove, quasi a voler compensare la furia iconoclasta della Riforma, ogni spazio ne racconta la storia con statue e dipinti.
Lorenzo Sganzini
Lorenzo Sganzini (Lugano, 1959) è stato responsabile della Divisione cultura del Cantone Ticino, della Rete Due della Radiotelevisione svizzera di lingua italiana e dei servizi culturali della Città di Lugano durante la realizzazione del centro culturale LAC (Lugano Arte e Cultura).Nel 2020 ha pubblicato: Passeggiate sul lago di Lugano. Di chiesa in chiesa tra arte e storia.
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Anteprima del libro
In Svizzera. Sulle tracce di Helvetia - Lorenzo Sganzini
Parte prima
Montagne e confini
indice
1
Lo spartiacque
Piz Lunghin e passo del Septimer
Più della soddisfazione per la facile impresa, che non oserei neppure definire alpinistica, devo a quella gita la lezione di una diversa percezione delle Alpi: un labirinto nel quale smarrirsi tra passi, bocchette, forcole, cime, gole, canaloni, valli e vallette; acqua che scorre da tutte le parti, di tanto in tanto inghiottita dalle prese idroelettriche che prosciugano, intristendoli, gli alvei dei fiumi; piccole patrie unite da sentieri oggi in disuso; villaggi solo apparentemente lontani tra loro, un tempo partecipi del medesimo spazio di vita. Ovunque geografie inaspettate.
A quella gita devo anche la scoperta dello spartiacque di cui subito avverto la valenza simbolica. Si trova dove il sentiero scollina tra il versante dell’Engadina e quello del Septimer. Un blocco di granito tagliato a tronco di piramide indica il punto. Al centro, una vasca raccoglie l’acqua piovana. Quando la vasca si riempie, l’acqua fuoriesce da tre scanalature lungo gli spigoli: il caso ne determinerà la direzione verso l’uno o l’altro dei mari. Auf dieser einzigen dreifachen Wasserscheide Europas fliesst das Wasser in die Nordsee ins Mittelmeer und ins schwarze Meer, si legge su una targhetta: Da questo unico triplice spartiacque d’Europa scorre l’acqua nel mare del Nord, nel Mediterraneo e nel Mar Nero
. Dalla borraccia rovescio un po’ d’acqua nel piccolo incavo, con un risultato invero piuttosto modesto. Il terreno assorbe all’istante le poche gocce che lo raggiungono. Mi basta, però, per riportarmi alla mente l’immagine delle Alpi Somme di Giulio Cesare da cui scorrono fiumi straordinari verso tutte le plaghe del globo. I fiumi del Lunghin sono il Giulia – fino a Bivio chiamato l’Eva da Sett, l’Acqua del Septimer – che confluisce nel Reno, l’Inn che diventa il Danubio e la Maira – Mera in Italia – che, attraverso il lago di Como e in seguito l’Adda, entra nel Po. Un altro triplice spartiacque si trova sul Witenwasserenstock nel massiccio del San Gottardo. Le sue acque confluiscono nel Reno, nel Po e nel Rodano, gettandosi quindi soltanto in due mari, quello del Nord e il Mediterraneo, a riprova del fatto che non è fuori luogo considerare la montagna del Lunghin come la principale sorgente d’Europa, il posto migliore per iniziare questo mio viaggio alla ricerca della Svizzera, della sua identità, della sua storia, dei suoi miti e del suo archetipo femminile cioè di Helvetia. Le Alpi sono il tetto d’Europa. Non più quella dei Greci ma la nostra, del nostro millennio che sta per finire; e la Svizzera è figlia d’Europa
ha scritto lo storico Jean-François Bergier. Svizzera ed Europa: quassù è un’evidenza, un legame dettato dalla natura. Una non può fare a meno dell’altra, anche se si tratta di un’Europa germano-franco-italiana, cioè di un’Europa ridotta.
Ho dunque scoperto lo spartiacque durante quella gita di parecchi anni fa. Con due amici sono andato dallo Spluga all’Engadina tagliando le montagne lungo l’ipotenusa di un ipotetico triangolo comprendente, per gli altri due lati, la strada della Via Mala a nord del San Bernardino e, svoltando a Thusis quasi ad angolo retto, quella dello Julier. A Juf, che con i suoi 2176 metri è il villaggio abitato tutto l’anno più alto della Svizzera e anche d’Europa, abbiamo assaggiato i capuns, un impasto di farina con foglie di costa, formaggio fuso, cipolla, tritato di landjäger, salsiccia, pancetta, carne secca immerso in un mare di burro. Lo dico perché quando viaggio faccio sempre attenzione a quello che trovo nel piatto: racconta parecchio sul posto in cui sono. Il giorno seguente siamo saliti sul Piz Lunghin scrivendo i nostri nomi nel libro di vetta chiuso in una scatola di metallo incastrata tra le ultime pietre della montagna, abbiamo nuotato nelle gelide acque del laghetto da cui nasce l’Inn, quindi il Danubio, e, non distante da Plaun da Lei, la nostra meta tra Sils e Maloja, siamo passati attraverso il nucleo alpestre di Grevasalvas dove negli anni Settanta hanno girato il film Heidi, il che la dice lunga sul suo pittoresco.
Quando decido di tornare lassù, allo spartiacque, l’idea stava incominciando a prendere corpo pian piano. Assieme a me c’è Chantal, mia moglie, che mi accompagnerà in tutto il viaggio. La bella giornata d’agosto sembra perfetta, ma come può capitare in montagna d’improvviso ci sorprende il maltempo. La temperatura scende fino quasi a sfiorare lo zero e la nebbia si fa così fitta da rendere persino difficile seguire il sentiero. Gocce taglienti di pioggia portata dal vento ci colpiscono i volti arrossati dal freddo. Senza accorgerci arriviamo al laghetto, la sorgente dell’Inn. Rinunciamo ad andare più in alto. Mi sento sulle spalle l’incoscienza di una gita affrontata senza prima aver controllato le previsioni del tempo. Chantal è preoccupata. Io cerco di non darlo a vedere. Una schiarita rivela, a neanche un metro da noi, acque nere e agitate, inquietanti. Dura pochi secondi, poi tutto è di nuovo avvolto dal nulla. Avvertiamo il magnetismo del luogo, una forza vitale, il respiro che sale dal profondo della montagna. Percepiamo la presenza del mito. Qui dimorano le mie muse
osservò Nietzsche seduto a meditare al Chastè, la penisola poco più sotto, sul lago di Sils, dove su una grande roccia sono incisi alcuni versi dello Zarathustra.
La sera cerco nei libri dei riferimenti capaci di dare un significato più solido alle sensazioni provate durante la gita. Non fosse che le sorgenti del Lunghin non sono sorgenti di morte, anzi il contrario, si potrebbe pensare alla biblica statua del veglio di Creta ritto all’interno di un monte, l’Oriente alle spalle e Roma di fronte, del sogno di Nabucodonosor. Una pietra sfarina la statua colpendone i piedi mezzi di ferro e mezzi d’argilla e questa, rompendosi, si trasforma in un’enorme montagna che occupa tutta la terra. Nella Divina Commedia Dante colloca la statua del veglio all’origine dell’Acheronte, dello Stige e del Flegetonte. Sulla superficie del colosso si aprono crepe da cui un pianto ininterrotto genera i tre fiumi infernali. Anche dal Lunghin dirocciano e sgrondano – per usare le parole di Dante – acque da tutte le parti, destinate ad alimentare i tre grandi fiumi europei.
Tua sectus orbis / nomina ducet, Un continente / porterà il tuo nome
, recita un’ode di Orazio riferendosi a una principessa di cui Zeus s’invaghisce. Per rapirla, il re degli dei si trasforma in un toro. Europa sale sulla sua groppa, i due attraversano il mare da Oriente a Occidente fino a giungere a Creta. Tra le numerose rielaborazioni del mito, ce n’è una che potrebbe andar bene anche quassù. Europa è figlia di Tizio, partorito, ma non concepito, da Gaia, dea della terra, generatrice delle montagne. Zeus nasconde Elara, la sua amante incinta di Tizio – quindi nonna di Europa – nelle profondità della terra. Madre terra (cioè Gaia) si sostituisce al ventre di Elara che muore a causa di quel feto troppo cresciuto per lei. Ogni volta che provo a seguire le genealogie degli dei rischio di perdere il filo, ma la storia ci dice che Europa ha le sue origini nel ventre di una montagna. Forzando un poco le cose, si potrebbe fantasticare che quella montagna sia proprio il nostro Lunghin!
Bisogna attraversarle le Alpi per capire il loro ruolo in Europa. Un manifesto di fine Ottocento che promuove la ferrovia del Gottardo e il viaggio in Italia rende bene l’idea. La dea Europa poggia un piede su Milano mentre stringe tra le mani, tirandolo verso di sé, il fitto reticolo dei binari all’altezza di Dresda e Parigi. Con l’ottimismo, purtroppo presto tradito, della Belle Époque, l’immagine sottintende l’idea di un’Europa senza frontiere che il treno ha reso più piccola, unita e accessibile. La linea alpina, una grossa striscia nera diversa dalle altre di colore rosso, attraversa il corpo della divinità come ne fosse l’aorta in cui scorre il suo sangue più denso, e, con un’impressione accentuata dagli attorcigliamenti fuori scala delle gallerie elicoidali necessarie per superare i dislivelli, anche le viscere. Di nuovo a ricordarmi che la vita di Europa si genera qui, sulle Alpi: Non più l’Europa dei Greci ma la nostra
. E da qui passa anche il viaggio: non più viaggio di mare, mediterraneo, da un oriente lontano; ma viaggio di terra, dal Nord verso il Sud, Roma e l’Italia.
A conferma della dimensione continentale del Lunghin, sul passo del Septimer, appena sotto la cima della montagna, troviamo una targa che segnala il passaggio, nel 612, dell’evangelizzatore irlandese Colombano, il grande santo europeo, diretto a Roma per sottoporre al Papa l’approvazione della sua Regola. Ci andiamo pochi giorni dopo il fallito tentativo di raggiungere lo spartiacque. Questa volta tutto andrà bene. A differenza di Colombano, proveniente dal lato settentrionale, saliamo da Casaccia, lungo il versante più ripido, per scendere a Bivio, dall’altra parte, seguendo la dolce e comoda sterrata diretta agli alpeggi. Arrancando in salita penso alla fatica di chi percorreva il passo con i carichi sulle spalle o tirando su i muli, e all’esercito francese del generale Massena passato di qui (ma in discesa) per scontrarsi con gli austriaci proprio a Casaccia.
In cima, dove una volta c’era un ospizio, ci sembra quasi di poterlo vedere, Colombano, che avanza a fatica sostenendosi con il bastone. Nel cuore geografico del continente, in un paesaggio allora percepito come di desolazione e abbandono, l’anziano monaco, ecco, si ferma, e ad alta voce scandisce, allargando le braccia, le due parole con le quali per primo enunciò l’idea di un’Europa culturalmente unitaria: Totius Europae, Tutta l’Europa
.
indice
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2
La precaria rocciosità bregagliotta
Bregaglia e Valchiavenna
Seguire i tre fiumi nel loro tratto svizzero iniziando così a districare la complessa matassa del viaggio. Questa l’idea, almeno per la partenza. Il resto, poi, si vedrà.
Cominciamo dalla Meira/Mera forse perché scorre a sud e le sue sponde parlano quindi italiano. Il fiume è un cartello indicatore: direzione Venezia. San Marco sta dirimpetto a Istanbul; oltre lo stretto del Bosforo ci sono il Mar Nero e il Danubio. Risalendolo, controcorrente, si torna al Lunghin e il cerchio si chiude, a conferma del fatto per cui, anche se le loro direzioni sono all’opposto, da qualche parte le acque dei fiumi s’incontrano sempre.
Per oltre tre secoli, fino a Napoleone, la Repubblica grigionese delle Tre Leghe, di cui facevano parte anche Sondrio e Chiavenna, ha confinato con la Repubblica di Venezia. Da Morbegno, in Valtellina, attraverso il venezianissimo nel nome passo San Marco, si evitava di entrare nei territori del Ducato di Milano. Il ruolo strategico di quel collegamento tra la Serenissima e l’Europa del Nord portò i due Stati a stringere un’alleanza: da una parte esenzione dai dazi e garanzia di transito; dall’altra possibilità di libero commercio e d’esercizio d’arti e mestieri senza alcun impedimento d’inquisizione
per coloro che avevano aderito alla Riforma. Dalla Bregaglia e dall’Engadina furono in molti ad approfittarne. Nel 1571 in seicento per remare sulle galere di Lepanto. Oltre quattromila pochi anni più tardi per fare i pasticceri, ma anche i mercanti di acquavite, gli arrotini, i panettieri, i calzolai, i vetrai, i soldati mercenari. Durò fino alla seconda metà del Settecento quando i grigionesi vennero espulsi, perché, si legge in un decreto, erano solo attenti a smungere denaro, trasportandolo alle loro sterili montagne con le frequenti lor gite
.
Come ha osservato Fernand Braudel (Innanzitutto le montagne, s’intitola il primo capitolo di Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II) la vita degli uomini del mare ha avuto inizio sulle montagne: sterili appunto, sovrappopolate, sempre in ritardo perché lo spazio stesso rendeva difficile la possibilità di tecniche agricole più moderne; in compenso al riparo dalla malaria che infestava le pianure e dai pericoli della guerra. Le genti di montagna sciamavano seguendo il corso dei fiumi. Manodopera per i lavori più umili, ma anche mercanti e imprenditori di successo. A Venezia, come a Genova o Milano; a Marsiglia, Parigi, Lipsia e Amsterdam, fino alle lontane terre d’America: La montagna è questo
scrive Braudel una fabbrica di uomini al servizio altrui; la sua vita diffusa, prodiga, nutre la storia tutta del mare
.
Sopra Maloja l’erosione ha girato di 180 gradi il corso del torrente generato dal ghiacciaio del Forno. Finiva nel lago di Sils, quindi nell’Inn, ora precipita a sud, nella Meira. Una diga di ritenzione evita che, come troppo sovente in passato, ogni pioggia un po’ sostenuta porti distruzione in una valle costretta tra severe muraglie di roccia che comunicano una presuntuosa impressione di superiorità nei riguardi del tempo terreno e un’ambizione di eterno quando, in verità, sono fragili come la statua del veglio (l’avresti detta eterna anche lei). Sfarina il Bleis da Sasc, il pascolo di pietra sotto il quale passa l’antica mulattiera del Septimer in quel tratto chiusa da anni tanto che per superare l’ostacolo occorre seguire una traccia appena accennata nel ripido bosco di pini e di larici. E sfarinano, in un fragoroso boato di morte, anche le cime del Cengalo frequentate dagli arrampicatori. Quando piove in Bregaglia è proprio come quando piove nell’Onsernone, in Ticino, dove Max Frisch ha ambientato un romanzo, L’uomo dell’Olocene, dall’impareggiabile incipit meteopatico: Si dovrebbe poter fabbricare una pagoda di crackers non pensare a niente e non udire tuono, né pioggia, né lo sgocciolio della grondaia, né il gorgoglio tutt’intorno alla casa. Forse una pagoda non viene ma la notte passa
.
A proposito di sfarinamenti, la sera del 4 settembre 1618 sono venute giù le pendici del Monte Conto in Valchiavenna che allora era Grigioni. Gli abitanti di Piuro avevano approfittato di un bel sole di fine estate tornato a farsi vedere dopo giorni e giorni di pioggia. La frana se li è portati via tutti: i registri parlano di 937 persone più gli stranieri; con loro si è portata via l’intero borgo del quale non sono rimasti che qualche colonna e alcuni pezzi di muro. Grazie ai commerci lungo le strade dei passi e alle cave di pietra ollare per fare le pentole di allora, i laveggi, Piuro trasudava ricchezza da ogni palazzo e giardino. A un cronista dell’epoca bastarono quattro aggettivi per descrivere i fatti: annientato, sommerso, sconvolto, distrutto. Nel palazzo di campagna dei Vertemate Franchi, l’unico rimasto in piedi perché appartato sull’altro lato