Come parole crociate
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Anteprima del libro
Come parole crociate - Carlo Vitucci
I
Sono un uomo cattivo, sono un uomo malato. Sono un uomo cattivo perché sono un uomo malato e sono anche contento di esserlo. Cattivo, non malato, si intende; d’altronde, non potrebbe essere diversamente.
Quando è iniziato il tutto? Mah! Io, figlio di un poliziotto del secolo scorso, ma lontano da mio padre almeno mille anni, non potevo che scegliere di fare il poliziotto. Non ci ho messo molto a capire che i racconti del mio vecchio erano leggende di un mondo e di un tempo che non esiste più. Ci ho provato. Ho provato a dare un senso alla mia vita, alla mia professione. Dannazione se ci ho provato! Ma tutto, inesorabilmente, è andato a puttane. Sia ben chiaro, la colpa è la mia, non cerco scuse inutili. Il matrimonio con Dana, la carriera, il rapporto con mio figlio. Tutto a puttane. Lì è nata la mia rabbia, non nella malattia. Nella inconscia, intima consapevolezza di essere, tutto sommato, uno stronzo.
Il rapporto con Dana l’ho buttato nel cesso quando mi sono ritrovato a passare più tempo per le strade di questa schifosa città che a casa. La carriera l’ho dimenticata già dalla prima mazzetta presa per evitare di passare per una certa via e mio figlio, beh, quando ti ritrovi un adolescente per casa di cui non riconosci la faccia, qualche domanda dovresti cominciare a fartela. I segnali li avevo visti tutti. Diavolo, sono un buon poliziotto, certi dettagli non mi sfuggono mai! E invece no, non ho fatto nulla, li ho lasciati scivolare verso l’unica conclusione possibile. Dana saranno cinque anni che non la vedo più: mi hanno detto che si vede con un brav’uomo e a me va bene così. Nel mio distintivo c’è scritto detective da dieci anni e non aspiro a molto di più. Mio figlio, invece, so esattamente quello che fa. È avvocato praticante e lavora nello studio legale della Procura. Ogni tanto, mi nascondo nel tribunale per vederlo all’opera. Gli danno casi semplici e facili, ma è bravo. Mi sembra che sia diventato il preferito del procuratore. Bello, elegante, attento ai particolari, come l’orologio portato sopra alla camicia, giusto per intimorire le giurie e mettere subito in chiaro chi hanno di fronte. Meno male che ha ripreso tutto dalla madre. Dovrei andare a trovare mio figlio. È talmente tanto tempo che non lo vedo che ho dimenticato il perché ho smesso di farlo, sempre che ci sia mai stato un motivo. Sì, dovrei, anche per conoscere meglio il mio nipotino, per non continuare a vederlo di nascosto da dietro la rete della scuola. Odio dover stare in disparte dietro quella rete, mentre gli altri nonni sono tutto abbracci e sorrisi. La scuola ha una concentrazione tale di smielata dolcezza che comincio a pensare sia la vera origine dell’aumento dei casi di diabete in questa città. Altro che alimentazione sana! Quella non è una scuola, è una melassa ricoperta di zucchero.
Dai tempi della separazione, vivo in un buco di appartamento, in affitto. Un paio di stanze rimediate da una villetta della padrona di casa, una vecchia acida come lo yogurt scaduto che ho in frigo da un paio di mesi. L’unica cosa che ha saputo dirmi per questa dannata tosse è che non gli devo sporcare casa con il sangue. Però è sorda come una campana, il che mi permette di insultarla a piacimento. Anzi, sono diventato abbastanza bravo nell’inventare offese sempre più sofisticate e fantasiose. Comunque, penso che Dio abbia un metodo quantomeno discutibile con cui decide chi richiamare a sé dei suoi figli. Magari, più semplicemente, quelli stronzi non li prende nessuno volentieri.
L’ho detto di essere un uomo cattivo, giusto?
Cattivo.
E malato.
E stronzo.
L’uomo era perso nei suoi pensieri, nella grande sala di attesa del dottor Arnold Muller, completamente vuota, con lui come sola eccezione. Tutto di quell’uomo parlava di solitudine: la barba cacio e pepe dimenticata sul viso da almeno tre giorni, la camicia stropicciata, le scarpe con i tacchi consumati verso l’esterno, il collo sfilacciato del vecchio cappotto, lo stomaco rigonfio di cibo precotto, birra e fast food, il neanche tanto celato fastidio per essere in attesa di essere ricevuto, nonostante la sala di aspetto fosse vuota, cadenzato dal tamburellare scomposto della sua gamba destra.
Più sei solo, meno sei tollerante. Fissava, senza guardare, la parata di riviste sul tavolino di fronte a lui, attirato più dalla loro simmetrica disposizione che da scritte, colori e immagini delle copertine. Finalmente, una porta scricchiolante annunciò l’assistente di studio che lo accompagnò fino alla stanza del dottore.
«Buongiorno, Arnold.»
«Ciao Steve. Prego, accomodati.»
Conosceva Arnold praticamente da sempre. Era stato il dottore di famiglia, quando aveva avuto senso parlare di famiglia, ma solo dopo la separazione aveva cominciato a visitarne lo studio. Prima era sempre Dana quella che si occupava di tutto, persino capire se lui stesse male. Si posizionò sulla sedia che il dottore gli aveva indicato, restando in attesa, in rigoroso silenzio. La titubanza di Arnold e la sua faccia seria non preannunciavano nulla di buono. Il dottore si concentrò per leggere alcuni fogli senza cambiare espressione, poi prese la radiografia polmonare, scrutandola in controluce. Steve aveva la certezza che quelle operazioni non fossero necessarie, che fossero una ripetizione buona solo per riempire il silenzio che c’era nella stanza, ma, forse volendo ritardare una verità che sentiva sempre più incombente, non interruppe il rito e aspettò, stranamente calmo - sarebbe meglio dire rassegnato - sulla sua sedia.
«Purtroppo, non ci sono molti dubbi, Steve: il tumore è troppo esteso per pensare a un intervento. Non abbiamo molte speranze.»
Ecco, tutto era stato definito. Mancava solo un’ultima pennellata a un quadro che gli sembrava già di aver visto da qualche parte.
«Su quanto tempo posso contare?»
«Non esiste una legge valida per tutti, dipende dalle abitudini. Potremmo avere dei monitoraggi continui, verificare l’avanzamento o, perché no, una possibile regressione. Potremmo chiedere l’opinione di uno specialista e… »
«Arnold, quanto?»
Il dottore spense l’iniziale enfasi con cui aveva cominciato a rispondere a quella domanda. Buttò gli occhi sulle carte che aveva di fronte solo per fuggire dal contatto visivo in cui si era trovato immerso. Quindi continuò, secco, con un tono di voce decisamente più basso e cadenzato.
«Sei mesi. Forse un anno.»
Steve si alzò, salutò cordialmente il suo vecchio dottore, ma evitò di dargli l’arrivederci, e si ritrovò in macchina, seduto al posto di guida, le chiavi nelle mani raccolte sulle ginocchia, l’una sopra l’altra, come due cucchiai. Immobile, aspettando di riprendere fiato, di digerire la notizia.
Sono un uomo cattivo.
E malato.
E stronzo.
E sto per morire.
Che giornata di merda!
Prese il telefonino, compose il numero dell’ufficio e avvertì il capitano che quel giorno non sarebbe passato. Essendo a conoscenza della sua condizione, il capitano non trovò nulla da obiettare e gli augurò una buona giornata, evitando saggiamente di chiedergli l’esito della visita dal dottore. Chiuse la chiamata e attese che lo schermo si facesse di nuovo buio. Rimise il telefonino nella tasca del giaccone e mise in moto. Destinazione, al momento, sconosciuta e nessuna voglia di averne una. Cominciò a girovagare per le strade di Tretton, lentamente, girando casualmente a destra o sinistra, ignorando la fretta della gente che lo sorpassava, quella dei passanti senza volto che affollavano i marciapiedi, come schizofreniche ombre strappate dalle anime degli uomini. Per quel giro in macchina, aveva dismesso lo sguardo da poliziotto e si godeva l’aria fresca attraverso il finestrino leggermente abbassato. Inevitabilmente, il destino, o l’istinto, lo guidò verso la via di casa. Parcheggiò la macchina nel viale, uscì e accennò qualche passo in direzione del retro della villetta, dove era posizionata l’entrata indipendente delle sue stanze, ma si bloccò guardando distrattamente verso la strada. Per la prima volta, notò come la sua fosse l’unica vecchia, scrostata e arrugginita carcassa di automobile del quartiere, decisamente fuori tono rispetto alla esposizione di BMW, Mercedes e Toyota che facevano i suoi vicini. La guardò, di nuovo guardò le altre macchine tirate a lucido, poi di nuovo la sua, per finire con il darle qualche pacca di incoraggiamento sul cofano e qualche parola di conforto. Fu in quel momento che la padrona di casa fece sentire la sua presenza, starnazzando dalla veranda, almeno una cinquantina di decibel più del dovuto.
«Mi rovina il panorama con quello schifo di macchina.
Dovrebbe almeno farla lavare!»
Ottimo momento per far volare la sua fantasia con una nuova offesa per il vecchio yogurt che gli aveva rivolto la parola. Avvicinò i polpastrelli di pollice e indice della mano destra, stendendo il resto delle dita verso l’alto, sventolò il risultato con il braccio alzato, rivolto verso l’arpia, sfoderando il suo sorriso migliore e cominciò il suo monologo, visto che la campana non avrebbe sentito una singola parola.
«Sempre più pulita di quella fogna di bocca che ti ritrovi, vecchia stronza!»
Il vicino di casa, oramai uso a quelle scenette, ridacchiò al riparo di una tazza di caffè, opportunamente accostata alla bocca.
«Signor Barella, guardi che c’è un signore che è venuto a farle visita. L’ho fatto accomodare nel mio salotto, visto che lei non era in casa e che ha insistito per aspettare il suo ritorno. Se mi ha sporcato il tappeto, dovrà pagare lei il conto della lavanderia.»
Che cos’era quella novità? Non aveva ricevuto nessuna visita da quando si era trasferito lì. Praticamente dai tempi del divorzio, nessuno era passato a trovarlo, neanche il postino, neanche per sbaglio. Non aveva amici fuori dal lavoro, anzi, nel gruppo di quello che chiamava amici c’era solo Jack, gli altri erano al massimo delle conoscenze. Non riusciva a capacitarsi di chi potesse anche solo conoscere il suo indirizzo. Se qualcuno aveva organizzato quella visita solo per sorprenderlo, doveva ammettere che il piano gli era riuscito alla perfezione. Spinto dalla curiosità, cambiò direzione di marcia, andando incontro alla vecchia sulla veranda a cui rivolse ampi gesti con le braccia per farle capire di precederlo. Giunto sulla soglia di casa, la sorpresa, se possibile, aumentò.
Conosceva bene l’uomo seduto sulla poltrona con un vestito da tremila dollari addosso, scarpe altrettanto costose e l’orologio portato sopra la camicia, eppure non riuscì a dire nulla, né a muovere un passo. L’espressione del viso non sfuggì né alla vecchia padrona di casa, che se ne restava immobile a godersi lo stupore del suo inquilino, né al suo visitatore che decise di rompere il silenzio per primo.
«Ciao papà.»
Eccolo qua. Lo schiaffo, come lo avevo soprannominato. Non mi giunge nuovo, in realtà, visto che ha lasciato il segno del suo passaggio sul mio volto fin da quando ero ragazzo, ma ogni volta non mi sento preparato a riceverlo. Non conta quanto tu sia conscio di come funzioni, né serve mettersi sulla difensiva. Semplicemente, ogni volta che arriva, lo schiaffo ti fa barcollare, ti disorienta, ma, più di ogni altra cosa, ti fa incazzare.
Da ragazzo hai una valigia piena di aspettative, speranze e sogni, e cominci a investire tempo e risorse per raggiungere i tuoi obiettivi. Il percorso è difficile, a volte capisci che è meglio alleggerire la valigia, scaricando nella via qualche sogno troppo ambizioso, qualche aspettativa di troppo. Così può succedere che, con tutto quello che hai lasciato per strada, la valigia diventi più leggera. Cominci a vedere un qualche traguardo all’orizzonte e magari qualcuno riesci pure a raggiungerlo. Un giorno, trovi un’area ristoro nel tuo cammino. Lasci la tua valigia di fuori e decidi di fermarti. Sei lì, nella tua zona confortevole fatta di piccoli traguardi raggiunti, che ti godi quanto hai messo alle spalle, ignorando quello che hai volutamente lasciato per strada, forse ignorando l’intera valigia. Poi, inatteso, lui arriva. Lo schiaffo. Ti scaraventa lontano dalla tua zona ristoro, spazza via tutti i traguardi raggiungi e ti ributta in mezzo alla strada, di nuovo con la valigia accanto, di nuovo con un cammino da percorrere, e molto, ma molto incazzato. È come se la vita stessa sia intollerante alla tua quiete ed esiga da te un continuo, perenne cammino. Non importa quanto la valigia diventi leggera, purché tu sia e rimanga in cammino.
Ecco.
Oggi è il giorno dello schiaffo.
Così ora mi ritrovo a essere un uomo cattivo.
E malato.
E stronzo.
E sto per morire.
E sono incazzato.
Rimasero seduti uno di fronte all’atro. La padrona di casa era troppo sorda per fare attenzione alle loro parole. Il bravo avvocato praticante si era dato da fare e aveva raccolto alcune informazioni sul padre, come il nuovo indirizzo, per esempio. Aveva anche capito che erano anni che il bravo poliziotto rimaneva seduto dietro la scrivania del suo ufficio, lontano dalle strade. Nonostante il figlio cercasse di prenderla alla lontana, negli occhi del vecchio poliziotto, da quando si erano trovati seduti, era stampata una sola domanda, così radicata da non lasciare spazio a nulla, se non a una risposta a quell’unica, dannatissima domanda.
«Sono qui perché mi serve il tuo aiuto, papà.»
Ecco, quella era una risposta decisamente buona, la migliore che si potesse dare a una domanda non fatta. Nel giorno in cui aveva scoperto di dover presto lasciare questo mondo, l’idea di poter essere di aiuto non era solo una semplice occasione per riallacciare o costruire di nuovo il rapporto con figlio e nipote, ma una rara, preziosa e ultima possibilità di redenzione. Suo figlio aveva bisogno di lui e pazienza se, in realtà, cercasse l’appoggio del vecchio poliziotto (si alleggerisce sempre un po’ la valigia dopo lo schiaffo, no?). Nell’ufficio dove lavorava, il procuratore, che aveva intenzione di buttarsi in politica, doveva aumentare il suo indice di gradimento in vista delle prossime elezioni. Aveva bisogno di una grande impresa che lo lanciasse nei sondaggi, qualcosa di spettacolare e aveva chiesto al giovane avvocato di darsi da fare, promettendo mari e monti per la carriera: dovevano trovare il modo di incastrare Eyeball. Logico, pensò Steve, tutti conoscevano Eyeball, tutti avevano paura del signore della droga, del pizzo, della prostituzione e di qualunque attività, legale o illegale, in città! Metterlo in galera sarebbe stato sicuramente un bel biglietto di sola andata verso il congresso. L’avvocato era bravo, ma aveva bisogno di un poliziotto. Di un poliziotto fidato, possibilmente anche in gamba, che non potesse essere comprato come gli altri in busta paga di Eyeball, uno per cui quella missione avesse un senso. Steve pensò velocemente tra sé e sé, arrivando alla conclusione che, in quella città, c’era solo un poliziotto che avrebbe accettato quell’incarico e quel poliziotto era lui. Non perché non fosse corruttibile, ovviamente. Era anche lui nella lista di quelli in busta paga. Non perché fosse più coraggioso, preparato o più responsabile di uno qualunque dei suoi colleghi. No, quel poliziotto era lui perché solo lui poteva avere una ragione sensata per accettare: la sua redenzione.
«Hai fatto bene a rivolgerti a me. Ora, per la sicurezza tua e della tua famiglia, non mi cercare più, non preoccuparti del caso, non fare nulla, rimani fuori da questa storia. Ci penso io a capire come incastrare Eyeball e, a tempo debito, ti passerò tutte le informazioni di cui hai bisogno, così potrai fare la tua figura con il procuratore. Non provare neanche a chiamarmi al telefono. È troppo rischioso.»
Quello che doveva dire era stato detto e Steve non era famoso per fare piacevole conversazione, eppure sentiva naturale rivolgergli ancora una domanda.
«Come sta mio nipote?»
Sicuramente per l’allontanamento prolungato, il figlio si dimostrò molto restio nel dare informazioni personali, ma Steve gli strappò comunque quello che voleva sentire: scuola, maestre, compagni bulli e giochi nel parco. Cavolo, voleva sentirsi nonno anche lui! Poi l’avvocato lo salutò e il vecchio poliziotto si raccomandò di nuovo di perdersi di vista. Ora era compito suo.
Sono cattivo.
E malato.
E stronzo.
E sto per morire.
E sono incazzato.
E ho una nuova valigia e un nuovo percorso da fare.
Che giornata di merda!
II
Sono poche le cose che salverei di questa città. Ogni tanto faccio l’esercizio mentale di stilare una lista delle cose da salvare e il cimitero è sempre presente, in cima. Mi piace venire a passeggiare qui, mi piace il silenzio e il rumore dei miei passi sulla ghiaia. È uno dei pochi posti dove puoi sentire i tuoi passi, dove percepisci il rumore del tuo andare. Sentire i miei passi è come avere la prova della mia esistenza, altrimenti schiacciata e scansata dai rumori e dai tempi della vita moderna, e trovo sia una specie di curioso scherzo del destino che questo accada proprio in un cimitero. Passeggiare qui mi restituisce l’illusione di un tempo che insegue i miei ritmi, cadenzati dal rumore della ghiaia sotto le mie scarpe, e non il viceversa.
Anche se oggi…
Ma non solo. Mi restituisce anche un grande senso di pace, un’occasione per riconciliarsi con il mondo. Qui non vengono i mostri che oscurano la mia anima, non ci sono quelli del mio mondo pronti a giudicare, denigrare od osannare. Non ci sono figure ingombranti e minacciose che ti scorrono veloci ai lati, senza volto, senza occhi, senza storia. Qui hai solo volti di foto in bianco e nero che ti guardano durante il cammino, come se aspettassero il tuo arrivo per salutarti, con quelle date e quelle scritte che richiamano una storia, una vita, occasioni, desideri, speranze. Storie che vengono offerte alla tua vista in modo estremamente aperto, tanto da strapparti un ricordo, un momento di tristezza, un alito di gioia. E ogni volta sono qui ad aspettare la tua parata, sempre generosi nel fornire storie