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Un imprevisto chiamato amore - Non ho tempo per amarti - L'amore è sempre in ritardo
Un imprevisto chiamato amore - Non ho tempo per amarti - L'amore è sempre in ritardo
Un imprevisto chiamato amore - Non ho tempo per amarti - L'amore è sempre in ritardo
E-book1.012 pagine18 ore

Un imprevisto chiamato amore - Non ho tempo per amarti - L'amore è sempre in ritardo

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Info su questo ebook

Un imprevisto chiamato amore
Non ho tempo per amarti
L’amore è sempre in ritardo

Jordan è arrivata a New York con uno scopo: sposare un medico di successo. Preoccupata per le spese da sostenere per la madre malata, è convinta di poter essere la perfetta terza moglie di un primario benestante piuttosto avanti con gli anni. Il suo piano perfetto non prevedeva che svenisse ai piedi del dottor Rory Pittman. Ancora specializzando, per niente ricco, molto esigente e tutt’altro che adatto per raggiungere il suo obiettivo...
Julie Morgan scrive romanzi d’amore ambientati nell’Ottocento. Di quell’epoca ama qualsiasi cosa: i vestiti lunghi, gli uomini eleganti, le storie romantiche. Del mondo di oggi salva solo lo shopping online, che le permette di non mettere il naso fuori dal suo amatissimo e solitamente silenzioso appartamento. Almeno finché – proprio al piano di sopra – non arriva un misterioso inquilino…
I primi amori sono di solito un dolce ricordo, capace di far sorridere. Non per Alexandra Tyler: Norman Morrison, il migliore amico di suo fratello Aidan, l’ha rifiutata senza tante cerimonie dopo che lei ha trascorso l’adolescenza a corteggiarlo e a comporre per lui sdolcinate lettere d’amore in rima. Ogni volta che lo vede non riesce proprio a controllare il malumore. Quando però Norman, stanco di pranzi tesi in casa Tyler, le propone una tregua, Alex accetta: trattarlo in modo cordiale in fondo non dovrebbe essere così difficile. O almeno, questo è quello che crede…

Un’autrice N°1 nelle classifiche italiane
Vincitrice del Premio Bancarella

«Anna Premoli si conferma la regina del rosa.»
Corriere della Sera

«È la nostra Bridget Jones nazionale.»
Grazia

«Anna Premoli è capace di tuffare il genere del rosa nazionale in suggestioni internazionali e ben piantate nello spirito del nostro tempo.»
la Repubblica

«La regina della chick lit, Anna Premoli, la cui missione è dimostrare con brio e ironia che le donne non sono sempre e solo in attesa di un principe azzurro che le salvi.»
Elle

«Anna Premoli ha fatto di nuovo centro, con il suo inconfondibile stile.»
Pink magazine

Anna Premoli
È nata nel 1980 in Croazia, vive a Milano dove si è laureata alla Bocconi. Ha lavorato per un lungo periodo per una banca privata, prima di accettare una nuova sfida nel campo degli investimenti finanziari. Ti prego lasciati odiare è stato per mesi ai primi posti nella classifica e ha vinto il Premio Bancarella. Con la Newton Compton ha pubblicato anche Come inciampare nel principe azzurro, Finché amore non ci separi, Tutti i difetti che amo di te, Un giorno perfetto per innamorarsi, L’amore non è mai una cosa semplice, L’importanza di chiamarti amore, È solo una storia d’amore, Un imprevisto chiamato amore, Non ho tempo per amarti, L’amore è sempre in ritardo e Questo amore sarà un disastro. Sono tutti bestseller, tradotti in diversi Paesi. I diritti di Molto amore per nulla sono stati opzionati da una grande casa di produzione cinematografica.
LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2020
ISBN9788822743497
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    Anteprima del libro

    Un imprevisto chiamato amore - Non ho tempo per amarti - L'amore è sempre in ritardo - Anna Premoli

    EN2566_-_Un_imprevisto_chiamato_amore_-_Non_ho_tempo_per_amarti_-_L_amore_e_sempre_in_ritardo_-_anna_premoli.jpg

    Indice

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Un imprevisto chiamato amore

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Epilogo

    Nota dell’autrice

    Colonna sonora

    Ringraziamenti, alias varie ed eventuali

    Non ho tempo per amarti

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Epilogo

    Varie ed eventuali

    Colonna sonora

    L’amore è sempre in ritardo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Epilogo

    Colonna sonora

    Ringraziamenti, varie ed eventuali

    EN2566

    Della stessa autrice

    Ti prego lasciati odiare

    Come inciampare nel principe azzurro

    Finché amore non ci separi

    Tutti i difetti che amo di te

    Un giorno perfetto per innamorarsi

    L’amore non è mai una cosa semplice

    L’importanza di chiamarti amore

    È solo una storia d’amore

    Questo amore sarà un disastro

    Molto amore per nulla

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Un imprevisto chiamato amore

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Non ho tempo per amarti

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    L’amore è sempre in ritardo

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Prima edizione in questa collana: marzo 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4349-7

    www.newtoncompton.com

    Anna Premoli

    Un imprevisto chiamato amore

    Non ho tempo per amarti

    L’amore è sempre in ritardo

    Newton Compton editori

    Un imprevisto chiamato amore

    Per Rox, che finirà con l’invecchiare

    nell’attesa che io scriva la fine del suo romanzo.

    Grazie di cuore di essere sempre la mia prima lettrice.

    «Ti dirò una cosa, Fred, tesoro. Te, per denaro, ti sposerei subito. E tu sposeresti me per denaro?»

    «Immediatamente».

    «Meno male che nessuno dei due è ricco, eh?»

    «Già...».

    Colazione da Tiffany, dal film di Blake Edwards

    Capitolo 1

    Qualche volta è bello essere presa per una balorda.

    Jordan

    Era se non altro comico che il dramma fosse dietro l’angolo, quando finalmente, e dico finalmente , avevo un piano.

    E per la prima volta nella mia vita, perché, in quanto a pianificazione, nessuno nella mia famiglia pareva eccellere particolarmente. Discendo infatti da generazioni e generazioni di gente che si è sempre barcamenata come meglio – o forse sarebbe il caso di dire peggio – poteva, a tal punto che ero piuttosto stupita di essere anche solo riuscita a congegnare un progetto così ben definito. Io. Il fallimento fatto persona.

    Prediamo per esempio la caffetteria: la scelta era stata tutt’altro che casuale. Sì, cercavano una cameriera e sì, io di fatto ero solo capace di fare la cameriera, ma New York è piena di posti dove farsi assumere, se si è vagamente carine. E io non soltanto lo sono, ma in modo piuttosto spudorato.

    Perché non fingo maggiore modestia? Perché la bellezza esteriore è davvero l’unica cosa che possiedo e l’unica su cui ho potuto fare affidamento nella mia vita.

    Come mi ha ripetuto mia madre nei primi anni della sua malattia – quelli che all’epoca consideravo terribili, ma invece erano l’ultima boccata d’ossigeno dal momento che, se non altro, ancora riusciva a riconoscermi – la bellezza è una qualità destinata a svanire da un momento all’altro. Un attimo prima sei la donna più corteggiata e venerata dagli uomini e quello dopo solo una invecchiata male e presto. Pare, infatti, che la cronica mancanza di soldi prima o poi finisca con il segnare anche i lineamenti facciali. E no, non è la penuria di creme costose a base di collagene transgenico, ma le notti trascorse a rigirasi nel letto senza possibilità di chiudere occhio, corrucciando il volto per la preoccupazione. Mia madre, ex reginetta di bellezza e collezionista di corone senza arte né parte, lo sapeva meglio di chiunque altro perché c’era passata. E se mi ha insegnato qualcosa, è che gli uomini si interessano a te solo finché sei giovane e sorridente. Poi conta altro. Altro che nessuno, nella mia famiglia, ha mai avuto.

    Per esempio cervello.

    Oppure soldi.

    Ma sospetto che tra i due ci sia un legame molto stretto e che non sia un caso se nella nostra famiglia non si sia mai visto né l’uno né l’altro.

    Quindi, tornando al mio geniale piano, mi ero appena fatta assumere nella caffetteria di fronte al Presbyterian Weill Cornell Medical Center, luogo di pellegrinaggio di medici di ogni forma, colore e grado, tra un devastante turno e l’altro. Ospedali simili possiedono sempre una caffetteria interna, ma i medici, costretti a trascorrervi già buona parte della loro vita, sentono la necessità di tanto in tanto di fuggire dalle solite quattro mura. Non che vadano lontano, ovvio. Si accontentano di uscire e attraversare la strada. Per loro l’emergenza, si sa, è sempre dietro l’angolo.

    Avevo svolto con sorprendente attenzione la mia ricerca e quindi sapevo che al Presbyterian, uno degli ospedali più grandi del Paese, finivano dottori brillanti usciti per lo più dalla Columbia o dalla Weill Cornell. Per la legge dei grandi numeri, prima o poi ero destinata a incontrare un chirurgo sulla cinquantina o anche sessantina, che fosse alla ricerca di una seconda, terza o quarta moglie, no?

    La parola magica è moglie, perché nella mia vita ho rivestito il ruolo di soggetto non meglio identificato, ragazza, fidanzata e amante di uomini con più o meno capacità. Meno che più, se vogliamo proprio essere sinceri. Ed ero stufa marcia. Marcia come la mela di Biancaneve, con cui per mia sfortuna non condivido alcun tipo di somiglianza: di principi azzurri, sempre che esistano, dalle mie parti se ne sono visti ben pochi.

    Prima o poi la bellezza sarebbe svanita e per allora era fondamentale che io fossi diventata a tutti gli effetti la signora moglie di un uomo molto ricco e rispettato. Anzi, di un medico molto ricco e rispettato.

    Ovviamente avevo preso in considerazione altre professioni, ma nessuna corrispondeva meglio ai miei bisogni di quella medica: i gestori di hedge fund o private equity sono gente completamente fuori controllo, esaltati di adrenalina, bastardi senza scrupoli e con infinite donne ai propri piedi; gli avvocati sono quasi peggio, con la loro capacità di spogliarti di ogni singolo avere in caso di divorzio. Ma i medici… Diciamo che i medici devono possedere o almeno aver posseduto qualche istinto benevolo verso il prossimo nel momento in cui hanno optato per una simile carriera. E poi, detto con grande franchezza, è gente che ha cose ben più importanti da fare che badare alla propria moglie…

    Insomma, professione perfetta. Offro una bellezza accecante e in cambio chiedo solo un po’ di quella sicurezza emotiva che non ho mai avuto. E soldi, perché non si vive di sola aria, nonostante mia madre abbia passato anni a illudersi che fosse possibile. Salvo fallire miseramente.

    Ecco perché, forte della mia meticolosa e insperata programmazione, ero del tutto impreparata al dramma. La vita non si dovrebbe accanire contro chi sguazza già nella melma, no?

    Avevo da poco iniziato il turno delle sei, alzandomi alle quattro e mezzo del mattino, perché il posto che costa di meno è un buco di motel maleodorante e dall’igiene molto, molto discutibile a Coney Island, e raggiungere Manhattan aveva richiesto il suo tempo, quando, letteralmente al secondo caffè servito, ho sentito una fitta di dolore ai limiti del sovrumano sul fianco destro. Mi sono accasciata, praticamente priva di sensi, sul pavimento del locale. L’unica, magra, consolazione era la caraffa di caffè bollente: ho avuto abbastanza presenza di spirito da appoggiarla sul bancone prima di stramazzare peggio di un sacco di patate.

    Quindi eccomi qui, presumo a un passo dal tirare le cuoia, se non già andata. Io, che praticamente non mi sono mai ammalata in vita mia, e proprio ora che avevo un piano degno di questo nome. Voglio dire, devo essere morta per forza e gli angeli devono aver avuto compassione di me perché la testa scura e riccioluta che mi pare di intravedere è così ben proporzionata e così attraente da essere quella di un angelo. Nessun’altra spiegazione possibile. Aveva ragione la nonna, dopotutto, quando blaterava di un mondo ultraterreno…

    «Dove sente dolore?», mi sta chiedendo l’angelo con aria seria. Persino con il volto preoccupato, incarna quella che io definirei una bellezza celestiale.

    Ah, già, il dolore assurdo. Possibile che si senta così tanto male anche in paradiso? «Fianco… destro…», riesco in qualche modo a biascicare a fatica.

    L’angelo mi solleva la camicetta di nylon della mia orrenda divisa marrone – a proposito, se rinasco, devo scambiare due paroline con il proprietario – e inizia a tastarmi con mani esperte il fianco agonizzante. Il dolore, che già prima mi pareva insopportabile, aumenta a dismisura e questa volta non posso fare a meno di urlare. Sinceramente, pensavo che la morte fosse più sopportabile.

    L’angelo torna a sovrastarmi, avvicinandosi a pochi centimetri dal mio volto: ha due occhi così blu, ma così blu, che davvero non posso non notarli.

    Nonostante sia morta.

    Nonostante le mie condizioni non siano proprio ideali. Ma a quelle sono abituata: ho praticato per tutta la vita l’arte dell’arrangiarsi.

    «Ce l’ha un’assicurazione sanitaria degna di questo nome?», mi chiede con espressione allarmata il proprietario degli occhi più blu del paradiso.

    Scoppierei a ridere, se solo ne fossi capace. Mai avuta un’assicurazione sanitaria degna di questo nome in vita mia. Mai nemmeno avuto bisogno di una, a dire il vero. A ventisei anni non ci si aspetta che uno caschi morto il primo giorno di lavoro, no? E, giuro, avevo tutta l’intenzione di rimediare alla mia precaria situazione con il matrimonio, perché non sai mai quando l’Alzheimer precoce può colpire. Il problema è che quando uno ce l’ha, i soldi paiono non bastare mai. Medicare e Medicaid coprono solo una minima fetta delle spese mediche, e solo dopo che ti hanno effettivamente diagnosticato la malattia. Prima ci si trascina, si spera, si prega anche se non si è religiosi.

    Con mia madre relativamente giovane eppure malata, io sono del tutto passata in secondo piano. Anche perché, a quel punto, fossi anche stata capace di trovare in qualche modo i soldi per la sua assicurazione aggiuntiva, l’elenco di quelli disposti ad assicurarla davvero era piuttosto esiguo.

    Facciamo pure zero.

    Sì, sì, negli ultimi anni la legge impedisce alle assicurazioni di negarti la copertura nei casi di malattie diagnosticate prima, ma un conto è la legge e ben altro i fatti. Le assicurazioni – tema su cui sono piuttosto prevenuta, lo confesso – sono bravissime a inserire postille che tu pensi non siano importanti. E invece sono sempre fregature. Pure belle costose.

    E pensare che ho supplicato, che ho sopportato e che sono persino finita a letto con un dirigente di una delle principali compagnie assicurative del Paese. Esperienza da brivido, a proposito.

    Ma no, mia madre non si è mai vista recapitare un preventivo abbordabile perché, cito testualmente, «sarebbe una spesa folle e una scopata, per quanto un’ottima scopata, non vale quel tipo di soldi».

    Ecco, una no, ma infinite speravo proprio di sì. Con un anello luccicante al dito. O anche non luccicante: per quel che mi riguarda avrebbe potuto benissimo essere d’ottone, purché il marito in questione fosse stato un medico molto ricco e importante, avesse abbastanza agganci da sistemare una suocera fuori di testa in qualche struttura di livello e potesse garantirle assistenza sanitaria di prim’ordine. Dopotutto, sono mercenaria, ma con una morale.

    E poi ogni tanto li leggo persino io i giornali, perciò mi ero resa conto benissimo che con il cambio di amministrazione prima o poi sarebbe arrivata una nuova mazzata al sistema sanitario pubblico. E per allora volevo essere bella e sistemata.

    «Signorina, ce l’ha un’assicurazione sanitaria?», mi ripete l’angelo.

    Formalmente? Sì, come tanti altri poveri disgraziati.

    Nella pratica? È probabile che si degnerebbero di coprire una minima parte del costo del mio funerale. O magari mi farebbero cremare, giusto per tagliare le spese. In questo Paese la sanità è pur sempre business, no?

    Io ci provo ad aprire la bocca e rispondergli, ma l’operazione mi costa così tanta fatica che quando finalmente riesco a separare le labbra, mi manca del tutto la forza per emettere anche solo un suono.

    Il secondo dopo è tutto nero. E tutto sommato è molto meglio così.

    «Ehi? È tra noi?», mi chiede sempre la stessa voce.

    Il dolore è scomparso ma il buio permane, forse perché le mie palpebre pesano una tonnellata e aprirle comporterebbe una grande fatica. Uno passa la vita ad alzare e abbassare le palpebre senza nemmeno accorgersene e poi, d’improvviso, tutto cambia e anche l’operazione più banale al mondo ti sembra insormontabile.

    «Signorina Walsh? Mi sente?», insiste.

    Sospiro seccata: è ufficiale, non si può nemmeno morire in pace, di questi tempi.

    «Jordan? Dovrebbe essere sveglia a quest’ora. Potrebbe farmi un cenno, invece di stringere gli occhi?».

    Questa volta la voce è quasi divertita ed è così intrigante, per essere quella di un angelo. A meno che non sia finita all’inferno, cosa che avrebbe anche un senso. Io ho sempre cercato di vivere in modo corretto, ma qualche volta ho dovuto tapparmi il naso. Cause di forza maggiore, sia chiaro. La rettitudine è per gente che ha il pane in tavola.

    Facendomi forza, sollevo prima una palpebra e poi l’altra e rimango a fissare una di quelle classiche lampade da ospedale, che in questo momento è doppia, anzi tripla. Ma che diavolo mi hanno dato?

    Il viso angelico torna sopra di me e sorride. Vedo triplo anche lui, non che sia davvero un problema: è talmente bello che tre visi simili non possono che essere un bene.

    «Sono morta?», chiedo con un filo di voce.

    «Cosa? No!», esclama stupito. «Voglio dire, ci è andata molto vicina, ma io ho una regola», ci tiene a informarmi. Buon per lui. Le regole, che a me sono sempre mancate, mi affascinano più di quanto la gente normale possa comprendere. «Nessuno muore sul mio tavolo operatorio prima delle dieci del mattino. Mi rende di cattivo umore», conclude a effetto. Credo stia cercando di essere spiritoso. O almeno lo spero.

    Ora che la mia vista sta tornando normale e il volto che sto fissando è solo uno, inizio a capirci qualcosa di più: un medico. Non è un angelo, quindi, bensì un dottore. Mai visto un dottore così bello o così giovane. Che sia un prodotto della mia immaginazione?

    «Lei è un dottore, vero?», gli chiedo per scrupolo, non appena mi riprendo.

    Ancora un sorriso da parte sua. Potrebbe produrre elettricità con quel sorriso. «Così dicono…», risponde ironico.

    «Chi lo dice?», incalzo diffidente.

    «Quelli che mi hanno rilasciato il diploma di laurea».

    «Mai visto un medico così bello», replico con una strana ostinazione e un tono vagamente accusatorio. Non che io abbia una grande esperienza con la categoria, a eccezione di quelli frequentati negli ultimi anni a causa di mia madre, ma una cosa è certa: nessuno di loro era attraente. Nemmeno per sbaglio.

    Ai piedi del letto, un’infermiera che mi ha da poco cambiato la flebo, scoppia a ridere. «In effetti l’ho pensato anch’io, dottor Pittman, la prima volta che l’ho incontrata», mi dà ragione.

    Ecco, grazie, mi fa piacere scoprire di non essere l’unica sospettosa.

    I miei occhi scorrono sul camice dell’uomo, che continua a ridere. Sulla sua targhetta è inciso Dr. R. Pittman. Pur con la mente ancora un po’ annebbiata, riesco a elaborare l’informazione e a decidere in pochissimo tempo che il dottor Pittman è decisamente troppo giovane e bello per il mio piano.

    Quindi, scartato.

    Ci ho messo tre secondi secchi. Sono brava a eliminare la gente, a quanto pare.

    «Per sua fortuna, signorina Walsh, la bellezza non è d’impaccio quando si opera. E, prima che vada avanti, la devo avvertire che le abbiamo somministrato degli antidolorifici: è sotto morfina e potrebbe dire cose… sconvenienti. Ma non si preoccupi, io sono il suo medico e mi porterò i suoi segreti nella tomba».

    Lo osservo vagamente terrorizzata.

    «Sì, ha ragione. Tomba è stata una parola infelice, viste le circostanze… Involontario umorismo da medico», si giustifica. Poi passa a osservare il monitor e inizia a scrivere qualcosa sulla cartella che tiene in mano.

    La mia solita fortuna: svenire ai piedi dell’essere umano – per di più medico – esteticamente più appariscente del Paese.

    Lo so bene che le circostanze non sono esattamente ideali, ma sorrido mio malgrado pensando all’aggettivo che ha usato. Sconvenienti. Lui non può saperlo perché per sua fortuna non mi conosce, ma si dà il caso che io abbia detto cose ben più imbarazzanti nella mia vita. Chiaramente anche senza essere drogata.

    «Cosa mi è successo?», mi ricordo finalmente di chiedergli. Sospetto che l’aspetto fisico del dottore al mio fianco mi abbia rimbambito più della morfina che pare mi abbiano somministrato.

    «Attacco acuto di appendicite. Anzi, ormai era peritonite», mi spiega come se questo chiarisse in qualche modo la questione. Lo fisso dubbiosa. «Nel caso non fossimo intervenuti d’urgenza, avrebbe corso un bel rischio», è costretto a specificare, richiudendo per un attimo la cartellina. «Il suo intestino crasso era così malconcio che sospetto sia stata male per giorni e giorni. Possibile che non si sia accorta di niente, prima di accasciarsi ai miei piedi in caffetteria?».

    Ora che mi ci fa pensare, avevo avuto dei dolori. Qualche linea di febbre. Ma ero appena arrivata a New York, avevo un piano e nessuna assicurazione sanitaria seria. In tutta sincerità, non ho nemmeno fatto caso al mio malessere di questi giorni. È così, quando si è poveri. Quello che non uccide fortifica.

    Certo, a meno che non ti uccida sul serio…

    «Uhm, no. Non mi sono accorta di niente», mugugno imbarazzata.

    L’uomo sospira, insicuro su come continuare. «Che tipo di assicurazione sanitaria possiede, signorina Walsh? L’amministrazione lo vorrà sapere, prima di dimetterla domani».

    Ed ecco che il triste momento è arrivato… «Ecco, molto basilare», mi sforzo di pronunciare con apparente calma. «Una di quelle sciocche cose a basso costo che non coprono niente».

    «In che senso, niente?». Il dottore si è incupito, segno che la situazione è grave. Se fossi leggermente più padrona della situazione, la butterei a ridere e gli farei presente che per quelli come me la situazione è sempre grave. Nessun bisogno di preoccuparsi per cose che tanto non si possono risolvere.

    «Credo di ricordare che coprano in parte solo quelli che loro considerano essere i grandi interventi. Maledizione, invece di un’appendicite non poteva venirmi un attacco di cuore? O magari un ictus? Ecco, l’ictus dovrebbe essere coperto». Il dramma è che sto scherzando solo in parte.

    Il dottor Pittman mi scruta a disagio. La mia ilarità non l’ha affatto contagiato. «Dannazione…», mormora e si passa la mano tra quei suoi boccoli neri.

    La bellezza è una delle poche cose di cui mi intendo e questo dottore è senza ombra di dubbio uno degli esseri umani più belli su cui io abbia mai posato gli occhi. Avrebbe potuto fare il modello, o l’attore, o chissà cos’altro, e invece è un dottore. Salva la gente. Persino quella senza valore come me. Si tratta di una scelta che mi incuriosisce. Nel mio mondo, le persone tendono a sfruttare al massimo le carte immediatamente a loro disposizione. La bellezza esteriore è appunto una di quelle.

    Sei attraente? Usalo.

    L’intelligenza, anche la più acuta, richiede comunque impegno.

    Tempo.

    Fatica.

    Diventare un medico comporta anni e anni di università prima e di specializzazione dopo. E per quanto il dottor Pittman trasudi sicurezza e competenza, è semplicemente troppo giovane: sono infatti pronta a scommettere che è ancora uno specializzando o uno che ha finito da poco.

    Le università costano, le carriere da modello no. Io non ci avrei pensato due volte a sfilare, se non fosse che sono piuttosto bassa per l’ambiente – solo un metro e sessantacinque – e che a quelle come me viene offerta solo la possibilità di fare fotografie.

    In biancheria.

    O senza.

    Cosa che ho fatto quando ero più giovane, perché erano soldi facili che sono serviti a pagare le bollette per un po’. Ma ora è arrivato il momento di fare il grande salto e risolvere la questione una volta per tutte. Anche perché un conto era sopravvivere quando dovevo badare solo a me stessa, e ben altro occuparsi di mia madre.

    «Non si deve preoccupare…», cerco di rasserenarlo.

    I suoi occhi intensamente blu si posano su di me. «Può pagare la parcella?».

    Non so a quanto ammonti e preferisco non saperlo. «Be’, no, ma…».

    «La situazione era piuttosto grave», ripete ancora una volta. «Se non avessimo operato in quel momento, sarebbero insorte complicanze molto pericolose. Non c’è stato il tempo di portarla in un ospedale differente…».

    Credo che si stia scusando.

    Per avermi salvato.

    Che razza di mondo è diventato mai questo, se una maledetta assicurazione sancisce chi vive e chi muore?

    «Non si preoccupi, pagherò in qualche modo. Una volta sposata…». È evidente che mi abbiano dato parecchie droghe. E pure belle pesanti. Voglio dire, non è mia abitudine sbandierare in questo modo i miei piani segreti. Ma a questo dottore sto raccontando tutto, come se mi fosse impossibile farne a meno.

    «Ah, si sta per sposare? Auguri!», si congratula, rilassandosi all’istante. «Se mi dà i riferimenti del suo fidanzato, chiedo all’infermiera di farlo chiamare quanto prima. Purtroppo, oltre alle sue generalità, che abbiamo scoperto dal suo datore di lavoro, non abbiamo trovato altro. Nel sistema sanitario non ci sono referenti da contattare in caso di bisogno».

    No, chiaramente. Chi mai posso far chiamare? Mia madre, che nemmeno mi riconosce? Il mio ultimo amante, quello che mi ha fatto trovare le valigie fuori dalla porta dell’appartamento in cui mi teneva nascosta? Ci sono occasioni nella vita in cui uno deve bastare e avanzare a se stesso.

    «Non ho detto di avere un fidanzato», mi sento in dovere di precisare.

    Il medico mi osserva confuso. Chissà che orrore devo essere, in questo preciso istante.

    «Dottor Pittman, se non le serve altro, vado un secondo in infermeria», ci interrompe l’infermiera.

    «Certo, vada pure», la congeda lui. «Stava dicendo, signorina Walsh?». E torna a interessarsi a me.

    «Lo sa che ha gli occhi più blu che io abbia mai visto?», mi sfugge.

    Spero vivamente che le mie dichiarazioni scandalose si fermino agli occhi perché, ora che ci faccio caso, il signor dottore ha un fisico assolutamente statuario. È alto, con due spalle che quasi tirano la stoffa del suo camice. Sarà di certo un esaltato dello sport o qualcosa di simile.

    «È la morfina, signorina Walsh», mi rassicura benevolo.

    No, credo proprio che sia lui. La morfina è solo responsabile del fatto che io stia sorridendo nonostante abbia scoperto di essere stata appena operata, pur non potendomelo assolutamente permettere. «Mi chiami Jordan, la prego. Quando dice signorina Walsh, mi viene da pensare a mia madre».

    «Signorina e non signora?», chiede con tono cortese.

    «Esattamente quello che ho detto. Sono drogata, non pazza», ci tengo a informarlo.

    «Mai sospettato che fosse pazza».

    «Ah, no. Lo ha pensato. Quando ho detto che sto per sposarmi ma non ho un fidanzato», gli ricordo. Non so bene perché stia portando avanti una simile conversazione con un uomo che mi ha appena salvato la vita. Si meriterebbe di essere lasciato in pace, povera anima candida, e non di essere coinvolto nelle mie folli elucubrazioni.

    «In effetti, la storia del fidanzato immaginario mi incuriosisce», ammette.

    «L’avverto: non si tratta di chissà quale storia…».

    «Impossibile. Lei, signorina Walsh, ops, Jordan, ha una di quelle facce che nascondono una storia», mi spiega.

    Nessuno, prima d’ora, mi aveva detto qualcosa di simile. Sono toccata contro il mio stesso volere.

    «E invece no. Niente di interessante. Sono solo una bella ragazza. Punto», mi trovo a insistere.

    Lui mi osserva con un’espressione niente affatto convinta. «Nessuno di noi è solo apparenza. C’è sempre altro, oltre l’esteriorità».

    Non sono mai stata molto brava a discutere di pseudofilosofia, e di certo non mi sento in grado di farlo ora, nella mia precaria posizione. «E francamente dubito di essere granché attraente in un letto di ospedale. Le chiederei di passarmi la borsetta, dottor Pittman, se non fosse che per una volta ho paura di specchiarmi». Io e gli specchi siamo sempre andati d’accordo, ma immagino che ci sia una prima volta per tutto.

    Il medico scoppia a ridere e me la passa comunque, avvicinandosi ulteriormente per aiutarmi a mettermi seduta. Non faccio in tempo ad annusare un buon odore di pulito, probabilmente sapone di qualche tipo, che si è già riappropriato della distanza di sicurezza. Bello e saggio. Davvero, non poteva lasciare un po’ di raziocinio anche a noi altri?

    «Rory», mi dice dopo che mi sono sistemata.

    «Mi scusi?», chiedo un po’ inebetita. Non capisco se sia colpa sua o dell’operazione. Non so nemmeno cosa augurarmi.

    «Mi chiamo Rory. Se lei è Jordan, io sono Rory», mi spiega, azzardando un mezzo sorriso.

    «Ah no, dottor Pittman. Ognuno di noi ha il proprio ruolo, il proprio gradino nella scala sociale, e io ho tutte le intenzioni di rispettare le gerarchie». Così dicendo mi faccio forza e apro la cipria dotata di specchietto. Salvo richiuderla quasi subito con uno scatto deciso. «Oh cielo…», mormoro affranta. Sono verde. Davvero, davvero verde.

    «Cosa c’è? Si sente male?», mi domanda preoccupato.

    «Può dirlo forte e chiaro. Ho un aspetto terribile!», esclamo agitata.

    Il dottor Pittman mi scruta serio. «A costo di svelarle qualcosa di terribilmente ovvio, sono costretto a farle notare che tutti hanno un aspetto terribile dopo un’operazione. Anzi, lei è una delle persone che ne è uscita meglio, se proprio vuole saperlo».

    Non che la cosa mi rassicuri in qualche modo. Io non sono come tutti. Io ho un piano da portare a termine, ora che ho scoperto di non essere morta.

    Scuoto la testa. «Devo fare meglio di così. Decisamente meglio, se voglio sposarmi».

    Sto continuando a frugare nella mia borsetta, in cerca del pettine e del rossetto rosso fuoco – alle bionde platino il rosso sta sempre una favola – quando il suo sguardo penetrante mi costringe a interrompere la ricerca. Le borse di noi donne sembrano sempre senza fondo: mai una volta che si ritrovi qualcosa al primo colpo.

    «Questa storia del matrimonio è vera oppure deriva dal post anestesia?», chiede con espressione buffa.

    «Vera. Nel senso che fa parte del mio programma. Ma per portarlo a compimento devo avere sempre un aspetto impeccabile».

    «Anche in punto di morte?», domanda ironico.

    Sbatto le ciglia confusa. «A scacciare la morte non ci pensa lei?»

    «Oggi sì. Domani chissà…». Mi sta prendendo in giro, sospetto.

    «Niente scherzi. Io non posso morire», affermo seria, tornando ad applicarmi il rossetto.

    «Mi faccia indovinare: prima deve sposarsi», pronuncia con una sottile punta di sarcasmo.

    «Appunto. Vede che ci sta arrivando, pian piano?», gli rispondo a tono.

    «Non so se ridere o piangere, Jordan», mi confessa scuotendo la testa.

    «Rida. In fondo non è lei che dovrà pagare la parcella del mio intervento. A proposito, sa se posso pagare a rate? Le giuro che prendo molto sul serio tutti i miei debiti. Ho solo bisogno che siano piuttosto dilazionati nel tempo».

    Molto, molto dilazionati.

    «Chiederò», mi risponde vago e piuttosto a disagio.

    «Anche perché, nel caso non fosse possibile, potrei pagarvi solo con qualche pezzo del mio corpo. Accettate un rene?», chiedo semiseria.

    Il dottor Pittman si incupisce. Forse non era la battuta giusta da sfoderare di fronte a un chirurgo. «Io le salvo parte dell’intestino e lei vuole subito dar via un rene?»

    «Ne ho due, no?», ribatto come se niente fosse.

    «Qualcuno ne ha uno solo e nemmeno sa di averlo. Lei è certa di averne due?», domanda piccato.

    «Merda! No che non lo so! Sarebbe molto da me non avere merce di scambio…», borbotto. «Lo vede? Il matrimonio è la mia unica salvezza».

    Sono certa che il rigoroso dottor Rory Pittman, salvatore suo malgrado di cameriere con brutte divise in nylon, si sia pentito di essere voluto arrivare in fondo alla questione. Ma ormai si merita di ascoltare tutti i dettagli del mio diabolico piano, in modo che, se mai in futuro gli capitasse un altro caso umano come il mio, si possa sentire autorizzato a tenere le distanze. Chilometriche.

    «Vede, io sono venuta a New York per sposare un dottore. Possibilmente un chirurgo», inizio il mio racconto.

    Il dottor Pittman, chiaramente chirurgo, si ritrae impercettibilmente.

    O forse percettibilmente, ora che ci faccio caso.

    «No, non lei…», lo rassicuro scoppiando a ridere. «Mai uno come lei».

    Sul suo volto compare una buffa espressione. «So che non dovrei chiederlo, ma perché non uno come me?», domanda, curioso suo malgrado.

    «Lei è troppo giovane. Mi faccia indovinare: scommetto che non ha nemmeno finito la specializzazione…».

    Mi osserva sinceramente colpito. «Mi mancano dieci mesi».

    «Appunto. Io pensavo più a un primario. Qualcuno che sia alla ricerca di una terza moglie».

    «Lo dice come se fosse una professione in piena regola», commenta confuso.

    «Ma lo è. I medici di una certa importanza hanno un sacco di eventi da frequentare. Cene da organizzare. Comitati dell’ospedale da tenere buoni. Insomma, hanno bisogno o di una moglie molto capace o di un’assistente valida. In genere la moglie costa meno».

    «Dipende dalla moglie…», mi fa notare.

    «Vero, dipende dalla moglie. Ma io sarò una moglie a basso mantenimento», affermo seria.

    «Senza contare che le ex mogli costano parecchio. Persino quelle a basso mantenimento», aggiunge.

    Ah, il dottor Pittman è cinico! Scoperta interessante, anche se triste. Le persone molto realiste e vagamente ciniche mi mettono sempre a disagio: se avessero ragione loro riguardo a come gira il mondo, vorrebbe dire che non ci sarebbe mai speranza per i casi come il mio. Motivo per cui proprio non mi posso permettere il lusso di frequentare i cinici. Io ho bisogno di illusione alla massima potenza. E comunque il caro dottor Pittman potrebbe vivere meglio, se non fosse affetto da una tale patologia.

    «Vero anche questo. Ma io non ho la minima intenzione di divorziare per fuggire con il maestro di tennis. E nemmeno con l’addestratore di cani, per quanto ora vada parecchio di moda. Sono fermamente decisa a essere una moglie grata, fedele, servizievole. In cambio chiedo poco».

    «Solo di essere la moglie di un primario», commenta cupo.

    «Esatto!». Scelgo volontariamente di non farmi intaccare dal suo tono di condanna. Cosa ne sa un Rory Pittman, a dieci mesi dalla fine della specializzazione in chirurgia in un ospedale come questo, di come ci si sente a essere Jordan Walsh? Si vede lontano un miglio che è in gamba. Non avrà che l’imbarazzo della scelta su dove andare a lavorare.

    «Davvero, si può rilassare. Non sposerei uno come lei nemmeno se avesse venti anni in più e fosse primario».

    «Io sono rilassato. Ma curioso, a questo punto».

    Sì, immaginavo che lo sarebbe stato. È uno di quelli. «Vuole sapere perché non la sposerei nemmeno se fosse nella fase della vita in cui le serve una terza moglie? Dottor Pittman, lei è attraente e intelligente insieme. Combinazione letale, dico davvero».

    «Letale, addirittura?», ride. «Non mi avevano mai accusato di qualcosa di simile».

    «Perché frequenta persone come lei. E fa bene. Ognuno di noi conosce i propri limiti. Io ho tantissimi difetti, ma rispetto sempre i miei limiti. Scrupolosamente».

    «E io che pensavo che la bellezza fisica fosse un vantaggio con l’altro sesso…», commenta sorridendo. Credo di averlo finalmente convinto di avere zero mire sulla sua scintillante e perfetta persona.

    «Come in tutte le cose, esiste anche l’eccesso. Scommetto che qualche volta le piacerebbe essere un po’ meno attraente», interpreto il lieve rossore comparso sulle sue guance. Incredibile ma vero, l’uomo è a disagio quando si parla della sua bellezza. A me non capita mai.

    Mi osserva stupito. «Perché, è anche un suo desiderio?»

    «Ah, no! Io non potrei mai permettermi di essere meno attraente. Vede, è l’unica cosa che ho. E va bene così. Ma per uno che fa il medico l’eccesso di avvenenza potrebbe essere un problema».

    «Qualche volta», mi confessa imbarazzato. «Quindi, ricapitolando, sta cercando un marito. Un medico, un po’ più avanti con gli anni, con una carriera molto avviata», riassume le mie condizioni.

    «E tanti soldi», gli chiarisco bene il concetto. Non vorrei che questo dettaglio gli fosse sfuggito.

    «Mercenaria ma sincera, immagino…», commenta perplesso.

    «Molto sincera. Con lei. Con il primario in questione sospetto di doverlo essere un po’ meno. Il segreto starà tutto nel non farmi operare da lui».

    A questo punto il dottor Pittman scoppia a ridere, del tutto incredulo di fronte alla mia confessione. Ma oggi sono quasi morta per una banale appendicite. Credo proprio di meritarmi qualcosa di forte. Rory Pittman, sospetto, è piuttosto forte.

    «Be’, Jordan, è stato un piacere conoscerla. Ora vado a fare quello che avrei dovuto già finire da tempo, ovvero il mio giro di visite. Poi mi aspettano altre persone da salvare…». Richiude la mia cartella clinica e la rimette al suo posto, ai piedi del letto.

    «Grazie, di tutto», mormoro. Dovrei essere felice che si tolga di torno – in genere farmi visitare mi mette in grande agitazione – e invece non solo provo quasi un senso di delusione, ma arrossisco pure. Io. La ragazza che ormai non si imbarazza di fronte a niente e nessuno. Anche la timidezza, come la vergogna, è solo per chi se la può permettere.

    «Di niente. Parlerò con l’amministrazione. Vedrà che troveremo un modo per saldare la sua fattura. In fondo è colpa mia se non l’abbiamo portata in un ospedale convenzionato con la sua assicurazione», si scusa ancora una volta.

    «La prego, lo sappiamo entrambi che qui la colpa non è di certo la sua». E poi è probabile che un ospedale simile non esista nemmeno. Ma sorvolo su questo piccolo dettaglio.

    «Piuttosto, la prossima volta che sta male, si faccia vedere», si raccomanda.

    «Promesso», gli dico prima di guardarlo uscire dalla mia stanza.

    Una volta sola, sospiro e riprendo in mano il rossetto. E vorrei poter affermare che la mia mano sia poco ferma a causa dell’intervento che ho appena subito, ma temo solo che sia il peso delle preoccupazioni che sto accumulando di giorno in giorno.

    Il giorno seguente sono in piedi, appoggiata al bancone dell’amministrazione, con indosso l’orrida divisa da cameriera con cui mi hanno ricoverato d’urgenza ieri mattina. Le persone normali di solito si fanno portare un cambio per quando escono dall’ospedale, ma io non sono stata normale prima e pare che non lo sarò nemmeno ora che mi hanno asportato un pezzo d’intestino.

    Non mi sento ancora al cento per cento – anzi, non mi sento nemmeno al mio solito cinquanta per cento – ma immagino sia perfettamente comprensibile. Mi hanno consigliato ancora un giorno di degenza, in modo da scongiurare eventuali complicazioni, ma va da sé che mi è del tutto impossibile tergiversare ancora. Non mi rimane che sperare che il dottor Pittman abbia fatto un buon lavoro. Ieri scherzavo, parlando di vendere un rene, ma oggi potrebbe sul serio trasformarsi in realtà.

    «Non siamo del tutto convenzionati con la sua assicurazione, ma abbiamo stretto da poco alcuni accordi», mi informano con un sorriso. «Questo vuol dire che le abbiamo applicato delle tariffe di favore».

    Vuoi vedere che per una volta la fortuna mi ha sorriso?

    Afferro lentamente il foglio e mi faccio forza. Tariffe di favore, no? Quanto vuoi che possa essere questo conto… «Diecimila dollari?», esclamo qualche secondo dopo.

    Oddio, forse, tutto sommato, non mi sento così tanto bene…

    Il dottor Pittman, di passaggio proprio in quel momento lungo il corridoio, mi afferra prima che possa cascare come una pera cotta sul linoleum dell’ospedale. «Jordan, si sente bene?», domanda preoccupato.

    «Sì, sì, tutto bene. È solo…». La bugia è sulla punta della mia lingua, ma per qualche strano motivo non ne vuole sapere di uscirmi di bocca. Deve essere a causa di tutto quello che gli ho raccontato ieri: ormai conosce di me molto più di quanto non sappiano persone che hanno gravitato a lungo nella mia vita. E poi ha visto il mio intestino: sono intimità che ti segnano.

    Così opto per la verità. Ma lo faccio a bassa voce, perché sentirsi poveri è anche questo: vergognarsi perennemente. «Il conto. Credo che dovremo davvero scoprire se sono dotata di due reni…», gli dico cercando di sorridere.

    L’arte del sorriso a comando è una di quelle poche cose che ho coltivato con cura nel corso degli anni. Solitamente porta le persone a sorridermi a loro volta, per quanto grave o brutta sia la realtà.

    Peccato che il dottor Pittman pare faccia parte dell’esigua minoranza di quelli che non solo non ci cascano, ma addirittura si incupiscono.

    Come prima cosa mi aiuta a rimettermi in piedi e poi si avvicina arrabbiato al bancone. «Eliza, non avevamo sistemato la questione della signorina Walsh? Paga a rate, ok?», tuona. Quando vuole, sa essere assolutamente minaccioso.

    Eliza, una signora sulla sessantina piuttosto ingombrante, si avvicina da dietro il bancone e lo osserva confusa. «A rate?»

    «A rate!», le ripete lui, agitato, osservandola intensamente.

    «Ahhh! Certo! A rate!», esclama poco dopo la donna, battendosi la mano sulla tempia, come illuminata sulla via di Damasco.

    Non mi è ben chiaro: si può pagare o no a rate in questo posto?

    «Jordan, in quante rate vorresti suddividere il pagamento?», mi si rivolge il dottor Pittman.

    «Uhm, non so. Si potrebbe fare in trentasei tranche?», chiedo speranzosa, facendo un veloce conto.

    Eliza sgrana gli occhi, chiaramente sconvolta.

    «Certo che si può fare», ribatte lui. «Vero, Eliza?».

    Lei solleva le braccia in segno di resa. «Ah, se va bene a lei…».

    Che posto strano. Medici che concordano i pagamenti con i clienti…

    «Ottimo, grazie», sorrido, davvero felice per la prima volta da quando mi sono svegliata. Trecento dollari è una cifra che posso reggere. Spero. Se non mi succederà qualcos’altro di imprevisto, nel qual caso dirò sul serio ai miei soccorritori di lasciarmi perire sul pavimento. «Su quale conto devo effettuare il pagamento?», mi rivolgo alla donna.

    «Su quale conto deve effettuare il pagamento?», rigira la domanda al mio chirurgo. Che arrossisce, povera anima candida.

    «Le faremo sapere, signorina Walsh. Lasci pure all’amministrazione i suoi riferimenti», risponde a disagio.

    «Davvero? Mi fate andare così? Senza pagare niente?», domando stupita. E io che pensavo che gli ospedali fossero pieni di burocrazia e gente attaccata ai soldi.

    «La facciamo andare così?», ripete ancora Eliza, osservando con notevole intensità il dottor Pittman. È come se tra di loro fosse in corso un dialogo non verbale. Uno a cui non mi è permesso partecipare.

    «E dove vuole che vada? Lavora dall’altra parte della strada, no?», borbotta lui sulla difensiva.

    «Se lo dice lei, dottore», commenta l’impiegata scuotendo la testa. «Signorina Walsh, è ufficialmente dimessa».

    Afferro la mia cartellina medica e ringrazio.

    «Jordan, anche se si sente meglio, dovrebbe concedersi qualche giorno di riposo per riprendersi del tutto», mi consiglia il dottor Pittman, accompagnandomi fino all’uscita.

    «Sì, dovrei», concordo. Passata la gioia per essere riuscita a concordare un pagamento rateale, mi tocca ammettere che la testa mi gira, eccome. Mi sento come una a cui sia passato sopra un camion. Anzi, una betoniera.

    «Ma non lo farà», desume lui.

    È più forte di me, scoppio a ridere, nonostante ci sia ben poco di cui rallegrarsi. «No, non credo».

    «Perché non può».

    «Esatto». Ancora questa fastidiosa tendenza a dirgli la verità.

    «Possibile che non ci sia nessuno che possa darle una mano in questo periodo? Non so, prestarle del denaro?». Quei suoi immensi occhioni blu sono davvero preoccupati per me. Che dolce. È la prima persona che lo fa da un’eternità. Sarà una caratteristica del rapporto medico-paziente: se salvi una vita, poi ti tocca accertarti che vada tutto liscio.

    «No. E no, non lo faccia lei, la prego», lo supplico, intuendo dal suo sguardo che è a due passi dall’offrirsi. La povertà va bene, la pietà no.

    «Veramente…».

    «Dico sul serio. Sono solo una a cui hanno tolto un pezzo di intestino», cerco di scherzarci sopra.

    «Ed è quasi morta», non resiste dal ricordarmi. Solito uomo cinico.

    «La parola magica è quasi, dottor Pittman. Bisogna sempre sforzarsi di vedere il bicchiere mezzo pieno», gli ricordo.

    «Lei è una strana persona, Jordan Walsh», commenta quando ormai siamo arrivati nei pressi dell’uscita.

    «Siamo tutti strani, non si illuda».

    Ci ragiona per qualche momento. «Sì, forse ha ragione».

    «Grazie mille di tutto. Dico davvero. Quando torna in caffetteria, le ciambelle sono offerte da me».

    «Ma io non mangio ciambelle!», esclama mentre lo saluto.

    «Be’, dovrebbe iniziare! Di qualcosa si deve pur morire no?».

    Rory ride e scuote la testa, mentre rientra in ospedale. Già, perché, che io lo voglia o meno, all’improvviso è diventato solo Rory.

    Capitolo 2

    Sì, niente male se ti piacciono gli uomini bruni, belli e appassionati, con l’aria da nababbi e troppi denti.

    Rory

    Cerco di sfuggire allo sguardo di condanna di Eliza, una volta rientrato in ospedale, ma niente da fare. La donna è un vero bulldozer. Si è piazzata davanti al bancone dell’amministrazione, con le braccia appoggiate ai fianchi e un’espressione piuttosto feroce. Si potrebbe quasi pensare che li abbia dovuti sganciare lei quei famosi diecimila dollari.

    «Dottor Pittman!», mi richiama all’ordine, nemmeno fossi un bambino piccolo e lei la maestra autorevole. Voglio dire, la differenza tra di noi deve essere più o meno di trent’anni, ma, ciononostante, io sono un chirurgo e lei lavora nell’amministrazione. Non dovrebbe esistere, non so, una regola per cui quello che dice un chirurgo non si discute e basta?

    «Dottor Pittman!», esclama una seconda volta. Nel caso mi fosse in qualche modo sfuggita la prima. Diciamo che la signora Eliza è piuttosto difficile da ignorare.

    «Sì, Eliza?», le chiedo sfoderando il mio migliore sorriso. Ci metto particolare impegno, date le circostanze.

    «La smetta di abbagliarmi con quel dannato sorriso! Non sono mica nata ieri! Sa quanti uomini attraenti ho visto nella mia vita?»

    «Quanti?», non resisto dal chiederle con una risata.

    «Un numero sufficiente per non farmi imbambolare! Siete una razza da evitare come la peste!».

    «Appunto, perché non mi evita?», le propongo in fretta.

    «Perché ho due paroline da dirle», tuona.

    Oh signore. So benissimo quello che vuole dirmi. Me lo sono detto da solo e l’ho fatto comunque. Perché ogni tanto una buona azione è più importante della prudenza, o della convenienza, o del buon senso. Quindi sì, lo so anche da solo che aver pagato la fattura di Jordan Walsh non è stato granché intelligente, ma non sono proprio riuscito a farne a meno. E la gente senza un dollaro in tasca non dovrebbe trovarsi nella fastidiosa posizione di scegliere se morire o indebitarsi.

    Sia chiaro, io sono tutt’altro che un idealista. Anzi, mi piace vantarmi di avere un legame piuttosto solido con la realtà, ma quando è venuto fuori che Jordan non aveva una sola persona al mondo che potesse venire a soccorrerla, be’, non ho potuto fare altro. Nel suo sguardo c’era, anche se ben nascosto, un non so che di disperato che saprei riconoscere ovunque. Nel mio lavoro si incontra un sacco di gente disperata, ma nel caso di Jordan è scattata una sorta di empatia del tutto involontaria, che lei non ha cercato in alcun modo di sollecitare. Anzi, ha fatto tutto il possibile per sembrare sbruffona e sciocca quanto bastasse per allontanarmi e convincermi a farmi gli affari miei. Immagino che con la maggior parte della gente la sua tattica funzioni anche. Ma si dà il caso che io non faccia parte della maggioranza. Devo ancora decidere se sia un bene o meno, francamente.

    «Ha appena buttato dalla finestra diecimila dollari!», mi ricorda Eliza.

    «Non li ho buttati. Me li ridarà», le rispondo serafico. Non so perché, ma ne sono assolutamente certo. Jordan è il tipo di persona che non si dimentica dei suoi debiti. Chiamiamola pure intuizione.

    «Certo, come no… La ragazza, se è furba, cambierà città. Si può fare la cameriera in qualsiasi parte del globo, lo sa?»

    «Ma lei rimarrà», insisto.

    «Staremo proprio a vedere…», borbotta la donna, per nulla convinta.

    Quello che non posso dirle è che Jordan rimarrà perché ha selezionato con cura questo ospedale e il suo posto di lavoro. Se non altro, rimarrà perché ha un primario da sposare.

    Che ragazza completamente fuori di testa. Di solito le scalatrici sociali e le mogli trofeo sono più discrete. Nascondono piuttosto bene il loro scopo nella vita. Ma non Jordan, che lo ha annunciato in modo così comico da sembrare quasi irreale.

    E invece era seria.

    Dovrei provare un senso di condanna verso chi mira a sposare una persona solo per soldi e status sociale, e invece mi interrogo. Possibile che sia tutto così semplice?

    «E comunque, se vuole riavere i suoi soldi, dovrà dirglielo. Intendo, che ha pagato lei», mi ricorda impietosa.

    «Sì, ecco, a questo proposito…».

    «Anzi, avrebbe già dovuto dirglielo!».

    «Sarei anche dovuto passare dal parrucchiere per tagliare i miei capelli da almeno due settimane, eppure non l’ho fatto».

    «Perché è un vanesio e sa bene di stare maledettamente bene con quei suoi boccoli ridicoli!».

    «Vanesio io? Ma mi ha visto?», mi fingo offeso.

    «Tutti l’hanno vista dottor Pittman. Esattamente come ho visto la sua paziente. Attraente, no?», insinua in modo per nulla velato.

    «E cosa dobbiamo fare? Far morire tutti quelli attraenti?»

    «Lei è molto, molto furbo dottor Pittman», mi accusa.

    «Lo spero bene. Diciamo che mi piace illudermi di esserlo».

    «Ma anche gli uomini furbi sanno fare pazzie per le donne vistosamente attraenti».

    «Non si è trattato della sua bellezza», le rispondo con la massima sincerità.

    Eliza mi osserva per un lungo periodo prima di rispondere. «Sì, è proprio questo il suo problema. Faccia attenzione dottor Pittman, ho visto uomini più corazzati di lei cadere per molto meno».

    «Stia tranquilla, Eliza. In fin dei conti, sono solo diecimila dollari», la rassicuro un’ultima volta e giro l’angolo.

    Peccato che siano diecimila dollari che non mi potevo permettere di spendere.

    Ma va bene così.

    O almeno credo.

    Kristy mi osserva minacciosa da dietro la tazza di caffè bollente, indecisa se uccidermi ora o concedermi del tempo. Per finirmi dopo una lenta sofferenza.

    «In che senso non puoi andare in vacanza?», mi chiede per la millesima volta. Ogni volta che ripete la domanda, la voce le si alza di mezza ottava. Che stia mirando agli ultrasuoni?

    «L’ospedale non è più sicuro di potermi concedere quei giorni di cui abbiamo parlato», provo a mentirle, rigirandomi a disagio sul divano plastificato della caffetteria. Non solo sono brutte le divise dei dipendenti, ma pure il mobilio. L’unico, e quando dico unico intendo davvero unico, motivo per cui questo posto è così tanto frequentato, è per via della quasi ridicola vicinanza all’ospedale. Attraversi la York Avenue e ci sei. Praticamente ci inciampi. I medici sono gente che non può mai perdere tempo, nemmeno in nome di un caffè migliore di questo beverone senza sapore, per cui si accontentano. O fingono di non accorgersi di quanto sia brutto il posto.

    «Se è l’ospedale il problema, chiederò a mio padre. Sai bene che è tanto amico del primario del pronto soccorso e che ti libererà senza fare storie», mi propone Kristy.

    Cerco di rimanere serafico di fronte alla sua idea. Odio la gente che pensa di poter risolvere tutto con le amicizie importanti. La odio anche quando a suggerirlo è la mia ragazza.

    «Grazie, ma faccio volentieri a meno delle interferenze di tuo padre», le ribatto risentito. Lo so che non ho granché diritto, visto che le sto mentendo spudoratamente, ma le raccomandazioni mi irritano.

    «Rory, si tratta solo di una maledetta settimana! Voglio andare al mare! Voglio spaparanzarmi sulla spiaggia e godermi qualche giorno spensierato con te! È chiedere troppo?», domanda teatrale, alzando gli occhi al cielo e mettendo in bella mostra il suo collo da cigno.

    Kristy ci sa fare. Con me e con tutti gli altri. È abituata a ottenere sempre quello che vuole: spinge quando bisogna farlo e si ingrazia le persone quando è più efficace. È in grado di ottimizzare qualsiasi situazione.

    «Mi manca meno di un anno alla fine della specializzazione. E poi andremo dove vorrai», provo a rabbonirla.

    «Ah no! Poi ci saranno le responsabilità, il farsi notare dal primario e così via… Cosa pensi, che sia nata ieri? Ho vissuto con un padre medico, nel caso te ne fossi dimenticato!».

    Il problema di noi medici è che o intrecciamo relazioni con gente che fa il nostro stesso mestiere oppure, se vogliamo evitare di trovarci invischiati con una persona che avrà prima o poi turni del tutto opposti ai nostri, scegliamo comunque persone che gravitano attorno a questo mondo. Per esempio familiari di medici. Perché è una carriera non facile e solo chi ci è passato può in qualche modo sapere a cosa sta andando incontro. E pure quando lo sa, i problemi non mancano.

    «La faremo questa vacanza. Te lo prometto». Se non specifico quando, non è mentire, vero?

    «Io non solo voglio farla! Voglio farla adesso! Ce la siamo meritata! Stiamo insieme da un anno e mezzo e non siamo mai andati da nessuna parte! Dannazione, eri di turno anche per il weekend del quattro luglio!», esplode. Avevo intuito che le avesse dato molto fastidio la storia del mio turno a sorpresa, ma ho preferito non sollevare mai l’argomento. Speravo che si dimenticasse della questione, con il tempo…

    «La gente combina un sacco di sciocchezze il quattro luglio», mi tocca ricordarle. «Il pronto soccorso si riempie sempre di idioti».

    «E tu cambia reparto! Ti hanno chiesto di passare a Chirurgia ricostruttiva o sbaglio?».

    Non dovrei stupirmi che lo sia venuta a sapere. Kristy sa sempre tutto, ha amici ovunque. D’altronde, è una designer e pare che nel mondo del design le relazioni contino più del disegno in sé. Non che mi stupisca, visto quello che va di moda di questi tempi.

    Cerco di contenere in qualche modo il mio orrore di fronte alla sola idea. «Io mi occupo di Chirurgia d’urgenza, non di quella plastica», le rispondo fingendo serenità. Ma sono seccato: mi conosce, o almeno dovrebbe conoscermi.

    Il pronto soccorso è un po’ una vocazione: c’è chi è nato per lavorarci e chi non resisterebbe più di due giorni. Confesso di esserci capitato per puro caso, ma per qualche strano motivo in un ambiente così caotico e imprevedibile riesco a dare il meglio. Senza contare che nessun chirurgo plastico potrà mai avere la stessa soddisfazione che provo io quando salvo una vita. La medicina non è per tutti e anche tra medici, non tutti hanno la stessa vocazione. Ma io ho seguito la mia e non me ne pento, nonostante qualche volta sia così ingombrante da far passare tutto il resto in secondo piano.

    «Un chirurgo d’urgenza che potrebbe benissimo fare quello che vuole. Hai una bella mano, da quello che dice il tuo capo».

    «Io faccio già quello che voglio», le ricordo perentorio.

    Kristy scuote la testa. «Ok, fa’ come diavolo vuoi! Tanto lo fai sempre. Non so nemmeno perché sto sprecando tempo prezioso… Comunque, se per caso la storia della vacanza fosse una questione di soldi e non di impegni, sai che puoi dirmelo. Io non ho problemi a pagare per entrambi. O almeno ad anticiparti la somma».

    Se portassi la cravatta, credo che questo sarebbe il momento ideale per allentarla. Visto che indosso il camice, non mi rimane che aggiustare nervosamente la targhetta.

    «Rory…», intuisce al volo Kristy.

    «Non è una questione di soldi». Almeno, non del tutto.

    «Rory!», esclama una seconda volta.

    Decido, spero saggiamente, di gettare la spugna e raccontarle almeno in parte la verità. «Senti, è un momento complicato: le rate del mio prestito studentesco, i soldi per iscrivere mia sorella all’università…».

    «Che avrebbe potuto benissimo studiare un po’ di più e farsi assegnare una borsa di studio più significativa, come hai fatto anche tu», si inserisce seccata Kristy.

    «Sì, be’, ha avuto due anni difficili. Per come la vedo io, è già un grande risultato che sia entrata in un’università decente e che le abbiano concesso almeno una borsa di studio parziale. E sai che non sarebbe bastata comunque. Ci sono un sacco di spese legate al vitto e alloggio…».

    «Rory, basta. Questa storia della tua famiglia sta diventando un incubo. Te l’ho detto e ripetuto che non puoi sentirti responsabile per tutti. Ognuno di noi deve prima pensare a se stesso, e poi al resto del mondo».

    Questioni di punti di vista, immagino. «Mia sorella non è il resto del mondo».

    «Sorellastra. Non avete una goccia di sangue in comune», mi ricorda.

    Si tratta di una frase così meschina che per un attimo rimango interdetto. Davvero la privazione di una stupida vacanza super lusso alle Hawaii può rendere una persona così cattiva? Non è certo una scoperta che Kristy fosse viziata – figlia unica di un importante ginecologo di Manhattan – ma davvero a tal punto?

    «Io l’ho sempre considerata mia sorella. È questo quello che conta», le ricordo con una certa durezza. Ellen non ha avuto una vita facile: la madre è fuggita quando era piccola e il padre, risposatosi finalmente con mia madre parecchi anni dopo, si è eclissato da un giorno all’altro lasciando lei e il fratello più piccolo con una donna che era la sua matrigna. In piena adolescenza. In un momento piuttosto complicato per chiunque. Immagino che trovarsi abbandonati da due genitori su due possa creare qualche problemino a livello psicologico. Roba per cui cento anni di terapia potrebbero non bastare. Ed Ellen, dopo due anni di rabbia e casini, ha finalmente capito che due genitori idioti non possono e non devono precluderti la possibilità di diventare una persona migliore. Di sognare in grande. Di sperare. Così, grazie anche a me e mia madre, ha cambiato atteggiamento e non senza fatica ha in parte recuperato i suoi voti. Dice di voler diventare un’assistente sociale e aiutare i bambini in difficoltà. È una professione persino più impegnativa di quella di un medico, per quel che mi riguarda, e il minimo, ma proprio il minimo che potessi fare, era aiutarla con le spese per la sua istruzione.

    In realtà l’università di Ellen è qualcosa a cui sto pensando già da tanto tempo e i soldi ci sono e sono da parte, al sicuro. Teoricamente avrebbero dovuto esserci anche per la mia vacanza – quando pianifico, tendo a farlo piuttosto bene – ma poi è capitato un imprevisto. E gli imprevisti sono, per loro stessa definizione, qualcosa che proprio non puoi mettere in conto.

    Pensavo di pentirmene e invece no, sono passati ben tre giorni e sono sempre più convinto di quello che ho fatto. Anche perché io detesto i posti di villeggiatura stile Hawaii, le spiagge disseminate di gente e i cocktail con gli ombrellini. Mai stato uomo da ombrellino, evidentemente. Datemi una birra fredda e farete di me una persona felice.

    E, a proposito delle mie decisioni impreviste… Sollevo la testa dalla mia tazza di caffè in cerca di una testa biondo platino che non potrebbe passare inosservata, se solo fosse qui. Ma non c’è. Per il terzo giorno di fila. Possibile che sia stata male?

    «Mi scusi, Jordan lavora ancora qui?», chiedo a una collega, quando passa a riempirci le tazze di caffè.

    «Sì, lavora ancora. Voglio dire, stava per perdere il lavoro perché pare avesse avuto qualche problema di salute ed era piuttosto lenta nel servizio, ma la ragazza ha supplicato. E sa, quando supplicano quelle come lei…». La donna lascia la frase in sospeso, sollevando ad arte le sopracciglia. Già, Jordan è il tipo di persona che sa come supplicare. Immagino che il suo volto la aiuti parecchio. «Comunque, adesso serve il turno serale. Prende servizio alle sei. A quell’ora si può essere anche meno veloci».

    La ringrazio cortese e torno a concentrarmi su Kristy, che mi fissa sempre più seccata. Dovrei iniziare a fare come Jordan, usare sorrisi e sbattimenti di ciglia per far fare alla gente quello che mi pare e piace.

    «Chi è Jordan?», domanda, ancora seccata per la storia della vacanza.

    «Una paziente. L’ho operata d’urgenza per un’appendicite qualche giorno fa».

    «Ah, interessante…», commenta sibillina.

    Nel suo tono c’è un qualcosa di particolare che non saprei ben definire, che mi porta a chiedere: «Interessante in che senso?»

    «Be’, in genere per te i pazienti non sono davvero persone, più che altro complicazioni mediche. Dici sempre, l’appendicectomia e non il signor John, James o chiunque sia. Perché invece Jordan è Jordan?», mi incastra.

    Già, bella domanda. Forse perché si è portata via, senza neanche saperlo, la mia vacanza? «Tutti i miei pazienti sono esseri umani», ribatto sulla difensiva.

    «Certo. Ma non fai che ripetere di dover tenere il giusto distacco, vista la percentuale di gente che non ce la fa a uscire viva dal pronto soccorso…», insiste ostinata.

    E anche questo è vero. Kristy ha prestato molta più attenzione di quello che avrei mai pensato alle cose che le ho raccontato nel tempo. Perché sono sorpreso di scoprirlo? Non dovrebbe essere normale, in una coppia? Possibile che io stesso, senza quasi rendermene conto, nutrissi nei confronti della mia ragazza dei pregiudizi niente male?

    «Non c’è bisogno di chissà quale distacco in una banale operazione di appendicite, no?». E le sorrido, perché non so bene cos’altro dirle. Sono a corto di idee, geniali o meno. «Senti, perché alle Hawaii non ci vai con la tua amica Louisa?», le propongo all’improvviso.

    Kristy mi osserva prima confusa, poi interessata e infine estatica. «Davvero? Non ti dispiacerebbe?»

    «La cosa che mi dispiacerebbe di più è saperti costretta a rinunciare alla vacanza che sognavi da tempo…». Sono un genio, dico davvero.

    «Be’, se ne sei proprio sicuro sicuro…».

    «Certissimo. Andate e divertitivi».

    Kristy scatta in piedi e, nonostante il grosso tavolo a dividerci, mi afferra per il camice e mi bacia nel bel mezzo di un’affollatissima caffetteria. E non è da lei, ma per una volta è divertente fare finta di essere esattamente il tipo di coppia che si bacia come se niente fosse in mezzo alla gente.

    Nove ore dopo, sono reduce da un massacrante turno in ospedale, trascorso a rimettere insieme pezzi di gente scampata a un tamponamento a catena dagli effetti piuttosto devastanti. Pare che l’autista che ha centrato la prima macchina fosse ubriaco, come nelle migliori tradizioni in episodi simili. Lui si salverà, anche se per il rotto della cuffia, mentre altri non sono stati così fortunati.

    Giornate simili sono capaci di incidere sull’umore dei medici più stoici, a meno che uno non si inventi una valida distrazione. Ecco perché mi trovo ad attraversare la strada senza alcun senso di colpa. Ho avuto una giornata di merda e ho tutto il diritto di controllare con i miei occhi che almeno uno dei miei pazienti sia vivo e vegeto. In più ho fame, perché ho operato senza sosta, e mi mangerei qualsiasi cosa, anche un banale panino servito in un triste bar che funge quasi da distaccamento dell’ospedale.

    Non faccio in tempo a entrare che Ronald, un chirurgo cardiovascolare che conosco bene, avendolo convocato spesso per casi estremi, mi fa segno di accomodarmi di fronte a lui.

    «Giornata complicata?», mi chiede benevolo mentre afferro un menu che ormai potrei recitare a memoria.

    «Diciamo di sì».

    «Hai quella faccia… Dovresti andare a berti qualcosa di più forte che la roba che servono qui».

    «Dovrei», convengo anch’io. «Ma tornerò in servizio tra poche ore. Uno non ha nemmeno il tempo di ubriacarsi a dovere con questo lavoro».

    Ronald scoppia a ridere. «Sì, una discreta vita di merda. Ma pare che salviamo vite…».

    «Già. Così pare».

    «E poi questo posto sarà anche terribile, ma almeno Alfred ha assunto una nuova cameriera. Non ci crederai,

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