Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Emergenza ecologica Alienazione Lavoro
Emergenza ecologica Alienazione Lavoro
Emergenza ecologica Alienazione Lavoro
E-book302 pagine4 ore

Emergenza ecologica Alienazione Lavoro

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il nuovo volume del gruppo di ricerca di “Officine Filosofiche” raccoglie, in una prima parte, quasi tutti gli interventi alla giornata di studi dal titolo Lavoro e alienazione nell’epoca dell’emergenza ecologica (Bologna, 2015), il cui tema era il rapporto fra il tardo capitalismo neoliberale in cui viviamo, la tematica ecologica e il pensiero critico. In una serie di densi saggi tale rapporto viene approfondito da molteplici punti di vista: la storia dello sviluppo capitalistico e l’irriducibilità, che dalla sua analisi risulta, di alcuni presupposti naturali; la questione dell’impresa alla luce di alcuni fondamentali paradigmi foucaultiani, e in particolare di quello di dispositivo; la questione della nuova economia dei freelance associando le prospettive “comunitarie” di Gorz ad alcune tematiche benjaminiane; l’individuazione del modello specificamente occidentale di una temporalità evolutiva, matrice della distruzione di ogni limite natural-spaziale; l’attualità della riproposta che Merleau-Ponty fece del concetto di natura alla fine degli anni Cinquanta; il tentativo di una ridefinizione della soggettività in senso ecologico facendo leva sul paradigma del gioco; la questione del legame fra lavoro, corpo e mano, sulle tracce degli studi di Sennett sull’artigianato.
Una seconda parte del volume è aperta da un’intervista, curata da Prisca Amoroso, a Ted Toadvine, uno dei massimi studiosi del tema della natura in Merleau-Ponty e del suo rapporto con l’ecologia; seguono una serie di saggi che sono strettamente legati ai lavori precedenti: dal Post-human in rapporto al concetto di mimesis, ai temi principali della riflessione di Silvano Petrosino, ai fondamenti epistemologici della biopolitica di Agamben e Esposito, a alcuni aspetti antropologico-sociologici del mondo finanziario. 

Con un'intervista a Ted Toadvine a cura di Prisca Amoroso

A cura di Manlio Iofrida
Gli autori: Prisca Amoroso, Silvano Cacciari, Gianluca De Fazio, Ubaldo Fadini, Glenda Franchin, Stéphane Haber, Manlio Iofrida, Francesco Marchesi, Roberto Marchesini, Luca Paltrinieri, Igor Pelgreffi, Stefano Righetti, Ted Toadvine
LinguaItaliano
Data di uscita27 giu 2017
ISBN9788870007558
Emergenza ecologica Alienazione Lavoro

Correlato a Emergenza ecologica Alienazione Lavoro

Titoli di questa serie (4)

Visualizza altri

Ebook correlati

Filosofia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Emergenza ecologica Alienazione Lavoro

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Emergenza ecologica Alienazione Lavoro - Officine Filosofiche

    OFFICINE FILOSOFICHE

    Officine Filosofiche è una collana in cui vengono pubblicati i lavori del gruppo di ricerca omonimo, attivo a Bologna dal 2008 e composto da studiosi di varie Università e discipline e da studiosi indipendenti. I temi di ricerca su cui il gruppo si muove sono dati dalla convergenza fra due tradizioni filosofiche in genere fra loro separate: da un lato quella della filosofia francese contemporanea, a partire da Sartre e Merleau-Ponty fino a Deleuze e Foucault; dall’altro, i filoni tedeschi della Scuola di Francoforte (Adorno e Benjamin specialmente) e dell’antropologia filosofica (Scheler, Gehlen, Plessner); sullo sfondo, anche il riferimento ad alcune correnti della tradizione marxista (marxismo esistenzialistico, tradizione operaista). Questo insieme di riferimenti si concentra in particolare sui temi dell’ecologia e della tecnica.

    3

    © STEM Mucchi Editore s.r.l.

    Via Emilia Est, 1741 - 41122 Modena

    www.mucchieditore.it

    info@mucchieditore.it

    facebook.com/mucchieditore

    twitter.com/mucchieditore

    instagram.com/mucchi_editore

    Edizione digitale: giugno 2017

    Produzione digitale: Mucchi Editore

    ISBN: 9788870007558

    OFFICINE FILOSOFICHE

    Collana di filosofia

    Coordinamento scientifico:

    Manlio Iofrida, Stefano Berni, Ubaldo Fadini, Stefano Righetti

    Comitato di redazione:

    Prisca Amoroso, Andrea Angelini, Silvano Cacciari, Gianluca De Fazio, Marco Della Greca, Alessandro Dondi, Ivano Gorzanelli, Claudia Landolfi, Francesco Marchesi, Diego Melegari, Igor Pelgreffi, Katia Rossi, Andrea Sartini, Matteo Villa, Caterina Zanfi

    Segreteria di redazione:

    Prisca Amoroso, Andrea Angelini, Gianluca De Fazio, Alessandro Dondi, Marco Tronconi

    Direttore:

    Manlio Iofrida

    Università di Bologna, Dipartimento di Filosofia, via Zamboni, 38 – 40126 – Bologna

    e-mail: manlio.iofrida@unibo.it

    www.officinefilosofiche.it

    Indice

    Collana

    Colophon

    Comitato

    Frontespio

    PARTE PRIMA

    Presentazione di Manlio Iofrida

    Storia del capitalismo, storia dei rapporti con l'ambiente naturale - Stéphane Haber

    L'impresa e la filosofia politica. Verso un approccio genealogico - Luca Paltrinieri

    Lavoro micropolitico. Trame di esistenza e di autonomia nella società della conoscenza - Ubaldo Fadini

    La natura come limite nell'evoluzione tecnica - Stefano Righetti

    È ancora attuale oggi il concetto di natura di Merleau-Ponty? - Manlio Iofrida

    Etica e gioco: per una soggettività ecologica nella filosofia di Merleau-Ponty - Prisca Amoroso, Gianluca De Fazio

    Qualità artigianale del lavoro. Elementi per un’antropologia filosofica in Richard Sennett - Igor Pelgreffi

    PARTE SECONDA

    Nota introduttiva all’intervista a Ted Toadvine - Prisca Amoroso

    Qualche domanda a Ted Toadvine - intervista a cura di Prisca Amoroso

    Mimesis. L’eterospecifico come epifania ontopoietica - Roberto Marchesini

    Curvature del desiderio. Sul pensiero antropologico di Silvano Petrosino - Glenda Franchin

    Origine e struttura nel pensiero contemporaneo della biopolitica - Francesco Marchesi

    Visione, sogno, guerra: gruppi tribali finanziari - Silvano Cacciari

    Parte Prima

    Manlio Iofrida

    Presentazione

    Il nuovo volume che il gruppo di Officine Filosofiche presenta (il terzo della serie, frutto di un lavoro di ricerca che ormai dura da quasi un decennio) è, per i suoi contenuti, in stretta continuità col precedente, che aveva per titolo Ecologia, esistenza, lavoro. In una prima parte, sono raccolti quasi tutti gli interventi alla giornata di studi che si è tenuta a Bologna nel Maggio del 2015 e che aveva come titolo Lavoro e alienazione nell’epoca dell’emergenza ecologica; il tema dei lavori era costituito dal rapporto fra capitalismo, tematica ecologica e pensiero critico e si proponeva di riprendere il filo di un discorso critico e storico sulla società capitalistica e, in particolare, sul tardo capitalismo neoliberale in cui viviamo.

    Nel saggio di Stéphane Haber la questione viene ricostruita a partire dal classico testo di O’Connor su marxismo e ecologismo, di cui Haber rileva il limite di un eccesso di ortodossia; come molte altre teorie sociali che sopravvalutano l’autonomia e la consistenza dell’ordine sociale, la visione di O’Connor ha portato alla rimozione di due temi del pensiero europeo classico: la questione delle determinanti geografiche della storia e l’idea che le società umane vanno incontro a dei processi di corruzione, o addirittura di crollo. È a partire da questi temi, che entrambi pongono al centro il problema della natura, che, per Haber, deve essere ripensato oggi il problema del rapporto capitalismo-ecologia. Per un lato, si tratta di tornare a riflettere sulla varietà geografica e storica del capitalismo; per l’altro, di ripensare quella medesima storia a partire dal ruolo che in essa hanno avuto i fattori contingenti, in modo da far emergere il ruolo attivo e irriducibile, e non di mero mezzo di produzione, del fattore naturale. Attraverso il richiamo a temi classici, come quelli dei limiti geografici della culturalizzazione e della precarietà e fragilità delle formazioni sociali, si riapre così il discorso critico sulla storicità e pluralità del fenomeno del capitalismo.

    Il saggio di Luca Paltrinieri è un’originale applicazione del metodo genealogico foucaultiano al problema dell’impresa: l’autore mette in rilievo come quest’entità manchi di essere problematizzata dalla filosofia politica, ma anche dalle altre discipline, in specie quelle economiche e sociologiche. Il centro del discorso di Paltrinieri è l’individuazione, nell’impresa, di due forme di razionalità eterogenee, conflittuali ma non incompatibili: la prima è quella dello scambio e del mercato, che è una logica individualistica, esemplarmente rappresentata dalla figura schumpeteriana dell’imprenditore, la seconda è quella dell’efficienza aziendale, che ha il suo punto di riferimento nel management, e che tende alla strutturazione gerarchica, ma anche alla creazione di una vera e propria socialità. L’innesto fra queste due diverse ragioni, la cui contraddittorietà è intensificata dalla finanziarizzazione, costituisce un vero e proprio dispositivo nel senso foucaultiano del termine: la sua messa a fuoco è fondamentale per poterne operare la storicizzazione, ovvero la critica.

    Ubaldo Fadini si sofferma invece, nel suo saggio, su freelance e figure affini, leggendo questi fenomeni in un’ottica cooperativa e sottolineando l’importanza che, a questo scopo, hanno le nuove tecnologie. Sviluppando la tematica, che gli è cara, della mutazione antropologica indotta da queste ultime, Fadini mette in rilievo l’impatto ecologico che il coworking può avere in funzione di una rivalorizzazione dei territori. Egli evidenzia la compresenza, in tali nuove pratiche, di una dimensione comunitaria, critica della tradizionale organizzazione gerarchica del lavoro, che permette di guardare in modo nuovo allo statuto del lavoro autonomo, tradizionalmente confinato alla dimensione individualistica; e di un lato affaristico, che le possono far assorbire senza problemi nel sistema capitalistico. Fadini conclude associando le prospettive aperte da Gorz sull’economia della conoscenza come economia della messa in comune e della gratuità alla tematica benjaminiana di una nuova soggettività prodotta dal combinarsi della fisicità corporea con le nuove tecnologie (una linea che egli ha di recente originalmente sviluppato nel suo saggio Divenire corpo¹).

    Stefano Righetti sottolinea vigorosamente come un’impostazione ecologica del rapporto produzione-natura debba essere riportata con radicalità al modello specifico che, da secoli, domina nella nostra cultura: quello di una temporalità evolutiva distruttiva di ogni limite natural-spaziale: solo partendo da questa specificità del modello occidentale si potrà cogliere quanto sia urgente e storicamente specifica l’attuale emergenza ecologica. Che la cultura sia vista come potenziamento della natura o che implichi la funzionalizzazione della vita a ciò che è utile all’economia, l’aspetto di alterità assoluta della natura viene da quasi tutte le visioni occidentali rimosso e la natura stessa vista come mera risorsa produttiva. In una prospettiva coerentemente ecologica va invece valorizzato non tanto un astratto concetto di natura, ma quel momento dell’ambiente della vita che costituisce il vero limite dell’attività culturalizzante. Al principio unico della produzione, che vige nel capitalismo attuale, e alla produzione come agire potenzialmente illimitato, si deve opporre l’imprescindibile materialità di un sistema biologico e ambientale improvvisamente limitati e vulnerabili, temi per i quali Righetti sottolinea l’attualità del richiamo a Marcuse.

    Nel mio saggio cerco di ritrovare il senso e l’attualità della riproposta che Merleau-Ponty fece del concetto di natura alla fine degli anni Cinquanta, in primo luogo ricostruendone il contesto storico-politico, in secondo luogo approfondendone alcuni aspetti teorici, che sono legati a un nucleo assai complesso di concetti – Stiftung, natura-cultura, Kultur-Zivilisation – che comportano il riconoscimento di un’attività propria della natura, la consapevolezza del rapporto reciproco di attività e passività che ci lega ad essa e l’esigenza di pensare quel suolo della nostra attività che ha, come immediata conseguenza pratica, la necessità di rispettare la modalità in cui il nostro corpo si rapporta al mondo ad esso circostante: contro ogni concezione della tecnologizzazione integrale del corpo, si rivendica l’irriducibilità del vivente alla tecnica.

    Nel loro saggio, Prisca Amoroso e Gianluca De Fazio puntano a una ridefinizione della soggettività in senso ecologico facendo leva sul tema del gioco: tale paradigma, che è per vari aspetti riportabile alla tematica fenomenologica e poi ontologica di Merleau-Ponty, viene approfondito riferendosi ad alcune zone dei corsi sulla Natura, in particolare a quelli dedicati dal filosofo al mimetismo animale; su un piano più teoretico, esso viene collegato alla tematica dell’improvvisazione, che permette di arrivare a una concezione del soggetto che è un continuo farsi a contatto con l’ambiente: esso è dunque, in una dimensione di praktognosia, un contingente divenire-individuo, una singolarità – dicono gli autori, con evidenti assonanze deleuziane – di quell’Essere univoco che è il campo ontologico.

    Il saggio di Igor Pelgreffi, riprendendo il filo della questione cooperativa, presente nel saggio di Paltrinieri, Fadini e altri, approfondisce la questione del legame fra lavoro, corpo e mano, sulle tracce degli studi di Sennett sull’artigianato. Il centro del suo discorso è dato dal tema della passività e dell’automatismo, che si accoppia, senza contraddirlo, al momento della libertà e della novità; ma la mano artigianale va anche valutata dal punto di vista del suo inserirsi in modo ecologico nell’ambiente che la circonda, obbedendogli e trasformandolo al tempo stesso, e configurando quindi una vera e propria tecnica ecologica. A partire da qui possiamo ripensare la soggettività: facendo leva anch’egli sul concetto di limite, Pelgreffi insiste sia sull’esigenza che il soggetto, nello spostare i confini rispetto alla natura, se ne lasci nello stesso tempo riconfinare, sia sul fatto che lavorare significa anche istituire una relazione con gli altri che ha le stesse caratteristiche di irriducibilità e di limite: "tra corpo singolare e corpo sociale – dice l’autore – va colta sempre la possibilità di una risonanza." La conclusione è che la questione dell’artigianato ripropone la centralità del momento della produzione.

    La seconda parte del volume si apre con un’intervista, curata da Prisca Amoroso, a Ted Toadvine, uno dei massimi studiosi del tema della natura in Merleau-Ponty, che, fra l'altro, in alcuni cenni autobiografici, riallaccia tale tema all’esperienza tutta americana della wilderness. Segue quindi una serie di saggi che sono strettamente legati alle tematiche dei lavori precedenti: Roberto Marchesini, vero fondatore, a livello internazionale, della tematica del Post-human, approfondisce e sviluppa tale tematica in relazione a un concetto-chiave della filosofia e dell’estetica classiche, quello di mimesis: se inteso nella sua reale portata, esso è in grado di sconfessare l’autoreferenzialità identitaria tipica dell’umanesimo occidentale e di evidenziare la dimensione essenzialmente relazionale che lega la nostra specie a quelle animali, trascinandola fuori dai propri confini in un processo di incessante ibridazione. Particolare rilievo e originalità, in questo quadro, assumono le considerazioni di Marchesini sull’estensione del processo mimetico alla tecnologia: egli sottolinea come la fascinazione verso quest’ultima, così accentuatasi con la società industriale, non vada confusa col mito salvifico della tecnopoiesi, come in tanta parte della letteratura odierna sul posthuman, e segnatamente in Sloterdijk e Fukuyama, si verifica, ma vada letta sul modello di una mimesi che comporta che la corporeità umana non annulli del tutto la propria specificità, ma sviluppi, attraverso l’ibridazione col tecnologico, delle potenzialità proprie, istituendo così una relazione dialogica, e non prometeica, fra uomo, mondo e macchina.

    Il saggio di Glenda Franchin, che è collegato a una recente iniziativa di Officine Filosofiche, l’incontro-dibattito con Silvano Petrosino, dedicato alla discussione del suo lavoro teoretico e filosofico-politico, enuclea i temi principali della riflessione del filosofo milanese – la sua riflessione sul soggetto e sulla costitutiva mancanza che lo abita, la dinamica del bisogno e del desiderio, le linee di una vera e propria antropologia filosofica che ha il suo centro nei momenti del guardare, del parlare e dell’abitare. Su queste basi, Petrosino valorizza, come alternativa e correttivo dello sfrenato consumismo capitalistico, l’abbandonarsi, l’arrendersi, il consegnarsi all’altro, l’abitare e, infine, quel tempo del sì e dell’assenso in cui si congiungono il messaggio di Nietzsche e quello di Camus.

    Francesco Marchesi ritorna sui fondamenti epistemologici della biopolitica, in particolare di quella, recentissima, italiana, di Agamben e Esposito, mettendo in rilievo l’immediatezza del nesso politica-vita e l’abbandono di una dimensione relazionale che le accomuna, non senza aprire seri interrogativi su tali paradigmi. Silvano Cacciari concentra invece la sua attenzione sul mondo finanziario e ne mette a fuoco le modalità relazionali, le dimensioni conflittuali e il loro rapportarsi a delle tecniche specifiche (ad esempio il telefono): siamo di fronte a dei veri e propri fenomeni di ibridazione tecnologica e al contaminarsi di realtà e visionarietà; punto di arrivo di queste complesse interazioni sociotecniche è il costituirsi di veri e propri gruppi neotribali, che impongono di pensare a una vera e propria mutazione antropologica, nonché alla cifra di un dominio neotribale finanziario sugli stati e sulla società.

    manlio.iofrida@unibo.it


    1 Divenire corpo. Soggetti, ecologie, micropolitiche, Ombre Corte, Verona, 2015.

    Stéphane Haber

    Storia del capitalismo, storia dei rapporti con l’ambiente naturale

    Un un testo del 1988, che è diventato subito un punto di riferimento obbligato, James O’Connor tentava di avvicinare teoricamente marxismo ed ecologismo¹. Il cuore del marxismo, egli dice, è la tesi storica secondo la quale le «forze produttive» entrano, a un certo momento del loro sviluppo, in contraddizione con i «rapporti di produzione», aprendo un periodo di crisi e trasformazioni di vasta portata. Ciò significa che, quando, in seguito a progressi graduali o a invenzioni tecniche decisive, il lavoro umano conosce una serie di mutazioni qualitative e quantitative (che vanno nel senso dell’accrescimento della produttività del lavoro), si attua una nuova distribuzione della ricchezza e del potere. Essa rende anacronistico il sistema di dominazione sociale in vigore, ma anche l’insieme delle sue componenti giuridiche, politiche e culturali.

    Ora, spiega O’Connor, questa tesi viene messa in questione dalla coscienza ecologica contemporanea. Giacché questa, se ben compresa, ci invita a parlare di una «seconda contraddizione del capitalismo». Questa contraddizione è quella che esiste tra le condizioni oggettive della riproduzione del sistema socio-economico e le condizioni soggettive della riproduzione della forza lavoro. Di che si tratta? Chiaramente, O’Connor insiste sull’importanza nuova dell’inquinamento dell’ambiente legato allo sviluppo industriale della seconda metà del ventesimo secolo. Il capitalismo, a maggior ragione il capitalismo flessibile e creativo, ha bisogno di lavoratori (e anche di consumatori) in buona salute, cioè produttivi; ma nello stesso tempo, mosso dalla propria dinamica incontrollata, fa a quanto pare di tutto per rovinare questa salute, estendendo, per via dell’inquinamento, il suo potenziale di nocività al di là dei limiti dell’officina e della fabbrica, rendendola così più visibile. Il supersfruttamento dei suoli e l’inefficienza crescente degli ambienti urbani, che minacciano i profitti capitalisti, costituiscono dei prolungamenti di questa contraddizione paradigmatica che passa innanzitutto per i corpi malati. La seconda contraddizione del capitalismo risulta dunque dal fatto che, saccheggiando, inquinando, deteriorando sempre più sistematicamente, questo si complica il suo proprio compito per l’avvenire.

    Nel 1988, O’Connor sottolineava che questa tendenza ha una conseguenza antidemocratica e autoritaria che la rende accessibile a una critica razionale: l’apparato statale, cosciente dei problemi nuovi che si pongono, interviene sempre più massicciamente nella vita dell’individuo per curarlo, prenderselo in carico, incitarlo normativamente a adottare le buone condotte nel contesto creato da ambienti degradati e dal proliferare dei rischi. Nello stesso modo, esso deve riparare, disinquinare, compensare i costi del deterioramento, in breve, assicurare le condizioni di redditività. Dal punto di vista del capitale, lo Stato costa dunque sempre più caro (O’Connor, negli anni ’70, fu uno di coloro che teorizzarono con più precisione la «crisi fiscale dello Stato» keynesiano), pesando sui profitti. Dal punto di vista della società civile, ci si trova presi in una morsa tra il mercato e lo Stato, i cui eccessi si alimentano reciprocamente. La socializzazione del rapporto alla natura, in sé stessa desiderabile, prende allora una forma spiacevole.

    Discutere la tesi della «seconda contraddizione»

    Quali obiezioni sono state rivolte all’impostazione di O’Connor?

    1. Innanzitutto, a distanza di anni, è facile vedere che James O’Connor non ha previsto che la seconda contraddizione poteva essere superata delegando largamente al mercato il compito di compensare i rischi, di riparare i danni, di responsabilizzare gli individui e le imprese, di adottare il linguaggio dello «sviluppo durevole». Associata all’indebitamento, questa tecnica ha permesso di evitare, almeno temporaneamente, l’aggravamento della «crisi fiscale» prevista dall’economista americano. Il momento neoliberale ha esattamente per carattere e forse anche come origine la tendenza del capitalismo a correggere a suo profitto una parte delle sue proprie nocività e a rendere redditizi i diversi rischi che esso fa correre alla società.

    2. In secondo luogo, l’impostazione di O’Connor è rimasta inutilmente ortodossa. Così, John Bellamy Foster², pur mantenendo l’ancoraggio a Marx, gli ha rimproverato di restare insensibile alle voci radicali che spingono proprio a rimettere in causa direttamente il produttivismo e l’antropocentrismo. Foster preconizza l’integrazione del marxismo nel seno di un ecologismo radicale, di ispirazione geocentrica, biocentrica e mirante alla decrescita. L’idea di una «socializzazione» dell’attività e della natura, in ogni caso troppo vaga, non costituisce più una prospettiva attraente e sufficiente. Ormai è nell’attenzione agli equilibri ecologici (anche se Foster non si spinge fino a parlare di doveri verso gli animali e l’ecosistema) che la critica del capitalismo deve trovare il suo centro di gravità, senza il soccorso dello storicismo e dell’economicismo che caratterizzavano il marxismo tradizionale.

    3. Infine, O’Connor sottovaluta la portata teorica della nuova coscienza ambientale dal punto di vista della teoria del capitalismo. Così, c’è certamente in lui una tendenza a sopravvalutare l’autonomia del capitalismo, nel senso di un sistema coerente, forte, dai contorni e dal funzionamento netti, e sul quale, di conseguenza, si può ottenere una visione panoramica ponendosi comodamente a quel livello di teorizzazione che è la teoria economica moderna. La difficoltà principale di un tale presupposto è che esso ha una naturale ripugnanza a riconoscere le dipendenze ambientali del capitalismo. In modo generale, si può dire che tutte le teorie sociali che sopravvalutano l’autonomia e la consistenza dell’ordine sociale (è il caso della maggior parte delle teorie economiche moderne e del marxismo di O’Connor) hanno preso il posto delle filosofie del Progresso; esse sono state dei tentativi di rimuovere due temi storici del pensiero europeo classico che risalgono all’Antichità: da una parte, le attività umane dipendono profondamente dalle condizioni geografiche che le limitano e le modellano, d’altra parte, le società umane, più fragili di quanto non sembri, sono soggette a dei processi di corruzione, o addirittura di crollo. Ora, mi sembra che questi due temi venerabili, di ispirazione naturalista (poiché si tratta di reinserire ogni volta la vita sociale nell’ordine generale delle cose e della Natura), permettano, in modo più convincente di quanto non permetta il motivo ortodosso della «contraddizione», di stabilire un nesso tra teoria del capitalismo e questione ambientale. Discuterò questi due temi l’uno dopo l’altro.

    Ripensare la teoria delle fasi: il primato dei rapporti con l’ambiente

    Come periodizzare la storia del capitalismo? Attualmente, negli autori che si richiamano positivamente a Marx, i modelli storiografici dominanti sembrano essere due. Il modello delle «fasi» cerca di identificare un certo numero di momenti singolari. Si avrebbe, per esempio, un capitalismo «liberale», al quale succederebbe un capitalismo «fordista-keynesiano», poi uno «neoliberale». Il modello dei «cicli» (Kondratieff, Mendel, Arrighi), che ha il vantaggio di integrare meglio il tema della crisi, è un po’ differente. Si tratta qui di mostrare che la storia del capitalismo è scandita da sequenze nelle quali si ritrova, ogni volta, una crescita di potenza (quella di un’espansione economica, di un’innovazione tecnica, di un egemon geopolitico) seguita da un declino.

    Analizzando la storia del capitalismo, le teorie delle fasi e dei cicli hanno avuto dunque la tendenza a prestare attenzione esclusivamente alle istituzioni politiche, all’organizzazione del lavoro e agli scambi, così come ai rapporti di classe. Questo orientamento si riallaccia allo spirito di alcuni testi di Marx secondo i quali il capitalismo maturo tende a funzionare in un circuito chiuso. Marx dice letteralmente che esso «produce», oltre alle merci, le condizioni necessarie e sufficienti della sua autoriproduzione sociale. Ecco perché, ad esempio, i teorici marxisti dell’imperialismo non hanno accordato un’importanza cruciale all’accaparramento coloniale delle terre e delle risorse: si trattava ancora essenzialmente di sbocchi commerciali e di investimenti produttivi. In un certo modo, le nostre abitudini linguistiche e intellettuali più comuni hanno seguito questa via. Quando parliamo di capitalismo «commerciale» per evocare alcuni aspetti della prima modernità europea, è un sistema economico, in cui lo schiavismo e la piantagione giocano un ruolo importante, che occultiamo. Occultiamo il fatto che la prima modernità occidentale ha preso la forma di un’espansione geografica e di un progresso tecnico che hanno disegnato insieme un nuovo modello di appropriazione della natura che la rivoluzione industriale britannica non ha fatto probabilmente che prolungare. Quando parliamo di capitalismo «fordista» o «keynesiano», esageriamo l’importanza della potenza organizzativa dell’impresa e dello Stato a detrimento che ciò che lo rendeva possibile: l’accesso alle nuove risorse energetiche. Quando parliamo di capitalismo «neoliberale», distogliamo lo sguardo troppo velocemente da una configurazione molto speciale che associa la radicalizzazione nello sfruttamento e l’accaparramento di determinate risorse naturali, tentativi di integrazione redditizia dei vincoli ambientali e progressi in direzione di una produzione tecnica della vita stessa.

    Mi sembra che la correzione di queste rimozioni implichi un serio momento descrittivo, e non solamente la produzione di un grande concetto sintetico («seconda contraddizione»): ci sono innanzitutto dei fatti e delle pratiche. Quali sono, in un dato momento e in un territorio dato, le condizioni e le risorse naturali privilegiate? Come si sfrutta la terra, la materia, il corpo vivente e il vivente? Con quali vincoli e a spese di quali popolazioni? Come si effettua l’appropriazione e l’espropriazione dei beni comuni naturali? Come si trasformano i materiali e i beni? Come li si trasporta e li si immagazzina? Come, tenuto conto dell’impatto delle attività legate al capitalismo, nuovi equilibri ecosistemici e nuovi processi fisici derivano dalle attività umane? Quali sono le conoscenze e le tecniche mobilitate, con quali squilibri, quali sprechi, quali saccheggi, quali inquinamenti? Poiché le risposte a queste domande aiutano a precisare i contorni di certe forme generali, si può dire che

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1