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I cento metri: Storie, leggende e protagonisti di 100 sprint da ricordare
I cento metri: Storie, leggende e protagonisti di 100 sprint da ricordare
I cento metri: Storie, leggende e protagonisti di 100 sprint da ricordare
E-book410 pagine5 ore

I cento metri: Storie, leggende e protagonisti di 100 sprint da ricordare

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Info su questo ebook

I 100 metri, nell’immaginario collettivo, rappresentano la gara regina dell’atletica, il paradigma perfetto di ciò che questo sport è in grado di sviluppare in fatto di emozioni e conoscenze tecniche. In questo libro si raccontano i cento 100 metri più significativi a partire dal 1896, anno dei primi Giochi olimpici della storia moderna: da Thomas Burke, che inaugurò la nuova era, a Harold Abrahams, reso immortale dal film Momenti di gloria; dal formidabile Jesse Owens, l’afroamericano che fece infuriare Hitler, ai più contemporanei e mediatici Carl Lewis, Usain Bolt e Marcell Jacobs, l’uomo che ci ha fatto sgranare gli occhi all’Olimpiade di Tokyo 2021. Senza ovviamente tralasciare il campo femminile, dove riemergono dal passato personaggi immensi come la “mammina volante” Fanny Blankers-Koen, la “gazzella nera” Wilma Rudolph e la “recordwoman” Florence Griffith-Joyner. Passione, adrenalina e momenti di pura magia: la meravigliosa storia dei 100 metri raccontata attraverso le imprese dei suoi immortali protagonisti.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita29 mar 2023
ISBN9788836162901
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    Anteprima del libro

    I cento metri - Claudio Colombo

    ICENTOMETRI_FRONTE.jpg

    Claudio Colombo

    Fabio Monti

    I CENTO metri

    Storie, leggende e protagonisti

    di 100 sprint da ricordare

    Introduzione.

    La corsa più bella del mondo

    Pathos dello stadio muto nell’imminenza del via: sei atleti raccolti su sé stessi, immobili e come in agguato; poi la liberazione del guizzo, i muscoli che schioccano in disperata tensione: quasi il deflagrare di polveri fulminate dalla scintilla di un innesco sapiente. Ansioso proiettarsi del corpo in furibondo succedersi di falcate; muscoli contratti, mascelle contratte, fiato sospeso, cuore in tumulto.

    Nella descrizione di Gianni Brera c’è tutta la magia della gara regina dell’atletica, i 100 metri, dove tutto si accende e si brucia in dieci secondi: attesa, adrenalina, emozioni.

    Questo libro vuole essere un omaggio appassionato ai protagonisti – uomini e donne – che l’hanno nobilitata: il lettore ripercorrerà la storia di cento indimenticabili 100 metri, collocati in uno spazio temporale che va dal 1896 – l’anno dei primi Giochi olimpici moderni – ai giorni nostri, così ricchi di soddisfazioni anche per i colori azzurri. Un periodo nel quale la specialità, così come tutta l’atletica, si è evoluta nelle conoscenze tecniche e nel miglioramento dei materiali, con un’accelerazione decisiva dagli anni Cinquanta del secolo scorso, conservando tuttavia intatto il fascino di una prova che appartiene alla più antica tradizione dell’esercizio atletico.

    Il libro si snoda in sequenza cronologica, componendo un mosaico dal quale emergono figure che hanno lasciato la loro impronta: da Thomas Burke, il primo olimpionico dell’era moderna, a Harold Abrahams, reso immortale dal film Momenti di gloria; dal formidabile Jesse Owens, l’atleta afroamericano che fece infuriare Hitler, ai più contemporanei e mediatici Carl Lewis e Usain Bolt; in campo femminile, riemergono dal passato personaggi immensi come Betty Robinson, Fanny Blankers-Koen, Wilma Rudolph e Florence Griffith-Joyner, ma non potevano mancare le grandi stelle del Terzo millennio, che ancora oggi infiammano le piste del mondo. Senza dimenticare le eccellenze dello sprint italiano, da Livio Berruti a Giuseppina Leone, da Pietro Mennea a Marcell Jacobs, passando per gli altri atleti che con le loro imprese hanno rappresentato una pietra miliare nella storia del movimento azzurro.

    Nella scelta delle 100 gare che hanno fatto la storia dei 100 metri ci siamo attenuti a un criterio generale, quello di seguire il filo degli eventi internazionali come Olimpiadi, Campionati mondiali ed europei, tradizionali palcoscenici di prestazioni memorabili. Ma con più di un’eccezione: talvolta sono stati la particolarità o il risultato tecnico di un evento, non necessariamente inserito in una manifestazione titolata, ad averne suggerito la presenza in questa galleria di nobiltà sportiva. Per molte delle competizioni descritte, a partire dagli ultimi quattro decenni, ha fatto gioco anche un particolare non secondario: la presenza degli autori di questo volume come testimoni diretti dell’evento.

    È arrivato il momento di sistemarsi sui blocchi di partenza. Ai vostri posti, pronti, via! La grande avventura dei 100 metri sta per cominciare.

    Atene, 10 aprile 1896.

    Burke, il primo re di Olimpia

    Il 10 aprile 1896, un venerdì, sono circa 40 mila gli spettatori assiepati sulle tribune ancora in costruzione dello stadio Panathinaiko di Atene. Almeno il doppio si sono sistemati sulle colline circostanti. L’atmosfera è elettrica per l’attesa della prima finale dei 100 metri nella storia dei Giochi olimpici moderni, di cui si disputa, fortemente voluta dal tenace Pierre Frédy, barone de Coubertin, l’edizione inaugurale, riprendendo un filo interrottosi ben 1503 anni prima.

    A contendersi la vittoria nella gara più corta dello sprint sono cinque atleti: gli americani Thomas Burke e Francis Lane, il tedesco Fritz Hofmann, miglior velocista dell’Europa continentale, l’ungherese Alajos Szokoli e il greco Alexandros Chalkokondilis, il più giovane sprinter in gara con i suoi sedici anni e tre mesi. Sono i qualificati delle tre batterie, quindici concorrenti in tutto, disputate quattro giorni prima, lunedì 6 aprile, sulla pista in terra battuta resa pesante dalla pioggia torrenziale caduta su Atene la domenica. Il campo di gara è particolare, soprattutto per i corridori di lunga distanza: due lunghissimi rettilinei saldati da curve estremamente strette, per uno sviluppo totale di 333,33 metri.

    Francis Lane, di Chicago, ventunenne studente di Princeton, è già nella storia: aggiudicandosi con il tempo di 122 la batteria che apre la competizione nei 100 metri – disputata alle 15.40, poco più di mezz’ora dopo l’inaugurazione ufficiale dei Giochi da parte di re Giorgio I di Grecia – è il primo atleta ad aver tagliato il traguardo in una gara della nuova" Olimpiade.

    Particolare curioso, l’americano è l’unico atleta a partire in posizione accovacciata, che gli americani chiamano partenza su quattro e gli inglesi "crouching start: prevede che l’atleta, contrariamente alla classica standing start", la partenza in piedi, appoggi a terra anche le mani, naturalmente al di qua della linea da cui si misura la distanza della gara. Non è ben chiaro a quale atleta accreditare l’invenzione di questa particolare tecnica. Le fonti storiche, al riguardo, sono incerte: forse il maori neozelandese Bobby Macdonald nel 1884, più probabilmente l’americano Charles Sherrill nel 1887, che cominciò a sperimentarla nelle gare universitarie a Yale: non ci vorrà molto a capire che questo nuovo metodo di partenza si dimostrerà presto superiore agli altri, ma è un fatto che ai primi Giochi olimpici sia tutt’altro che diffuso.

    Altri concorrenti propongono stili alternativi, e qualcuno di essi sfiora la bizzarria: il barbuto danese Eugen Schmidt, per esempio, utilizza due bastoncini come sostegno delle braccia per la posizione del pronti (non gli porterà fortuna: eliminato). Più vicino all’ortodossia è l’assetto del giovanissimo idolo di casa Chalkokondilis: una gamba è sulla linea di partenza, l’altra è arretrata di un metro: l’atleta, in posizione eretta, si posiziona di lato rispetto alla pista. Molto diffusa in Europa è quella adottata dal britannico Launceston Elliot, le cui braccia, una avanti e una indietro, preparano la posizione di corsa. Tuttavia, come nel caso di Schmidt, anche Elliot, un colosso di 188 centimetri per 102 chilogrammi di peso, noto anche come sollevatore di pesi, discobolo e lottatore, non riesce a superare lo scoglio delle batterie.

    Il record mondiale alla vigilia dell’Olimpiade è 10"8, stabilito dall’americano Luther Cary il 4 luglio 1891 a Parigi sulla pista erbosa del Racing Club al Bois de Boulogne. È un riferimento obbligato per tutti gli atleti in gara, ma nessuno, fino a quel momento, si è avvicinato a quel limite proprio a causa delle condizioni non ottimali della pista.

    Altro dettaglio importante: ad Atene non sono presenti due stelle della velocità dell’epoca, il campione inglese Charles Alfred Bradley, squalificato per professionismo proprio alla vigilia dell’Olimpiade, e l’americano Bernard Wefers, il cui club non si è iscritto ai Giochi per i costi eccessivi dovuti alla lunga trasferta in Europa. È il motivo, quest’ultimo, per il quale molti atleti hanno dovuto rinunciare alle gare: l’evento olimpico, non proprio (e non ancora) definibile come l’eccellenza dello sport mondiale, è sostanzialmente una bella e coraggiosa manifestazione polisportiva che lascerà poche tracce tecniche nella storia, e non soltanto nelle gare di atletica. Ma l’importante è aver gettato un seme i cui frutti, copiosi, si vedranno nei decenni successivi.

    Ormai è tutto pronto per la disputa della finale. Nelle qualificazioni ha ben impressionato il ventunenne Thomas Burke, studente della Boston University, atleta resistente e dal fisico compatto (è alto 1,83 e pesa 66 chili). Specialista nelle 440 yards, di cui è campione statunitense, ma poco conosciuto come centista, Burke si propone come favorito per la vittoria della medaglia d’oro dopo aver realizzato il miglior tempo nelle batterie (12"0).

    Sono le 14.40 di un pomeriggio che alterna nuvole a un tiepido sole. L’ordine dei partenti della finale, esito di un sorteggio, vede in seconda corsia Lane, in terza Szokoly, in quarta Chalkokondilis, in quinta Burke e in sesta Hofmann. La prima corsia rimane vuota: il terzo americano qualificato, Thomas Curtis, netto vincitore della seconda batteria con il tempo di 12"2, ha scelto (e con ragione: vincerà la medaglia d’oro) di disputare la finale dei 110 metri ostacoli in programma un’ora dopo i 100.

    Allo sparo dello starter il più lesto a scattare è l’ungherese Szokoly, che rimane in testa per i primi 20 metri ma poi viene ripreso da Hofmann e da Burke a metà del rettilineo. Nei secondi 50 metri lo statunitense, grazie anche alla sua maggiore resistenza alla velocità, allunga sul tedesco andando a vincere con due metri di vantaggio. Intensa la battaglia per il terzo posto: su Szokoly, quasi allo stremo dopo la fulminea partenza, stanno rinvenendo Lane e Chalkokondilis. I tre finiscono quasi sulla stessa linea: il loro tempo viene dato alla pari, ma i giudici assegnano il terzo posto ex aequo all’ungherese e all’americano.

    Per Burke i dieci giorni dei Giochi sono magici: l’oro nei 100 arriva dopo quello nei 400 metri (54"2 nella finale del 7 aprile): a oggi, l’americano rimane il solo atleta ad aver vinto l’Olimpiade in entrambe le discipline.

    Atene, Giochi olimpici, 10 aprile 1896

    Thomas Burke (Stati Uniti) 12"0

    Fritz Hofmann (Germania) 12"2*

    Francis Lane (Stati Uniti) 12"6*

    Alajos Szokoli (Ungheria) 12"6*

    Alexandros Chalkokondilis (Grecia) 12"6*

    *Tempi stimati

    Vento non segnalato

    Londra, 22 luglio 1908.

    Il ragazzino Walker

    Sessanta concorrenti di sedici nazioni, diciassette batterie di qualificazione, quattro semifinali, soltanto quattro gli atleti ammessi alla finale. È una specie di roulette russa la gara dei 100 metri all’Olimpiade di Londra, la quarta dell’era moderna, che si disputa nell’estate del 1908 con le competizioni di atletica leggera ospitate nel White Stadium, il mastodontico impianto sportivo da 93 mila spettatori che contiene, oltre alla pista di atletica, anche quella di ciclismo e una piscina con una torre di 16,75 metri per le gare di tuffi. Dopo un periodo di rodaggio, l’Olimpiade è entrata a pieno diritto nel calendario degli eventi internazionali che richiamano atleti, folla e affari: quella di Londra sarà a lungo ricordata come una delle meglio organizzate sia dal punto di vista logistico sia da quello tecnico.

    Il tour de force dei 100 metri impegna gli atleti in uno spietato gioco a eliminazione che prevede il passaggio del turno soltanto al vincitore di ogni batteria. Si comincia lunedì 20 luglio alle 15 esatte, e sono subito sorprese: nell’ottava batteria viene eliminato lo svedese Knut Lindberg, da due anni primatista del mondo con il tempo di 106. Nelle semifinali, disputate nel pomeriggio del 21, cade anche l’inglese John Morton, quattro volte campione nazionale sulle 100 yards tra il 1904 e il 1907. Impressionano invece altri due favoriti, il campione canadese Robert Kerr e l’americano James Rector, che con il tempo di 108, corso sia in batteria sia in semifinale, eguaglia due volte il record olimpico stabilito sulla pista in erba ai Giochi olimpici di Parigi nel 1900 dai connazionali Frank Jarvis (in batteria) e J. Walter Tewksbury (in semifinale).

    A stupire, però, è un ragazzino poco più che diciannovenne, Reginald Reggie Walker, sudafricano di Durban, semi-sconosciuto ad alti livelli ma in grado di accendere l’entusiasmo del competentissimo pubblico londinese con due eccellenti prestazioni in batteria (11 netti) e soprattutto in semifinale, dove eguaglia anch’egli il primato olimpico di 108. Walker, nato il 16 marzo 1889, è a Londra grazie a un giornalista di Durban, promotore di una colletta che consente al giovane sprinter di affrontare le cospicue spese di viaggio e di iscriversi all’Olimpiade.

    Arrivato nella capitale inglese tre settimane prima del via, ha conosciuto un famoso trainer inglese, Sam Mussabini (già un’autorità nel mondo dell’atletica: nel 1924 avrebbe portato Harold Abrahams all’oro ai Giochi di Parigi), il quale in pochi giorni riesce nel miracolo di ottimizzare il talento acerbo di questo velocista che viene dal sud del mondo.

    Gli allenamenti a cui Mussabini sottopone il giovane Reggie sono intensi e duri, così come le lezioni di tecnica che mirano a correggere imprecisioni e difetti nelle varie fasi della corsa, dalla partenza all’arrivo. Tuttavia, mercoledì 22 luglio – giorno della finale – sono in pochi a credere che all’imberbe sudafricano riuscirà l’impresa di sconfiggere i suoi avversari: oltre a Rector e a Kerr, anche l’altro finalista americano Nate Cartmell sembra in grado di tenerlo a bada. E invece…

    Al via dello starter, alle 16.15, Walker azzecca una partenza fantastica lasciando sbalorditi i tre nordamericani. Cartmell e soprattutto Kerr, quasi bloccato nelle buchette scavate nella pista, sembrano subito fuori gioco. Solo Rector, con una furiosa rimonta, riesce ad appaiarlo a metà strada. Ma gli insegnamenti di Mussabini hanno lasciato il segno: senza scomporsi nell’azione di corsa, Reggie imprime un’altra accelerazione e riguadagna centimetri di distacco su Rector (peraltro quasi raggiunto da Kerr), piombando sul traguardo con quasi mezzo metro di vantaggio. Per gli americani la delusione è cocente: fino ad allora avevano sempre vinto la medaglia d’oro nei 100 metri olimpici.

    Il pubblico, 49 mila persone, elegge Walker suo beniamino: volano in aria cappelli e giornali e vengono intonati cori al vincitore, portato a spalla per tutto il White Stadium persino dagli ufficiali di gara. Reggie, a soli diciannove anni e 128 giorni, è il più giovane sprinter ad aver conquistato la medaglia d’oro nei 100 metri. Un record che ha sfidato il tempo e che dura tuttora.

    Londra, Giochi olimpici, 22 luglio 1908

    Reginald Walker (Sudafrica) 10"8*

    James Rector (Stati Uniti) 11"0**

    Robert Kerr (Canada) 11"0**

    Nathaniel Cartmell (Stati Uniti) 11"2**

    *Record olimpico eguagliato

    **Tempi stimati

    Vento non segnalato

    Anversa, 16 agosto 1920.

    Il balzo di Paddock

    Il "jump finish è considerato la specialità dell’americano Charles Paddock – nato a Gainesville, in Texas, l’11 agosto 1900 – uno dei sei finalisti dei 100 metri ai Giochi di Anversa 1920, l’Olimpiade della ripartenza dopo la tragedia della Prima guerra mondiale. Il gesto che distingue Paddock consiste nell’effettuare un balzo in avanti in prossimità dell’arrivo, in modo da anticipare i rivali nel tagliare il filo di lana. Ai Giochi in terra belga il giovane statunitense, che ha brillantemente superato batterie, quarti di finale e semifinale che hanno scremato i sessantuno concorrenti provenienti da ventidue nazioni, è considerato il favorito per la vittoria. Il solo connazionale Jackson Scholz, secondo gli esperti, potrebbe privarlo del titolo, ma i turni di qualificazione ne hanno fornito un’immagine sbiadita (per sua sfortuna, raggiungerà il picco di forma qualche settimana dopo, giusto per eguagliare con 106 il record mondiale). Gli americani sono comunque i favoriti: da quando l’Olimpiade è rinata, hanno dominato i 100 metri mancando soltanto la vittoria nel 1908 a Londra (andata al sudafricano Walker). Mancano anche i velocisti tedeschi, essendo stata la Germania, vinta in guerra, esclusa dai Giochi: tutto lascia presagire che gli sprinter statunitensi continueranno il filotto di vittorie.

    Il giorno della finale, venerdì 16 agosto alle quattro del pomeriggio sulla pista del Champ de Beershot, Charley si schiera in terza corsia, forte del miglior tempo ottenuto nelle qualificazioni (10"8, centrato in batteria e nei quarti). In prima e seconda si accomodano i connazionali Morris Kirksey e Loren Murchison, in quarta c’è il francese Emile Ali-Khan, in quinta Jackson Scholz, e in sesta Harry Edward, papà originario della Guyana britannica, madre tedesca, in gara con i colori della Gran Bretagna.

    Al via, che sorprende impreparato Murchison, subito fuori dai giochi per il podio, Kirksey è il più rapido: guadagna un minimo di vantaggio sui rivali, ma a metà gara è raggiunto da Scholz e Edward, che lo sopravanzano. Tuttavia, Kirksey imprime un’altra accelerata alla sua corsa, riprende Scholz e Edward ma non si accorge che alla sua sinistra sta rinvenendo anche Paddock. In cinque piombano sul traguardo ed è in quel momento che Paddock mette a segno il suo temibile "jump finish", che gli consegna la vittoria olimpica. Kirksey è secondo, distanziato di una trentina di centimetri. Edward, terzo, è il primo atleta di colore a conquistare una medaglia olimpica in una prova di velocità.

    Paddock, insieme agli altri tre americani dei 100, vincerà pochi giorni dopo, il 22 agosto, anche l’oro nella staffetta 4x100 con il nuovo record mondiale di 42"2. Il versatile Kirksey, ventiquattrenne texano cresciuto in California, arricchirà il suo bottino olimpico conquistando la medaglia d’oro con la squadra di rugby statunitense.

    Nelle sue memorie, Paddock confesserà di aver corso gli ultimi metri a occhi chiusi, piombando sul traguardo senza rendersi conto di aver battuto gli avversari. Scriverà: «Non osavo chiedere come fosse andata fino a quando i giudici mi hanno indicato come il vincitore. Il mio sogno si era avverato».

    In teoria Paddock non sarebbe dovuto diventare un grande atleta. A sette mesi pesava poco più di tre chili, era gracile e malaticcio e i medici disperavano di poterlo guarire. La famiglia decise di spostarsi nel sud della California, in cerca di specialisti più preparati e di un clima migliore. Il cambio di domicilio fece il miracolo: a quindici anni, Charley era diventato uno splendido ragazzo alto 172 centimetri con un peso di 77 chili. L’atletica gli era entrata nel sangue: arruolato come tenente dei Marines durante la Prima guerra mondiale, si era segnalato per le sue prestazioni ai Giochi interalleati di Parigi nel 1919, dove aveva vinto 100 e 200. L’Olimpiade di Anversa sarebbe stata la prima tappa di una fantastica carriera da velocista conclusa nel 1928, all’età di ventotto anni, con la partecipazione ai Giochi olimpici di Amsterdam.

    Anversa, Giochi olimpici, 16 agosto 1920

    Charles Paddock (Stati Uniti) 10"8

    Morris Kirksey (Stati Uniti) 10"9*

    Harry Edward (Gran Bretagna) 10"9*

    Jackson Scholz (Stati Uniti) 10"9*

    Emile Ali-Khan (Francia) 11"0*

    Loren Murchison (Stati Uniti) 11"1*

    *Tempi stimati

    Vento non segnalato

    Parigi, 7 luglio 1924.

    Come in un film

    Reso famoso, post-mortem, dal pluripremiato Momenti di gloria (Chariots of Fire il titolo originale del film uscito nel 1981), Harold Abrahams va soprattutto ricordato come uno dei migliori atleti della storia dello sport britannico. Già presente, poco più che ventenne, ai Giochi di Anversa nel 1920 – dove viene eliminato nei quarti di finale dei 100 e 200 e dove nell’altra sua specialità, il salto in lungo, non fa meglio del ventesimo posto – si riscatta con gli interessi quattro anni dopo nei 100 metri dell’Olimpiade parigina, incarnando l’esempio positivo a cui si ispireranno intere generazioni di atleti.

    La finale è in programma alle diciassette di lunedì 7 luglio 1924 nello Stade de Colombes. Ci sono i sei reduci di una durissima due giorni che ha impegnato nelle qualificazioni ottantasei concorrenti provenienti da trentaquattro nazioni. È proprio Abrahams, ventiquattrenne di religione ebraica (è nato a Bedford il 15 dicembre 1899), famiglia originaria della Lituania polacca, studente a Cambridge, ad aver impressionato gli osservatori con due 10"6 consecutivi (record olimpico eguagliato) centrati nei quarti e nella seconda semifinale. Abrahams è arrivato a Parigi da outsider, ma non è un atleta banale: dotato di una solida e armoniosa struttura fisica (è alto 1,84 metri per 79 chilogrammi), ha ottenuto risultati eccellenti anche nel salto in lungo: un mese prima dei Giochi, ai Campionati d’Inghilterra, dopo aver vinto il titolo di campione nazionale nelle 100 yards, ha stabilito il record britannico con 7,38. Talento naturale e preparazione meticolosa sono le basi su cui Abrahams ha costruito i suoi successi, facendo man bassa nelle gare atletiche che, per tradizione, oppongono le due università più quotate del Regno Unito, Cambridge e Oxford: per quattro volte ha vinto le 100 yards e per tre il salto in lungo.

    Come suo solito, l’atleta britannico ha preparato l’Olimpiade con cura, sotto la guida del suo allenatore Sam Mussabini, uno dei grandi santoni dell’atletica mondiale: per sei mesi, concentrandosi soprattutto sui 100 metri, si è sottoposto ad allenamenti vigorosi, non dimenticando di lavorare anche sul gesto tecnico. I frutti si sono visti nei turni di qualificazione, eppure i favoriti per la medaglia d’oro sono gli americani, che schierano quattro formidabili atleti: in prima corsia c’è Charles Paddock, campione olimpico in carica e detentore del primato mondiale (10"2); in seconda Jackson Scholz, vincitore della prima semifinale; in terza Loren Murchison; in quinta Chester Bowman, primo nei Trials statunitensi. Abrahams è in quarta corsia, in sesta c’è il neozelandese Arthur Porritt, studente di medicina, futuro chirurgo e governatore della nazione australe.

    Abrahams teme il quartetto americano, ma ha nella mente gli ultimi consigli di Mussabini: «Pensa solo a due cose: al colpo di pistola e al nastro d’arrivo. Quando senti l’uno, corri a perdifiato finché non rompi il secondo». Al via, l’atleta britannico reagisce con prontezza alla partenza furiosa di Paddock, Scholz, Bowman e Murchison. Anche Porritt non si fa sorprendere e tiene il passo. Ai 40 metri la situazione è esattamente quella della partenza: tutti gli atleti sono sulla stessa linea. La finale si conferma incerta e aperta a ogni risultato. A metà gara Abrahams imprime l’accelerata decisiva, guadagnando un margine di vantaggio sempre più evidente che lo porta a tagliare il traguardo con oltre mezzo metro su Scholz e qualcosa di più sul sorprendente Porritt, medaglia di bronzo senza aver mai vinto un turno di qualificazione.

    Abrahams diventa il primo europeo a conquistare l’oro olimpico nei 100 metri e l’America subisce uno smacco clamoroso: irrimediabilmente sesto Murchison (lo stesso piazzamento di quattro anni prima) e soltanto quarto Chester Bowman, è il quinto posto del grande Paddock – crollato nel finale senza aver raggiunto il ritmo giusto – a sancire la complessiva disfatta dello squadrone statunitense nella più breve delle gare di velocità.

    Perfetto esempio di atleta che si fa trovare all’apice della propria forma nel posto e nel momento giusti, Abrahams arricchirà la sua Olimpiade con l’argento nella staffetta 4x100 e il raggiungimento della finale dei 200 metri, dove si classificherà sesto. Da campione olimpico non ebbe fortuna: nel maggio 1925 la frattura di una gamba durante una gara di salto in lungo lo costrinse al ritiro dalle gare. Abrahams volle tenere sempre viva l’emozione provata vincendo l’Olimpiade: fino al giorno della sua morte, il 14 gennaio 1978, ogni 7 luglio alle 19.05 si diede appuntamento con il suo grande amico Arthur Porritt per cenare insieme nel ricordo della loro gara olimpica.

    Parigi, Giochi olimpici, 7 luglio 1924

    Harold Abrahams (Gran Bretagna) 10"6*

    Jackson Scholz (Stati Uniti) 10"8

    Arthur Porrit (Nuova Zelanda) 10"9

    Chester Bowman (Stati Uniti) 10"9

    Charles Paddock (Stati Uniti) 10"9

    Loren Murchison (Stati Uniti) 11"0

    *Record olimpico eguagliato

    Vento non segnalato

    Amsterdam, 30 luglio 1928.

    Percy chi?

    Lo smilzo, quasi etereo Percy Williams si accomoda alla partenza della finale olimpica di Amsterdam con lo sguardo intimidito ma anche pieno di speranza dello studente davanti a una commissione d’esame. Gli è stata riservata la quinta corsia e la prima sensazione visiva è che questo sprinter tascabile che viene dal Canada potrebbe rimanere stritolato tra due marcantoni come il tedesco Georg Lammers (1,78 metri per 84 chili), in quarta corsia, e il britannico di origine guyanese John Jack London, in sesta. Quest’ultimo, soprattutto, offre l’immagine del gigante Golia che accetta annoiato la sfida del piccolo Davide: 190 centimetri per 90 chili, mentre Percy, del tutto sconosciuto ai piani alti dell’atletica prima dell’Olimpiade, è alto 1,67 e pesa appena 57 chili.

    Eppure proprio lui, il ventenne Williams (è nato a Vancouver il 19 maggio 1908), ha rappresentato la vera novità di questi Giochi: nei quarti di finale, rompendo la monotonia di tempi mediocri, ha corso in 106 eguagliando il primato olimpico. E tutti a chiedersi: ma da dove arriva questo ragazzo? I big della corsa veloce hanno impiegato un po’ di tempo per rispondere all’impudenza del canadese: solo in semifinale l’americano Bob McAllister – pomposamente soprannominato The newyorker flying cop, il poliziotto volante di New York – si è tolto la polvere dai muscoli centrando anch’egli un 106 (con Percy secondo, sorpreso al via); poco dopo, lo stesso tempo ha spinto il mastodontico London nel novero dei possibili vincitori della IX Olimpiade dell’era moderna.

    Date queste premesse, la finale di lunedì 30 luglio si annuncia aperta a ogni risultato: completano lo schieramento di partenza il sudafricano Wilfred Legg in terza corsia (le prime due, troppo deteriorate, non vengono utilizzate); Bob McAllister in settima; in ottava, a chiudere, l’altro americano Frank Wykoff, il quale, dopo la netta vittoria delle selezioni americane (10"6, proprio su McAllister), è però alle prese con i cinque chili messi su durante la traversata atlantica in nave dall’America all’Europa, ovviamente una zavorra per uno sprinter che vuole battersi per la medaglia d’oro olimpica. Gli Stati Uniti della velocità sembrano in disarmo: gli altri due rappresentanti, Henry Russell e Claude Bracey, rispettivamente terzo e quarto ai Trials americani, hanno fatto una magra figura classificandosi ultimi nelle rispettive semifinali.

    Due partenze false (prima Legg, poi proprio Wykoff) tengono alta la tensione per una gara che non ha un vincitore designato. La pista non è in buone condizioni, ma questo vale per tutti. E pure il freddo, inconsueto anche per l’estate olandese, si è rivelato un problema per tutti gli atleti. Ad alleviare le sofferenze di Percy ha pensato il suo allenatore Bob Granger, un addetto alle pulizie di Vancouver che si è pagato il viaggio per Amsterdam lavorando come lavapiatti sul treno per Toronto e poi sul cargo atlantico che l’ha portato nella città olandese: lo ha massaggiato negli spogliatoi con olio di noce e tenuto avvolto, prima delle corse, in tre tute di lana. Un tipo creativo, questo Granger: ha lungamente preparato lo scatto di partenza di Percy in una camera d’hotel, utilizzando un materasso addossato alla parete per attutire l’impatto del suo allievo.

    Lo sparo dello starter – quello buono – non trova impreparato lo studente di Vancouver: agile e preciso negli appoggi iniziali, scatta rapidamente e mette subito tra sé e gli avversari un buon margine di vantaggio. I giganti rimangono di sasso: sia London che Lammers sono attardati ma non rinunciano a spingere, sperando in un cedimento di Williams. La sfortuna nel frattempo ha deciso di bersagliare McAllister, che dopo una trentina di metri accusa un problema muscolare e cede di schianto. Percy Williams, agitando le sue piccole leve, tiene alto il ritmo e non mette mai a rischio la sua vittoria, nonostante il poderoso rush finale di London e il cambio di passo, tardivo, di Lammers. Gli americani, dopo lo sgarbo del britannico Abrahams nel 1924 a Parigi, sono ancora sconfitti: l’immagine del pingue Wykoff, sbuffante dopo l’arrivo, è la fotografia di una disfatta senza appello.

    Per Percy sono i giorni della gloria: il primo agosto, in piena estasi agonistica, e per nulla fiaccato dalle fatiche dei 100, vince anche la finale dei 200 (l’ottava corsa in quattro giorni), primo atleta a centrare la doppietta della velocità nella storia dei Giochi olimpici. Al ritorno in Canada, accolto come un eroe greco, lo aspetta un lungo tour in treno (in compagnia della mamma) attraverso la nazione: partenza da Montreal, tappe intermedie a Hamilton e a Winnipeg (dove gli erigono una statua di bronzo), arrivo a Vancouver, la sua città natale, che lo omaggia con un’automobile Graham-Page color blu elettrico e un assegno di 14.500 dollari canadesi.

    Amsterdam, Giochi olimpici, 30 luglio 1928

    Percy Williams (Canada) 10"8

    John Jack London (Gran Bretagna) 10"9

    Georg Lammers (Germania) 10"9

    Frank Wykoff (Stati Uniti) 11"00

    Wilfred Legg (Sud Africa) 11"00

    Robert McAllister (Stati Uniti) 11"00

    Vento non segnalato

    Amsterdam, 31 luglio 1928.

    Nata due volte

    La prima gara olimpica dei 100 metri riservata alle donne non nasce

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