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La cucina e i prodotti della Valmarecchia: Da Santarcangelo di Romagna a Casteldelci
La cucina e i prodotti della Valmarecchia: Da Santarcangelo di Romagna a Casteldelci
La cucina e i prodotti della Valmarecchia: Da Santarcangelo di Romagna a Casteldelci
E-book643 pagine8 ore

La cucina e i prodotti della Valmarecchia: Da Santarcangelo di Romagna a Casteldelci

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Questo lavoro di Graziano Pozzetto è frutto di ricerca ed esplorazione gastronomica, culturale, antropologica (con saggi, fonti, documenti, testimonianze, storie e racconti di cibo). Il volume racconta la cucina - storica, tradizionale e dei giorni nostri - e dei prodotti della terra, identitari, tipici, della migliore tradizione, talvolta eccellenti, spesso artigianali, che qui si sono stratificati e consolidati. L’area di riferimento è la Valmarecchia; di recente definizione territoriale riminese comprende i quattro comuni da sempre riminesi - Santarcangelo di Romagna, Verucchio, Poggio Berni e Torriana - ai quali si sono uniti i sette comuni marecchiesi - Novafeltria, Talamello, San Leo, Maiolo, Pennabilli, Casteldelci e Sant’Agata Feltria.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2014
ISBN9788874722488
La cucina e i prodotti della Valmarecchia: Da Santarcangelo di Romagna a Casteldelci

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    Anteprima del libro

    La cucina e i prodotti della Valmarecchia - Graziano Pozzetto

    Guccini.

    INTRODUZIONE

    Sono ormai trentacinque anni che frequento sistematicamente come turista fedele, altresì nelle veste di gastronomo indipendente, di ricercatore e scrittore di cibo, la Valmarecchia.

    Negli anni Sessanta, ho iniziato a frequentare assiduamente da Ravenna, con gli amici e le morose dell’epoca, le trattorie, le sagre, le botteghe del cibo, i mercatini, i produttori, gli artigiani, gli eventi gastronomici di Santarcangelo di Romagna (anche il suo Teatro in Piazza), Poggio Berni, Torriana, Verucchio e dintorni. Non riesco a dimenticare le buone trattorie di quest’area, a gestione famigliare, che esaltavano con opulenti sapori le domeniche dell’anno, con una cucina casalinga ricca di gusto e odorosità, abbondanza di minestre e carni, per gente affamata (anche di ricordi e sapori contadini), di origine campagnola, ma che ormai viveva nelle città romagnole.

    Ricordo in particolare, a Santarcangelo di Romagna, la garbata ospitalità e la buona cucina di Palmina e di Pitrèt, la loro osteria (chiusa da tempo) frequentata da vecchietti che arrivavano con la ligaza, il grande tovagliolo legato a due punte per volta, con dentro un pezzo di lesso, una salsiccia stagionata, ciccioli o coppa di testa, un pezzetto di formaggio, mortadella grossolanamente tagliata, talvolta tartufo, spianata o piada o pane montanaro, per accompagnare il grande Sangiovese di Pitrèt, orgogliosamente condiviso e molto ambito, suadente, sublimato dal personalissimo rigoverno che Pitrèt applicava al suo vino con la brevissima, gioiosa schiuma violacea, l’inconfondibile e identitario profumo di viola: un grande vino proposto in tempi nei quali dominavano i mediocri vini di cantinone e il Rinascimento enologico della Romagna era ancora di là dal venire. Lo ricorderanno i tantissimi che per la festa di San Martino l’hanno goduto appena spillato dalla grande botte che Pitrèt portava in piazza, quale espressione di passione e sapienzialità.

    Di quei vecchietti ricordo i loro cagnolini da tartufo, la mitezza, le rievocazioni di cibo, l’amore vitale per il vino, in quanto capace di dare consolazione e allegrezza agli anni difficili della vita.

    Ricordo, poi, la bravura e l’opulenza garantita dai Franciosi a Poggio Berni; le magnifiche carni ai ferri e la caratteristica e grassettina piadina degli Zanni di una volta; le mitiche tagliatelle al ragù degli Zaghini a Santarcangelo e i superbi cappelletti di carne in brodo de La Rocca di Verucchio; e il Povero Diavolo, luogo raffinato di ospitalità, ma anche di sperimentazione della cultura gastronomica storica e letteraria della Valmarecchia, con il gruppetto di sapienti capitanati da Piero Meldini.

    Sento affetto e confidenza verso i paesini dell’anima, per citare Tonino Guerra, e mi sono cari altri luoghi di felicità personale dell’antico Montefeltro (da S. Angelo in Vado a Belforte all’Isauro), sconfinando nell’Aretino (da Monterone a Sestino) o risalendo verso le Balze o, ancora, andando verso Badia Tedalda. Un grande mosaico, non c’è dubbio, per i tanti che avranno l’intelligenza di scoprirlo.

    In relazione ai ristoratori, ricordo con amicizia e riconoscenza sia il Morino, a Sant’Agata Feltria, che Marchesi, a Ca’ Gianessi, che ci ha recentemente lasciati con notevole rimpianto per il suo esemplare ristorante Al Turista, che Marta porta avanti con coraggio e navigata professionalità; e ancora la Peppa e la sua cucina della memoria, altresì i cappellettini di carne in brodo della mamma di Pierino, pizzaiolo, sempre a Pennabilli; la colta cucina casalinga rigorosamente piccolo-aziendale della Casa Vecchia di Maiolo; quella raffinata de Il Piastrino, ancora a Pennabilli, ma anche di qualcun altro che opera con mestiere.

    Mi sono state di supporto una mansarda ereditata per scrivere e respirare e una serie finita di quelle che, con allegra ironia, definisco da turismo lento, cioè navigate e provvidenziali utilitarie, che tuttavia non si sono mai fermate, nonostante la loro vocazione alla rottamazione.

    In definitiva, di questa valle, considerata senza confini, sono da sempre innamorato, un cultore e un felice fruitore, in quanto, detto con convinzione e senza ruffianeria, si tratta di un bacino gastronomico di insospettata ricchezza e peculiarità gastronomiche, peraltro esaltate dal fascino di colline e paesi.

    Attraverso la somma dei periodi di frequentazione della Valmarecchia, da Santarcangelo a Casteldelci, dedicati al lavoro di ricerca, giornalismo, codificazione, scrittura, divulgazione, sul piano personale ho realizzato le mie vocazioni. Ho potuto altresì stratificare, occupando metà di una enorme casa, uno sterminato archivio di cultura materiale e della memoria di questa valle, come di tutte le altre aree della Romagna: libri, riviste, documenti, testimonianze della cultura scritta e orale, dossier, storie di artigiani, racconti di cibo, ricerche scolastiche e dei tanti studiosi presenti nelle piccole e grandi patrie, diari, resoconti di convegni, monografie, ricettari familiari, esperienze, contributi professionali e scientifici, interviste, saggi, studi, itinerari, guide enogastronomiche, periodici, divulgazioni e codificazioni paesane. Si tratta di un grande patrimonio di civiltà gastronomica romagnola, partendo dal quale ho pubblicato, a seguito di una elaborazione culturalmente rigorosa e fedele ai territori, una ventina di libri per un totale di ottomila pagine e realizzato duemila incontri di promozione culturale.

    Alla mia maniera, con questo volume, ho inteso codificare la cultura gastronomica e antropologica della Valmarecchia, in relazione alla cucina di ieri e di oggi, ai prodotti identitari, a storie e testimonianze di cibo, memorie, tradizioni, attualità, senza omettere le mie opinabili e personalissime predilezioni gastronomiche, che conservo sul palato, nel cuore, nella mente, in archivio, dopo decenni di gratificanti frequentazioni marecchiesi, peraltro condivise con persone care, amici, colleghi che mi hanno accompagnato lungo esaltanti itinerari di questi territori.

    Ho condiviso orgogliosamente contributi e consulenze, rigorose e autorevoli, in quanto offerte dai massimi studiosi della Valmarecchia, senza timori di confronti con iniziative editoriali e pubblicistiche che si stanno concentrando su questa valle, considerando la sua centralità nei nuovi assetti provinciali, che resta comunque da giocare nei prossimi anni. Ricordo con gratitudine Piero Meldini, Michele Marziani, Pier Giacinto Celi, il grande Tonino Guerra, Rita Giannini, Natalino Cappelli, Giorgio Bartolini, Franco Vicini, Alfredo Arcangeli, Fausto Fratti, Luigi Mattei Gentili, Sergio Giorgi, Giampiero Bianchi, Nicola Naldoni e i collaboratori ravennati Roberto Garavini e Luciano Minghetti.

    L’identità della Valmarecchia è considerata, in questo volume, per la prima volta unitariamente, in riferimento ai sette comuni marecchiesi a monte e ai quattro comuni, da sempre riminesi, di giù, esaminati non più separatamente, ma tutti insieme a seguito della recente unificazione nell’ambito della medesima Provincia di Rimini e della nuova appartenenza regionale (Emilia-Romagna). Un’area che inizia da Santarcangelo di Romagna e finisce a Casteldelci, comprendendo Verucchio, Poggio Berni e Torriana e, risalendo, Novafeltria, Talamello, San Leo, Maiolo, Pennabilli e Sant’Agata Feltria, più agevolmente collegata con la vallata del Savio.

    In queste terre e colline, marecchiesi e alto-marecchiesi, hanno lasciato storicamente il loro segno, si sono caratterizzate, consolidate, intrecciate, non senza ibridazioni, diverse culture, influenze, incroci, passaggi, diversità, sconfinamenti, contaminazioni, conservatorismi, innovazioni, recenti omologazioni (talvolta culturalmente devastanti), oralità, peculiarità e varie identità: umbra, toscana, montefeltresca, pesarese-urbinate, prevalentemente romagnola e riminese.

    In relazione agli aspetti propriamente storicoletterari, affido i cortesi lettori al saggio dello studioso riminese Piero Meldini, posto all’inizio del volume.

    Desidero altresì condividere alcune interessanti osservazioni su questa valle.

    La prima è della collega Paola Cecchini che ha osservato che «qui [in Valmarecchia s’intende] la Romagna del mare riminese, diviene collinare, più riservata, più parsimoniosa, più silenziosa». Vanno ricordati i raccolti, le feste, i mercatini, la cucina semplice, immediata, genuina, di collina.

    La seconda è dello studioso di letteratura Luca Cesari, presa dalla sua presentazione di un libro di racconti in dialetto mercatinese, dialetto visto come «fattore di arricchimento e ibridazione delle native parlate: certamente il dialetto della Valmarecchia, che è zona di confine, non può essere ortodossamente romagnolo come quello di Forlì e Ravenna. È antiretorico, asciutto e stringato come quello del cuore della Romagna, ma è segnato da termini marchigiani e toscani. Ed è ancora più rude. Oltre naturalmente al carattere della gente che lo parla, riflette anche il paesaggio dell’Alto Montefeltro [divenuto in parte Alta Valmarecchia], una delle più belle vallate d’Italia, come gli stranieri sanno meglio degli italiani, una vallata raramente dolce e modulata e spessissimo aspra e selvaggia. Come in Romagna, non esiste il verbo amare, ci si può tutt’al più voler bene, ma lo si dice poco». Personalmente sono convinto che, pur frutto di confini e contaminazioni, la Valmarecchia ancora oggi esprime una sua peculiare identità territoriale che, attraverso la sua cucina e i suoi prodotti, ho cercato di raccontare in questo volume.

    La terza citazione è degli amici dello Slow Food: «Se si traccia l’identità gastronomica di un territorio magico come la Valmarecchia, occorre considerare in profondità l’identità conservatrice della sua agricoltura, del suo mondo rurale di collina». Di un mondo contadino, aggiungo io, che ha impiegato secoli per consolidarsi ma pochi decenni per essere liquidato e marginalizzato e per mostrare ovviamente i propri limiti e anacronismi, ma che, nell’ambito di una garbata innovazione, può esprimere fedelmente le sue importanti radici culturali e di civiltà alimentare.

    La vallata è, in gran parte, tagliata in due dall’antica strada, ma anche dal fiume Marecchia che, dalla sorgente appenninica di Monte Zucca, come è stato scritto, scende trasportando ciottoli e sabbia fulva, fino a Rimini, dove sfocia nell’Adriatico. Il suo corso è caratterizzato da scogli rocciosi e da resti giganti pietrificati, posti a guardia dei luoghi.

    La strada Marecchiese, che collegava e collega l’Italia centrale con l’Adriatico, tuttora molto praticata, ha sempre svolto un ruolo commerciale, mentre, lungo i secoli, castelli e palazzi signorili, sono stati costruiti sugli speroni di roccia.

    Va ancora evidenziato l’intrigante fascino e richiamo di questa valle: i belvedere, i punti della Valmarecchia affacciati sui colori, odori, macchie boschive, ginestre, colli, prati, boschi, siepi di more e di prugnoli, biancospini e mandorli (con le loro inconfondibili splendide fioriture agli esordi di ogni primavera, talvolta anticipandola), i campi coltivati a cereali, le fienagioni, le piane ortive accanto alle case, le mucche e le pecore al pascolo, le maestose querce, i monumentali noci, le antiche piante fruttifere, certi paesini da presepe, che fanno sognare a occhi aperti e soprattutto una diffusa e palpabile quiete!

    Accanto a certi paesaggi a mio parere dolci, materni e rassicuranti per l’anima, ne troviamo altri rudi ed aspri, comunque tradizionalmente intatti, consumati e plasmati solo dal tempo, quasi mai dal turismo di massa, forse dall’abbandono degli uomini.

    Il Marecchia e la sua valle hanno ispirato la poesia di Tonino Guerra, che da oltre un ventennio vive (con Lora, tanti gatti e mandorli) a Pennabilli, lo splendido paesino frequentato tutta la vita dai suoi genitori, da tempo meta di straordinari pellegrinaggi da tutto il mondo, grazie proprio a Tonino.

    In questa valle, attraverso decenni e passaggi generazionali, sino a poco oltre la metà del secolo scorso, si è radicata una cucina di relativamente pochi piatti, semplice, della sopravvivenza, riferita alla quantità e non alla qualità, che i marecchiesi si sono lasciati alle spalle da tempo, e certi sapori appartengono solamente alla memoria dei marecchiesi più anziani. Una cucina frutto di concretezza montanara permeata dalla capacità delle progenitrici di ricavare da poche, povere, ricorrenti, arrangiate, mediocri o scadenti, comunque obbligate materie prime dei mangiari rustici, saporosi, percepiti come genuini e unici, proverbialmente mai abbastanza per sfamare i familiari, come risulta dalle rievocazioni dei più anziani, che comunicano da sempre solamente con il loro dialetto.

    Le classi subalterne del passato, come ha osservato lo studioso pennese Silvestro Venturi, quotidianamente si ponevano il problema non di come mangiare, ma di cosa mangiare.

    I gusti erano decisi, corposi, raffazzonati, espressione per lo più di consuetudini orali e circoscritte, non sempre modificate dalle contaminazioni per sentimenti di forte conservazione. Rari i momenti di festa e di piccola felicità a tavola, grazie a forme occasionali prevalentemente festive nonché precarie di piccola-grande opulenza.

    I mangiari arrangiati dalle mamme e dalle nonne erano tuttavia suffragati dalla loro sapienzialità, dall’inventiva e dall’abilità di combinare le poche risorse disponibili, unitamente all’immaginazione, a grande manualità (che giustamente l’amico Carlin Petrini considera espressione culturale), alla parsimonia, all’uso navigato del fuoco che supplivano all’assenza o carenza sistematica di una dispensa degna di questo nome, anche se sotto il tetto erano presenti farina di polenta, fagioli, fave, ceci, patate, cipolle, lardo e cotiche e poche altre cose.

    Fondamentale, nelle non scolarizzate donne di casa marecchiesi di un tempo, quella che con affetto e ammirazione definisco la cultura della vita: la conoscenza delle stagioni, delle erbe e degli ortaggi che le portava a sfruttare, individuare, reperire, procacciarsi quelle risorse appena edibili, gratuitamente disponibili in natura, sia della flora che della fauna (pensiamo alle rane e alle lumache).

    Esperienze che ho riscontrato nelle rievocazioni dei più anziani, molti dei quali ai giorni nostri, vivaddio, vivono più a lungo in questa felice valle.

    LA CUCINA DELLA VALMARECCHIA

    NOTE STORICHE SULLA CUCINA DELLA VALMARECCHIA

    di Piero Meldini

    Si può dire che la valle del Marecchia trasudi storia da ogni pietra. Si tratta, in effetti, di un territorio eccezionalmente ricco di testimonianze storiche: pievi, abbazie, santuari, palazzi, torri e soprattutto castelli, disseminati su ogni altura e contesi, nei secoli, da alcune tra le più potenti e bellicose famiglie del medioevo e dell’età moderna: i Malatesta, i Montefeltro, i Della Rovere, i Medici, i Carpegna, i Guidi.

    A questa formidabile ricchezza di testimonianze del passato non corrisponde, purtroppo, un’uguale ricchezza di fonti sul cibo, e poiché la storia si fa – o piuttosto si dovrebbe fare – sui documenti, è irrealistico pretendere di tracciare un circostanziato profilo storico dell’alimentazione e della cucina nella Valmarecchia. È certamente lecito trarre qualche cauta congettura dalle pochissime fonti superstiti, integrate dalle caratteristiche morfologiche e naturalistiche del territorio e dal paesaggio agrario, ma non è il caso di spingersi oltre, se non si vuol cadere nelle favolette che infarciscono tante pubblicazioni di cucina regionale e municipale.

    Possiamo supporre, ragionevolmente, che la corte di Urbino sia stata, in età federiciana, terreno di cultura e centro di irradiazione di una cucina signorile all’altezza delle più importanti e raffinate corti italiane, e che significativi echi di tale cucina si siano diffusi nei vari castelli della Valmarecchia. Ci autorizzano a pensarlo le cronache dei banchetti di nozze a cui presenziò Federico da Montefeltro: quello del 28 maggio 1475, a Pesaro, per il matrimonio di Costanzo Sforza, cognato del duca, con la dodicenne Camilla d’Aragona; il sesquipedale banchetto, della durata di sette ore, si componeva di dodici servizi, il decimo dei quali consisteva in un vitello arrosto rivestito con la pelle d’un leone. O quello del 25 giugno 1475, a Rimini, per le nozze di Isabetta, la figlia appena decenne di Federico, con Roberto Malatesta il Magnifico: un banchetto di due servizi di credenza e tre di cucina che era costato più di trentamila ducati e in cui si erano consumati, tra l’altro, 8.600 paia di polli, 45.000 uova, 180 prosciutti, 578 «salzizzoni bolognesi», 40 forme di parmigiano, 13.000 arance e 120 botti di vino. Regista tanto dello spettacolare pranzo quanto del matrimonio tra la sua acerba figlioletta e il figlio bastardo del suo mortale nemico Sigismondo, scomparso nel 1468, era lo stesso Federico, che aveva voluto prestare, nell’occasione, i suoi due cuochi Giovanni e Pietro, a capo di una folta brigata. È degno di menzione anche il banchetto dell’11 febbraio 1488, a Urbino, per le nozze di Guidobaldo, figlio di Federico, con Elisabetta Gonzaga: un banchetto composto da tre pranzi consecutivi: di animali domestici il primo, di pesci il secondo e di cacciagione il terzo.

    È legittimo immaginare – ripeto – che alcuni castelli della Valmarecchia abbiano accolto il magistero culinario della corte urbinate, così come, in minor misura, quello della corte malatestiana. Di fatto non c’è un solo documento che lo provi. Saltando qualche secolo, possiamo anche, e forse con maggior fondamento, cogliere nel banchetto offerto nel 1705 dal castellano di San Leo al nipote del papa e al suo seguito una delle ultime manifestazioni di quella tradizione di cucina aristocratica che si era formata alle corti di Urbino e di Rimini. Era il mese di giugno. L’abate Annibale Albani, nipote di Clemente XI, si era concesso un week-end di quattro giorni nel Montefeltro in compagnia di una quindicina di prelati e gentiluomini, tra cui il cardinale Tanara, Legato di Urbino, e l’archiatra pontificio Giovan Maria Lancisi, che ci lascerà un vivace resoconto del viaggio in forma epistolare. La brigata, che era partita da Urbino, aveva piegato per Macerata Feltria, affrontato il «gran monte» della Carpegna e poi, di seguito, toccato Sasso Simone, Scavolino, Pennabilli, San Leo e la piccola repubblica di San Marino, per tornare, passando per Cattolica, ad Urbino.

    Persona colta, curiosa e di spirito, e autorità nei cinque sensi, Lancisi non trascurava di dar conto, oltre che delle «cose che sono oggetto dell’occhio», di «quelle che appartengono alla bocca», e ad ogni tappa tornava a stupirsi per l’abbondanza e la scelta dei cibi che gli venivano offerti.

    Delle vivande servite a San Leo dal castellano Buonaventura non abbiamo la lista completa e dettagliata. Sappiamo però che fu portato in tavola, insieme alle carni, uno storione di proporzioni gigantesche, e che nel banchetto si sommarono «due cose difficilissime a congiungersi: perfetta rarità delle vivande e somma confidenza ed amore con l’ospite». Ne consegue – assicura Lancisi – che a San Leo «mangiammo più assai e stemmo più allegri che in ogn’altra delle passate» scorpacciate. Oltre agli illustri ospiti, furono generosamente rifocillati anche i servitori e i vetturini.

    Non sembrano esserci sostanziali differenze tra il banchetto servito dal castellano di San Leo e quelli apparecchiati dalle altre autorità feretrane: se il pranzo offerto dal conte di Carpegna, infatti, «fu doppio, perché fu di carni e di pesce; e di che pesci! e di che carni!», e non mancarono «i dolci, le cioccolatte e i rosolii», lo sfarzoso banchetto orchestrato dal principe di Scavolino fu «di quattro portate con due scoperture di tovaglie» e «un copioso dessert con sue canestre e sciroppature le più rare, con vini i più celebri dell’Europa ed in sin condotti dalle Canarie». Altrettanto memorabile fu, di venerdì, il pranzo di magro in casa del capitano di San Marino, dove «gli storioni, le linguattole e le triglie» furono serviti senza economia, «con tutti gli aggiunti ed intermezzi» dei giorni di vigilia.

    Il modello comune – e dominante – è quello del banchetto aristocratico barocco, ultima filiazione del banchetto di corte rinascimentale. Si assiste, anche in provincia, a una ricerca esasperata di cibi e bevande rari, sia per la provenienza remota (i vini delle Canarie e di altri paesi europei), sia per le dimensioni (lo storione da primato), sia quanto meno per essere fuori stagione. Siamo, cioè, agli antipodi del cosiddetto chilometro zero. Anche i banchetti barocchi, come quelli rinascimentali, sono esibizioni di ricchezza, abbondanza e sfarzo, e lo spreco non è solo previsto, ma programmato e ostentato.

    La descrizione dei piatti che ci ha lasciato Lancisi è sintetica, e perciò ignoriamo come siano stati confezionati. Conosciamo a sufficienza, tuttavia, la cucina di questo periodo, perché i ricettari del tempo – a cominciare dall’Arte di ben cucinare di Bartolomeo Stefani (Mantova, 1662) e dallo Scalco alla moderna di Antonio Latini (Napoli, 1692) – ci forniscono adeguate informazioni al riguardo. Né c’è da temere che lo stile gastronomico di quest’area divergesse sensibilmente da quelli di altri luoghi. La cucina di rappresentanza della classe nobiliare, proprio come quella degli odierni ristoranti stellati, era la stessa ovunque.

    È perfettamente inutile, di conseguenza, cercare le radici della cucina della Valmarecchia nei piatti serviti a Giovan Maria Lancisi e ai suoi compagni di viaggio: appartengono a una cucina elitaria e globalizzata che aveva una storia plurisecolare alle spalle e che di lì a poco si sarebbe estinta senza quasi lasciar traccia.

    Tratti di autoctonia presentano, semmai, i cibi dei benestanti di paese e dei piccoli possidenti. Ne abbiamo qualche irrisoria notizia grazie all’aneddoto che ci ha narrato un altro viaggiatore per diporto, l’abate corianese Giovanni Antonio Battarra. Questi, nell’agosto del 1744, batteva a cavallo «i viottoli, le siepi, i fossi e le campagne arate» dell’alta valle del Marecchia, incantandosi e insieme spaventandosi di fronte a «certe pianure deserte, ché non si vedea orma né di strada né di sentiero, e solo si vedea qualche scibala di mulo». Il giorno andava svanendo, e Battarra, timoroso di perdersi, bussava alla porta di «una casipola di due finestre di facciata» in località Palazzo. Qui veniva accolto ospitalmente e rifocillato con «una zuppa di castrato che a’ miei giorni non ho mangiato il più squisito», annaffiata da «una zucca di vino che a’ miei giorni non ho bevuto né il più squisito né il più potente» e seguita da «un pollo arrosto freddo», formaggio e frutta. Non era certamente, quella, l’usuale dieta dei montanari dell’alta Valmarecchia. Il padrone di casa – osserva Battarra – era «un riccone di que’ contorni», ed era oltretutto reduce da un pranzo di nozze: il che spiega l’inconsueta abbondanza della sua dispensa.

    È una cucina semplice, quasi elementare; una cucina di impronta toscana imperniata sulla carne ovina e sul formaggio di pecora. La zuppa di castrato non sarà stata gran che differente da quella che si prepara tuttora nell’aretino, salvo che al posto della carne di castrato si usano attualmente quelle di manzo e/o di maiale. Gli ingredienti sono: ragù di carne (con le spezie canoniche), brodo, fette di pane raffermo e formaggio grattugiato. Anche il vino di alta gradazione (secondo i parametri del tempo, s’intende) sarà stato con ogni probabilità di provenienza toscana.

    E la cucina delle plebi? Più che di cucina, si deve parlare di un’alimentazione povera, monotona, precaria, spesso al limite della sussistenza. Una dieta basata sulle erbe di campo, qualche ortaggio di stagione, legumi (la fava innanzi tutto), castagne, pane di tritello e, come bevanda, l’acquaticcio e l’acqua e aceto. Di rado il vino, come pure le uova e il formaggio, e la carne solo nelle feste solenni. Quel poco che ne sappiamo lo desumiamo dalla monografia Della ghianda e della quercia e di altre cose utili a cibo e coltura (Rimini, 1801) del medico di San Leo Michele Rosa (1731-1812).

    In questo opuscolo, ispirato dalle frequenti carestie, e in particolare da quella terribile del 1767, Rosa ci informa sul miserabile pane di tritello, ossia di crusca rimacinata frammista a minime quantità di farina, «primo e principale rifugio di tutto il popolo delle campagne». I contadini, che se ne cibano solo perché di vil prezzo, «lo mangiano con ribrezzo, lo digeriscono con pena, ma tornano costantemente al rogiuolo», ricavandone dissenteria cronica, spossatezza e vertigini. A costoro il medico leontino si propone di insegnare come trarre una sorta di farina dalle ghiande e come confezionare, con questa e altri ingredienti, un accettabile «pan di mistura». Chi però non disponesse né di grano né di fava, ma solo di «formentone e ghianda, non ne faccia pane,» consiglia Rosa «ma si contenti della piadina». Il miserabile impasto di questa piadina d’emergenza andrebbe preparato con «acqua ben calda», un po’ di lievito, sale, aceto e «semi d’anici o finocchio», e la cottura sulla teglia andrebbe fatta a fuoco lento. «La focaccia o piadina» conclude Rosa «sarà tanto più saporita, o tanto meno disgustosa, quanto meglio sarà condita di diligenza».

    A più di un secolo di distanza i contadini del Montefeltro torneranno a ricorrere, nelle emergenze, al pane di ghianda. Lo denuncerà alla Camera dei Deputati, nella seduta del 2 febbraio 1903, un medico illustre, Angelo Celli, eletto nel collegio di Urbino: «Sapete che cosa mangiano, in questo inverno, molti nostri contadini? Le ghiande, come i maiali».

    Michele Rosa menziona nel suo opuscolo anche le patate, «celebrate ormai in tutti i libri», la cui coltivazione era stata però abbandonata «per pura infingardaggine», e delle quali, nell’anno di grazia 1801, «i contadini ignora[va]no per lo più fino il nome». Troviamo anche un accenno a quella «poltiglia di fava franta, corretta di cipolla e di erbe aromatiche» in cui è facile riconoscere la baggiana, una preparazione tuttora in uso sia nell’alta Valmarecchia che nelle montagne marchigiane.

    Ancora nel 1879, e in un comune relativamente prospero come Verucchio, i contadini, in genere coloni, si cibavano «nell’anno, meno l’estate, di schiacciata o farinata di granturco», ossia – traduciamo – di polenta o piada di polenta. I più agiati variavano questo regime «con minestre leguminose e anche con pane e minestre di grano, tutto in sufficienti quantità». Per i più poveri c’era solo la polenta, «alimento scarso ed insalubre». Lo apprendiamo dalla relazione del sindaco di Verucchio allegata al questionario dell’Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, più nota come inchiesta Jacini, degli anni 1876-1881. La stessa relazione ci informa che «la propagazione eccessiva della coltivazione» del mais e «quindi la prevalente nutrizione delle classi indigenti con tale alimento, ha reso oggimai popolare un’altra infermità che vuolsi intitolare malattia della miseria, la pellagra». Negli anni di vacche magre si contavano, su una popolazione di 1.493 individui, fino cinquanta pellagrosi. L’inchiesta sanitaria del 1899 confermerà la maggior diffusione dell’endemia nei comuni di collina, anche alta.

    Occorrerà attendere il secolo XIX inoltrato per cogliere nella cucina casalinga del ceto borghese qualche traccia di identità gastronomica locale. Come ho mostrato più ampiamente altrove, i primi indizi di quelle che saranno le cucine regionali erano apparsi solo nella seconda metà del Settecento, ma perché si contraddistinguessero compiutamente sarebbero occorsi oltre cent’anni. Il processo di diversificazione occuperà l’intero secolo XIX e, paradossalmente, sarà accelerato e quasi favorito dall’unificazione del paese. Solo al termine di questo processo, ossia nel primo decennio del Novecento, si avrà finalmente un quadro nitido delle cucine regionali e locali italiane.

    Per quel che riguarda la vallata del Marecchia, possiamo ricorrere a due diverse raccolte di ricette manoscritte, databili entrambe alla metà dell’Ottocento. La prima, pubblicata da chi scrive sul mensile La Gola nel 1986, proviene dalla famiglia Mattei Gentili, reggitori dell’antico comune di Torricella e proprietari del castello; il ms., mutilo in fine e probabile frammento di un più ampio ricettario, si compone di 11 carte e contiene 53 ricette. La seconda raccolta, edita da Lorenza Bonifazi nel 2006, apparteneva alla famiglia Gambetti Bonifazi di Mercatino Marecchia, oggi Novafeltria, che abitava l’odierno palazzo comunale, già di proprietà dei bolognesi conti Segni; il ms., di 36 carte, comprende 185 ricette.

    Le due raccolte hanno più di un punto in comune: sono pressoché coeve; sono di due località – Novafeltria e Torricella – distanti pochi chilometri l’una dall’altra; furono compilate e utilizzate in seno a due famiglie abbienti; sono scritte in nitida ed elegante grafia, ma alla brava, ad opera di persone «mediamente e talora mediocremente alfabetizzate» (Emilio Faccioli); presentano infine – come vedremo più in là – significative affinità sul piano culinario. Ma sono innanzi tutto ricettari di casa, e cioè raccolte di ricette di vivande e altro redatte da uno o più componenti della medesima famiglia, cuochi e servitori inclusi; raccolte che, avendo natura strettamente privata, non erano destinate alla pubblicazione.

    Contrariamente a quanto potremmo aspettarci, i ricettari domestici non sono espressione – per dirla con Faccioli – di «una cucina di campanile o addirittura di cascina». Una modesta parte delle ricette, di peso variabile da raccolta a raccolta, è certamente legata al territorio d’origine, ma la maggioranza è priva di radici locali.

    Tanto meno i ricettari domestici rispecchiano la cucina feriale delle case, pur agiate, a cui appartenevano. I piatti che vi sono contenuti rappresentano l’eccezione, e proprio per questo – ossia per fissarne la formula e conservarne la memoria – ne venivano messe per iscritto le ricette. Ecco perché mancano quasi del tutto le preparazioni semplici ed economiche che anche una serva analfabeta sapeva cucinare a memoria, mentre abbondano le minestre più elaborate, la cacciagione, i fritti, le salse, i dolci e, insomma, i cibi dei pranzi di rappresentanza e delle feste solenni. La natura dei ricettari di casa è per l’appunto quella di più o meno accurati e ordinati promemoria di ricette variamente apprese, da rispolverare ed eseguire fedelmente all’occasione, e non già di florilegi di recipe originali o di preparazioni caratteristiche del territorio.

    Poco possiamo dire sulle fonti delle due raccolte. A una prima, superficiale analisi, le ricette di provenienza libresca, diretta o indiretta, sembrano costituire l’eccezione e quelle trasmesse oralmente la regola. La derivazione orale si riflette anche nella prosa zoppicante e nel lessico, che largheggia di voci d’estrazione dialettale variamente traslitterate e storpiate.

    Soprattutto nel ricettario Gambetti Bonifazi abbondano piatti delle più varie regioni e dei più diversi paesi, collezionati con palese entusiasmo e quasi con civetteria: dal risotto alla milanese alle beccacce alla veneziana, dall’arrosto alla genovese ai mostaccioli di Napoli; dall’umido alla francese alle pere alla portoghese, dall’insalata polacca alle uova alla russa, dalla pasta americana all’insalata maltese. La raccolta Mattei Gentili ospita, molto più modestamente, gli gnocchi alla veneziana, il fritto alla genovese e le paste di mandorle all’uso di Subiaco. Beninteso non tutte le denominazioni d’origine dei piatti sono reali; si tratta a volte di nomi di fantasia.

    Questi e vari altri piatti sembrano estranei alla cultura del cibo nella Valmarecchia. Altri ancora, invece, e di entrambe le raccolte, documentano l’influenza delle cucine delle tre regioni confinanti: le Marche, in primo luogo, poi la Romagna e infine la Toscana. Sono preparazioni marchigiane, nel ricettario Gambetti Bonifazi, la crescia di Pasqua (affine all’odierna pagnotta pasquale feretrana), i vincisgrassi, il fritto d’oliva verde (vale a dire le olive all’ascolana), il prostinco (leggi bustrengo), il salame di fichi, la visciolata, la coppa alla cingolana, i cotechini di Camerino e le salsicce di fegato. Ritroviamo la pagnotta pasquale anche nel ricettario Mattei Gentili con il nome di pizza di Pasqua.

    I piatti romagnoli della raccolta Gambetti Bonifazi sono i cappelletti (in una versione opulenta del compenso che comprende petto e coscia di cappone, cervellata, midolla, abbondantissimo grasso di rognone, parmigiano, noce moscata e cannella), i ravajoli di ricotta (leggi gnocchetti) e le zucchette ripiene. La ricetta del brodetto di pesce alla marinara, con lo zafferano, è più vicina a quelle marchigiane che a quelle romagnole. Nella raccolta Mattei Gentili i cappelletti sono dati in due versioni: di grasso e di magro; rinveniamo inoltre le ciambelle coll’acqua (sono i romagnoli bracciatelli).

    Si può ravvisare un generico influsso toscano nelle ricette di crostini di pane sciocco: tre nella raccolta Mattei Gentili (di alici, di prosciutto e di olive) e ben cinque nella raccolta Gambetti Bonifazi (di sardine, di prosciutto, di beccaccia, di funghi cardarelli e di un composto agrodolce). Guardano alla Toscana, nella raccolta Mattei Gentili, anche le ricette della pinoccata e della nociata, e, in quella Gambetti Bonifazi, le ricette delle pignoccate e dei biscottini di ànisi.

    L’alto numero di dolci e dolcetti (34 nel ricettario Gambetti Bonifazi e 35, su 53 item, nel ricettario Mattei Gentili) rimanda più in generale all’Italia centrale e mostra che il territorio a cavallo tra Romagna, Marche e Toscana esprimeva in passato, e continua in parte ad esprimere, una cultura dei dolci (conserve, sciroppi, vini passiti e vini di frutta inclusi) complessivamente superiore a quella romagnola.

    Comune alle due raccolte di ricette, in definitiva, è il modesto rilievo delle impronte locali: più orientate, queste, verso le Marche e la Toscana che non verso la Romagna. Altro tratto comune è la preponderanza, oltre che di dolci, di piatti festivi o comunque dispendiosi. Il ricettario Mattei Gentili ha però, in proporzione, un maggior numero di piatti di tutti i giorni o legati alle festività canoniche del ciclo dell’anno, dai maritozzi di quaresima alle pizze di Pasqua, ai ciambelloni di Natale. Troviamo qualche piatto (relativamente) povero anche nel ricettario Gambetti Bonifazi: la favetta mista, la fagiolata, la trippa e il capon di galera, un’umile variante siciliana del ligure cappon magro, riportata anche nell’Apicio moderno di Francesco Leonardi (Roma, 1797).

    Tutt’e due le raccolte presentano tratti ibridi e arcaizzanti; entrambe annoverano diversi piatti agrodolci e dolci-salati e, ancor più numerosi, piatti ben speziati. Nel ricettario Mattei Gentili, in particolare, le cosiddette spezie dolci, cannella in testa, sono presenti in più della metà delle preparazioni, dai crostini di prosciutto e di alici ai cappelletti sia di grasso che di magro, agli gnocchi alla veneziana, al fritto di regaglie, a gran parte dei dolci.

    Eclettismo e conservatorismo sono caratteri che contraddistingueranno, fin quasi ai giorni nostri, la cucina della Valmarecchia: cucina che potrà formarsi, qui come altrove, solo quando una parte rilevante della popolazione uscirà da una condizione di pura sussistenza, vale a dire dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. La comporranno un numero limitato di piatti: pochissime preparazioni di remota ascendenza aristocratica in versione semplificata, i piatti meno complessi della più recente tradizione borghese, e soprattutto i piatti contadini dei giorni di festa e i meno poveri tra quelli dei giorni feriali. A praticare questa cucina e a fornirle progressivamente un’identità riconoscibile sarà un ceto variegato composto da piccoli e medi proprietari terrieri, artigiani, commercianti e parte del proletariato rurale e di paese. Ma a modellare la cucina della valle saranno soprattutto le risorse del territorio – animali e vegetali, spontanee e coltivate –, nonché gli influssi delle cucine confinanti: la romagnola, la marchigiana e la toscana.

    La cucina della vallata, in effetti, è la somma di tre cucine: quella dell’alta Valmarecchia ha tratti distintivi quasi integralmente toscani; quella della media valle è una cucina marchignola – per usare un termine caro a Fabio Tombari (e a Delio Bischi) –, ovvero segnata in pari misura dai sistemi di sapori della Marca pesarese e della Romagna meridionale; quella infine della bassa Valmarecchia è tutti gli effetti una cucina romagnola. Va aggiunto per altro che fra queste tre cucine non c’è una vera e propria soluzione di continuità e che, nel tempo, si sono andate sempre più contaminando e uniformando: si pensi solo alla progressiva, irresistibile estensione a monte dell’area della piadina.

    Non sono solamente gli usi regionali a incidere sulla cucina della Valmarecchia. Altrettanto e più peso hanno avuto ed hanno le diverse fasce in cui si suddivide il territorio: la bassa collina, l’alta collina e la zona submontana. Sono queste, soprattutto, a localizzare e delimitare le diverse culture – o saperi – del cibo: la cultura del pane e delle pagnotte da un lato (e, naturalmente, dei crostini, delle bruschette, della panzanella e delle zuppe) e la cultura della piada dall’altro; la cultura dei funghi e quella delle misticanze e delle erbe spontanee; la cultura delle castagne e quella delle noci; la cultura dell’ulivo e quella della vite; la cultura dei formaggi, ereditata e rinverdita, negli ultimi decenni, dai pastori sardi; la cultura della carne ovina e quella della carne bovina; la cultura della cottura alla brace e quella della cottura in tegame; e via enumerando.

    La cucina della Valmarecchia è nel complesso, proprio per il suo eclettismo, una cucina relativamente ricca e varia, con più d’un punto di forza. L’altra sua caratteristica, che condivide con le altre cucine di confine, è il conservatorismo, che ha consentito, soprattutto nell’alta e media valle, di preservare e tramandare preparazioni, tecniche e sapori vecchi di secoli. Ho già ricordato la baggiana di fave, piatto descritto dettagliatamente nella cosiddetta Lettera sulle insalate del medico Costanzo Felici, scritta intorno al 1565. Felici menziona inoltre, fra le altre preparazioni tuttora in uso, le minestre di piselli e di lenticchie, la zuppa di farro, i «tortelli, raffioli e simili fantasie» con ripieno d’erbe, i funghi arrostiti sulla brace o stufati in tegame, le frittelle e le torte di erbe.

    Hanno tratti arcaici, o arcaizzanti, piatti perlopiù semplici e poveri come la buzzega di Sant’Agata Feltria, la polenta con la ricotta e i cascioni con la zucca di Casteldelci, il bustrengo di Secchiano, le crescioline di Pennabilli, i crostoli e il pan nociato dell’alta Valmarecchia. Anche preparazioni canoniche della cucina romagnola e marchigiana – come i cappelletti, i tortelli e le stesse tagliatelle al ragù – mostrano talvolta, nelle versioni marecchiesi, caratteri conservativi, a cominciare dalla presenza di una maggiore varietà e quantità di spezie. Nelle carni al tegame resiste tenacemente, qua e là, il gusto dolce-forte.

    I processi di globalizzazione e omologazione degli ultimi decenni non hanno risparmiato, com’era inevitabile, la vallata del Marecchia, e se nelle case si va inaridendo o ha fine del tutto la trasmissione dei saperi gastronomici fra le generazioni, i ristoranti, con rare eccezioni, praticano una cucina sempre più monocorde e ripetitiva – genericamente toscana nell’alta valle e genericamente romagnola nella media e bassa valle –, con innovazioni creative perlopiù velleitarie. Del resto, anche a leggere le recensioni sulla Rete, i parametri dei clienti restano sostanzialmente tre: la prevedibilità dei piatti, la sovrabbondanza delle porzioni e il prezzo stracciato.

    Ricette

    STORIONE ALLA STEFANI

    Procurarsi uno storione di almeno cinque chilogrammi di peso. Pulirlo e disporlo in una pesciera di convenienti dimensioni. Rosolarlo leggermente nel burro, quindi salarlo, bagnarlo con abbondante vino bianco secco, aromatizzarlo con foglie d’alloro e cuocerlo in forno a temperatura moderata. Cotto che sia, condirlo con un’emulsione di olio d’oliva, succo di limone e pepe nero pestato nel mortaio. Si serve caldo.

    (Ricetta tratta da B. Stefani, L’arte di ben cucinare, Mantova, 1662)

    TRIGLIE ALLA STEFANI

    Utilizzare triglie di medie dimensioni. Pulirle, condirle con olio d’oliva e sale, avvolgerle in carta oleata e cuocerle sotto la cenere (oggi si può usare la carta da forno e la cottura in forno può sostituire quella sotto la cenere). Una volta cotte, condire le triglie con succo di limone e pepe nero pestato nel mortaio. Servirle ben calde.

    (Ricetta tratta da B. Stefani, L’arte di ben cucinare, cit.)

    ZUPPA DI CASTRATO

    Preparare un ragù con carne di castrato battuta al coltello. Il ragù dovrà risultare saporito, piccante (grazie al pepe e al peperoncino) e piuttosto liquido che ristretto. Preparare inoltre del brodo di carne. Arrostire delle fette di pane toscano raffermo, bagnarle nel brodo e disporne uno strato in un tegame largo. Cospargere le fette con abbondante ragù e, volendo, spolverizzare con pecorino grattugiato. Procedere in questo modo, a strati alternati di pane e ragù, fino a colmare il tegame o esaurire gli ingredienti. Incoperchiare il tegame e cuocere a fuoco basso per qualche minuto. Servire la zuppa caldissima.

    (Adattamento della ricetta aretina della zuppa di carne, tratta da G. Gianni, La cucina aretina, Padova, 1990, p. 36)

    POLLO ARROSTO FREDDO

    Pulire un pollo giovane e condirlo dentro e fuori con finocchio selvatico, salvia, rosmarino, pepe e sale. Metterlo in una teglia e bagnarlo con olio d’oliva e succo di limone. Lasciarlo marinare al fresco per una notte. L’indomani cuocerlo a forno moderato per circa due ore. Farlo a pezzi e coprirlo completamente con del brodo fatto con ossa bovine, testa e zampe del pollo e odori (sedano, carota, una piccola cipolla e chiodo di garofano). Cuocere a fuoco lento finché il brodo non si sarà ridotto di due terzi. Lasciare raffreddare e servirne alcuni pezzi con la propria gelatina.

    (Adattamento di una vecchia ricetta urbinate, pollo o tacchino alla ‘gossuta’, tratta da V. Valentini, Tutti a tavola, Fano, 2004, p. 127)

    BAGGIANA DI FAVE

    Lessare fave fresche passate di maturazione (baggiotte) insieme a cipolle, bietole o altre erbette, aglio, semi di finocchio selvatico, sale e pepe. Cuocere a fuoco moderato per circa un’ora e mezza.

    (Versione della baggiana di Sassocorvaro, tratta da V. Valentini, Tutti a tavola, cit., p. 174)

    PIZZA DI PASQUA

    [Acquistare] 5 soldi di lievito. Si rinfresca la sera con una tazza d’acqua calda ed un uovo [e] si lascia sciolto senza intridervi farina; dopo circa due o tre ore si torna a rinfrescare con altre due uova e s’impasta con un po’ di fiore [di farina], in modo però che resti la pasta leggerissima. La mattina appresso s’intride con una libbra e mezza [circa mezzo chilo] di zucchero, 12 uova, una libbra [g. 340 circa] di distrutto, 5 soldi di cannella e 5 libbre [un chilo e mezzo circa] di fiore, compreso quello del lievito. Le uova si debbono battere la sera collo zucchero.

    (Ricetta n. 17 dal Ricettario di Torricella, Rimini, Biblioteca Gambalunghiana, ms. 1287, c. 4)

    CAPPELLETTI DI GRASSO [I]

    Si prende un petto di cappone o d’altro pollo [e] si unisce con molto midollo o schienale di vitella; si batte ben bene, dopo di che si unisce qualche tuorlo d’uovo, molto parmigiano, cannella e piccola cosa di noce moscata. Si fanno quindi i cappelletti con la sfoglia.

    (Ricetta n. 42 dal Ricettario di Torricella, cit., c. 9v)

    CAPPELLETTI DI MAGRO [I]

    Si prende una quantità di ricotta proporzionata al numero dei commensali; si scioglie con rossi d’uovo, vi si aggiunge una buona dose di parmigiano, noce moscata ed un piccolo odore di cannella. Si formano poi dei piccoli cappelletti che si cuociono all’acqua e sale. Quando saranno bene scolati, si condiscono con burro e parmigiano. È bene farli riscaldare al forno oppure col fuoco sopra.

    (Ricetta n. 43 dal Ricettario di Torricella, cit., c. 10r)

    CIAMBELLE COLL’ACQUA

    Nel fare il pane, si toglie un piatto di lievito, si mette in un po’ di farina, vi si mette mezzo bicchiere d’olio, un po’ di sale ed un pugno d’ànisi e si ammassa coll’acqua tiepida. La pasta deve essere più dura di quella del pane. Si mettono a lievitare e ci debbono stare il doppio [del] tempo del pane; quando

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