Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Wintersong
Wintersong
Wintersong
E-book459 pagine6 ore

Wintersong

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Uno dei romanzi più attesi dell'anno

Un labirinto di bellezza e oscurità, musica e magia. Questo è il mondo in cui ti perderai

L’inverno si avvicina, e il Re dei Goblin sta per partire alla ricerca della sua sposa… 
Sin da quando era una bambina, Liesl ha sentito infiniti racconti sui Goblin. Quelle leggende hanno popolato la sua immaginazione e ispirato le sue composizioni musicali. Adesso ha diciotto anni, lavora nella locanda di famiglia e sente che tutti i sogni e le fantasticherie le stanno scivolando via dalle mani, come minuscoli granelli di sabbia. Ma quando sua sorella viene rapita dal Re dei Goblin, Liesl non ha altra scelta che mettersi in viaggio per tentare di salvarla. E così si ritrova catapultata in un mondo sconosciuto, strano e affascinante, costretta ad affrontare una decisione fatale. Ricco di musica e magia, personaggi straordinari e storie avvincenti e romantiche, Wintersong trasporta il lettore in un’atmosfera indimenticabile.

Il romanzo più atteso dell’anno
Un esordio fantastico
Un labirinto di emozioni

«Avvincente, sensuale e romantico, Wintersong è una gioia per i sensi. Avrei voluto che non finisse mai.» 
Renée Ahdieh, autrice del bestseller La moglie del califfo

«Jae-Jones descrive splendidamente la magia dell’amore, il potere della musica e l’importanza del libero arbitrio.»
Publishers Weekly

«Un racconto di straordinaria bellezza, poetico e nostalgico sulla lealtà e la sapienza femminile.»
Booklist

«Una storia con la struttura di una sonata: il movimento finale culmina in un colpo di scena che lascerà i lettori a bocca aperta.»
Kirkus Reviews
S. Jae-Jones
è un’artista e una scrittrice. Nata e cresciuta nella soleggiata Los Angeles, ha vissuto dieci anni a New York – dove ha lavorato come editor di narrativa Young Adult – prima di trasferirsi nel North Carolina. Quando non è impegnata a scrivere, la si può trovare a scalare rocce, praticare skydiving, far fotografie, disegnare o trascinare il suo cane in lunghissime escursioni. Wintersong è il suo esordio nella narrativa.
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2017
ISBN9788822712707
Wintersong

Correlato a Wintersong

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Wintersong

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Wintersong - Jones

    tavola

    Indice

    OUVERTURE

    PARTE I. IL MERCATO DEI GOBLIN

    Sta’ attenta ai goblin

    Comprate, comprate

    Ora appartiene al Re dei Goblin

    Virtuoso

    L’audizione

    Lo sconosciuto alto ed elegante

    INTERMEZZO

    Un mondo ideale

    Una bella bugia

    La dura verità

    Sacrificio

    PARTE II. IL BALLO DEI GOBLIN

    Fuochi fatui

    Occhi aperti

    Il nostro gioco

    La sposa

    Le antiche leggi

    Strano, dolce

    Una vittoria di Pirro

    Resurrezione

    PARTE III. LA REGINA DEI GOBLIN

    Consacrazione

    Il matrimonio

    La notte di nozze

    Pungi e sanguina

    Coloro che vennero prima

    Vieni a giocare

    Changeling

    Pietà

    Amore in do maggiore

    PARTE IV. IL RE DEI GOBLIN

    La morte e la fanciulla

    Forse sognare

    Sinfonia incompleta

    La soglia

    Zugzwang

    Giustizia

    Resta con me

    La storia della fanciulla coraggiosa

    Le Sonate dei Misteri

    Il ritorno

    Amato immortale

    Ringraziamenti

    narrativa_fmt.png

    1716

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Titolo originale: Wintersong

    Copyright © 2017 by S. Jae-Jones

    All rights reserved

    Translation rights arranged by

    Jill Grinberg Literary Management LLC and The Italian Literary Agency

    Traduzione dall’inglese di Angela Ricci

    Prima edizione ebook: ottobre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1270-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Sandro Ristori

    S. Jae-Jones

    Wintersong

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    A Schermata1.png ,

    per essere stata la migliore nonna da favola di tutti i tempi.

    Schermata2.png

    Ouverture

    C’era una volta una bambina che suonava la sua musica per un bambino nella foresta. Lei era piccola e aveva i capelli scuri, lui era alto e aveva i capelli biondi, ed erano una bellissima coppia mentre ballavano insieme, sì, ballavano al suono della musica che la bambina sentiva nella sua testa.

    Sua nonna le aveva detto di stare attenta ai lupi che si aggiravano nella foresta, ma la bambina sapeva che il bambino non era pericoloso, anche se era il Re dei Goblin.

    «Vuoi sposarmi, Elisabeth?», le chiese lui, e lei non si domandò come facesse a sapere il suo nome.

    «Oh», rispose, «ma sono troppo giovane per sposarmi».

    «Allora aspetterò», disse il bambino. «Finché tu ricorderai, io aspetterò».

    E la bambina rise mentre danzava con il Re dei Goblin, quel bambino che era solo un po’ più grande di lei, e un po’ irraggiungibile.

    Le stagioni cambiarono e gli anni passarono e la bambina crebbe, ma il Re dei Goblin rimase uguale. Lei lavava i piatti, puliva i pavimenti, spazzolava i capelli di sua sorella, ma continuava a correre nella foresta per incontrare il suo vecchio amico tra gli alberi. I loro giochi adesso erano diversi, Obbligo o Verità, e poi gare e sfide.

    «Vuoi sposarmi, Elisabeth?», chiese il bambino, e la bambina ancora non capiva che quella domanda non era un gioco.

    «Oh», rispose. «Ma tu ancora non hai conquistato la mia mano».

    «Allora la conquisterò», ribatté lui. «La conquisterò, e tu ti arrenderai».

    E la bambina rise mentre giocava contro il Re dei Goblin e perdeva ogni mano e ogni partita.

    L’inverno si trasformò in primavera, la primavera in estate, l’estate in autunno, l’autunno di nuovo in inverno, ma ogni anno che passava rendeva le cose più difficili, perché la bambina cresceva mentre il Re dei Goblin restava sempre uguale. Lei lavava i piatti, puliva i pavimenti, spazzolava i capelli di sua sorella, calmava le paure di suo fratello, custodiva il borsello di suo padre e contava le monete, e aveva smesso di andare nella foresta per incontrare il suo vecchio amico.

    «Vuoi sposarmi, Elisabeth?», chiese il Re dei Goblin.

    Ma la bambina non rispose.

    Parte I

    IL MERCATO DEI GOBLIN

    Non dobbiamo guardare i folletti,

    non dobbiamo comprare la frutta che vendono:

    chissà quale suolo ha nutrito

    quelle radici affamate e assetate?

    Christina Rossetti, Il mercato dei folletti

    Sta’ attenta ai goblin

    «Sta’ attenta ai goblin», disse Constanze. «E alle merci che vendono».

    Sussultai quando vidi l’ombra di mia nonna coprire tutto a un tratto i miei appunti, gettando scompiglio tra i miei pensieri e tra i miei fogli. Mi affrettai a nascondere la mia musica, tremando di vergogna, ma Constanze non stava parlando con me. Era impalata sulla soglia e guardava accigliata mia sorella, Käthe, che si pavoneggiava davanti allo specchio della camera da letto, l’unico di tutta la nostra locanda.

    «Stammi bene a sentire, Katharina». Constanze puntò un dito nodoso verso mia sorella. «La vanità porta alla tentazione ed è segno di scarsa forza di volontà».

    Käthe la ignorò e continuò a pizzicarsi le guance e ravvivare i riccioli. «Liesl», disse prendendo un cappello dalla toletta. «Potresti darmi una mano con questo?».

    Riposi i miei appunti nel piccolo scrigno in cui li conservavo. «È solo un mercato, Käthe, non un ballo. Andiamo giusto a prendere gli archetti di Josef da Herr Kassl».

    «Liesl», piagnucolò lei. «Per favore».

    Constanze bofonchiò e sbatté il bastone sul pavimento, ma né io né mia sorella ci badammo. Eravamo abituate ai burberi rimproveri della nonna.

    «Fatto», sospirai. Nascosi lo scrigno sotto il nostro letto e mi alzai per appuntare il cappello sulla chioma di Käthe.

    Il cappello era una notevole creazione di seta e piume, un’affettazione ridicola, specialmente nel nostro piccolo villaggio di provincia. Ma anche mia sorella era ridicola, perciò lei e il cappello formavano una bella coppia.

    «Ahia», disse Käthe quando per sbaglio la punsi con uno spillone. «Guarda dove metti quell’affare».

    «Allora impara a vestirti da sola». Le sistemai per bene i boccoli e le misi uno scialle per coprirle le spalle nude. L’abito di mia sorella era a vita alta, stretto appena sotto il seno, e le sue linee semplici mostravano ogni singola curva della sua figura. Käthe riteneva fosse l’ultima moda a Parigi, ma ai miei occhi era scandalosamente nuda.

    «Pff», sbuffò Käthe ammirando il suo riflesso allo specchio. «Sei solo gelosa».

    Risposi con una smorfia. Käthe era la bella della famiglia, con i suoi capelli dorati, gli occhi azzurro vivo, le guance rosee e la figura ben tornita. A soli diciassette anni già sembrava una donna adulta, con il seno piccolo e i fianchi generosi, messi in risalto dal vestito nuovo. Io ero più grande di lei di circa due anni, ma sembravo ancora una bambina: bassetta, mingherlina e con un colorito giallastro. Mio papà mi chiamava Piccola hobgoblin, un goblin buono, secondo le leggende. Per Constanze invece ero Fatina. Solo Josef mi diceva che ero bella. Non ero carina per mio fratello. Ero bella.

    «Sì, sono gelosa», dissi. «Ora possiamo andare al mercato?»

    «Un attimo». Käthe rovistò fra le sue chincaglierie. «Che ne pensi, Liesl?», mi chiese mostrandomi qualche nastro. «Rosso o blu?»

    «Cambia qualcosa?».

    Lei sospirò. «Suppongo di no. Nessuno dei ragazzi del villaggio mi noterà ora che sono promessa in sposa». Giocherellò mesta con i pizzi del suo abito. «Hans non è il massimo né quanto a divertimento né quanto a eleganza».

    Serrai le labbra. «Hans è un uomo per bene».

    «Già, per bene e noioso», disse Käthe. «L’hai visto l’altra sera al ballo? Non mi ha mai chiesto di ballare, nemmeno una volta. È rimasto tutto il tempo in un angolo a lanciarmi occhiate di disapprovazione».

    Questo perché Käthe stava flirtando senza pudore con un gruppo di soldati austriaci diretti a Monaco per combattere i francesi. «Ehi, bellezza», la stuzzicavano con il loro buffo accento austriaco, «dai, vieni a darci un bacio!».

    «Una donna lasciva è come un frutto maturo», sentenziò Constanze, «che implora il Re dei Goblin di coglierlo».

    Un fremito di agitazione mi salì lungo il midollo. Nostra nonna adorava spaventarci con i racconti dei goblin che vivevano nei boschi dietro il nostro villaggio, ma né Käthe, né Josef, e nemmeno io avevamo più preso sul serio quelle storie da quando eravamo cresciuti. A diciotto anni ero troppo grande per i racconti di mia nonna, ma continuavo a provare un brivido di colpevole inquietudine ogni volta che veniva menzionato il Re dei Goblin. Nonostante tutto, credevo ancora nella sua esistenza. O meglio, volevo ancora crederci.

    «Oh, va’ a sbraitare contro qualcun altro, vecchiaccia». Käthe mise il broncio. «Perché devi sempre avercela con me?»

    «Tieni bene a mente le mie parole». Avvolta tra gli strati di pizzo ingiallito e le pieghe sbiadite dell’abito, Constanze lanciò un’occhiataccia a mia sorella. I suoi occhi marrone scuro erano l’unico tratto ancora affilato del suo volto rugoso. «Bada a te, Katharina! Che i goblin non vengano a prenderti per i tuoi comportamenti licenziosi!».

    «Basta così, Constanze», dissi. «Lascia in pace Käthe e facci andare per la nostra strada. Dobbiamo tornare prima che arrivi maestro Antonius».

    «Già! Non sia mai che ci perdiamo l’audizione del caro, piccolo Josef con l’illustre maestro di violino», borbottò mia sorella.

    «Käthe!».

    «Lo so, lo so», sospirò. «Smettila di preoccuparti, Liesl. Andrà tutto bene. Sei peggio di una gallina quando una volpe si avvicina al pollaio».

    «Non andrà affatto tutto bene se Josef non avrà archetti con cui suonare». Mi voltai e feci per andarmene. «Forza, vieni, o me ne vado senza di te».

    «Aspetta». Käthe mi prese la mano. «Non vuoi che dia una sistemata ai tuoi capelli? Hai dei riccioli così belli, è un peccato portarli sempre legati in una treccia. Potrei…».

    «Uno scricciolo rimane uno scricciolo, anche se si traveste da pavone», tagliai corto. «Non stare a perdere tempo. Figurati se Hans – o qualcun altro – si accorgerà mai della differenza».

    Mia sorella trasalì sentendo il nome del suo promesso sposo. «Bene, allora», tagliò corto, dopodiché mi superò senza dire una sola parola.

    «Kä…», iniziai, ma Constanze mi fermò prima che potessi continuare.

    «Ragazza mia, tieni d’occhio tua sorella», mi mise in guardia. «Prenditi cura di lei».

    «Non lo faccio forse da sempre?», sbottai. Tenere la famiglia unita era sempre stato compito mio – mio e della mamma. La mamma badava alla locanda, che era allo stesso tempo la nostra abitazione e la nostra fonte di sostentamento; io badavo ai membri della famiglia che facevano di quel posto una vera casa.

    «Ah sì?». Mia nonna mi scrutò in viso con i suoi occhi scuri. «Sai, Josef non è l’unico ad aver bisogno di qualcuno che badi a lui».

    Aggrottai la fronte. «Che vuoi dire?»

    «Hai dimenticato che giorno è oggi?».

    A volte era più semplice assecondare Constanze che ignorarla. Sospirai. «E che giorno sarebbe?»

    «Il giorno in cui il vecchio anno muore».

    Un altro brivido mi percorse la schiena. Mia nonna seguiva ancora le vecchie leggi e il vecchio calendario, e quell’ultima notte d’autunno segnava la morte dell’anno appena passato, il momento in cui la barriera tra i mondi si assottigliava. Durante i giorni d’inverno gli abitanti del Sottosuolo vagavano sulla terra, finché non ricominciava un nuovo anno, in primavera.

    «L’ultima notte dell’anno», disse Constanze. «Ora hanno inizio i giorni d’inverno e il Re dei Goblin cavalcherà in lungo e in largo alla ricerca di una sposa».

    Distolsi lo sguardo. Una volta me ne sarei ricordata da sola, senza bisogno di suggerimenti. Una volta avrei aiutato la nonna a spargere sale su ogni davanzale, su ogni soglia e ogni ingresso, come precauzione contro i pericoli di quelle notti selvagge. Una volta, certo, una volta. Ma non potevo più permettermi il lusso di indugiare in tali fantasie. Era tempo, come diceva l’apostolo Paolo ai Corinzi, di mettere via le cose da bambini.

    «Ora non ho tempo». Scostai Constanze. «Lasciami passare».

    Il dolore scavò le rughe sul viso di mia nonna in solchi ancora più profondi. Il dolore e la solitudine. Le spalle curve cedevano sotto il peso delle sue credenze. Adesso era rimasta da sola a sostenerle. Nessuno di noi credeva più nell’Erlkönig, l’altro nome del Re dei Goblin. Nessuno eccetto Josef.

    «Liesl!», gridò Käthe dal piano di sotto. «Posso prendere in prestito il tuo mantello rosso?»

    «Bada bene a quel che scegli, ragazza mia», mi disse Constanze. «Josef non fa parte di questo gioco. Quando l’Erlkönig gioca, gioca per sempre».

    Le sue parole mi fecero esitare. «Di cosa stai parlando?», chiesi. «Quale gioco?»

    «Dimmelo tu». La sua espressione era grave. «I desideri espressi nelle tenebre hanno sempre delle conseguenze e il Signore degli Inganni regola sempre i suoi conti».

    Le sue parole si conficcarono come spilli nella mia testa. Ricordai che mia madre mi aveva messo in guardia dai discorsi strani e un po’ antiquati di Constanze, tuttavia la nonna mi pareva lucida e seria, perciò un filo di paura cominciò a raschiarmi la gola.

    «Era un sì?», disse Käthe. «Allora lo prendo!».

    Brontolai. «No, non puoi!», dissi, sporgendomi dal parapetto. «Le starò vicino, lo prometto!».

    «Promesse, eh?». Constanze scoppiò in una risata fragorosa. «Ne fai talmente tante, quante riesci davvero a mantenerne?»

    «Che…», cominciai a dire, ma quando mi voltai mia nonna se n’era andata.

    Al piano di sotto, Käthe aveva preso il mio mantello rosso dall’appendiabiti, ma io glielo strappai di mano e me lo misi sulle spalle. L’ultima volta che Hans ci aveva portato dei doni dalla fabbrica di stoffe di suo padre – prima di chiedere la mano di Käthe, prima che le cose tra noi cambiassero – ci aveva regalato un meraviglioso gomitolo di lana pesante. «Per tutta la famiglia», aveva detto, ma tutti avevano capito che quel regalo era per me. Il gomitolo era color rosso sangue, molto cupo, stava benissimo con i miei colori più scuri e la mia carnagione giallastra. Mia madre e Constanze l’avevano usato per farmi un mantello invernale e Käthe non aveva mai nascosto quanto le piacesse.

    Passammo davanti alla sala grande, dove nostro padre stava suonando delle vecchie arie sognanti con il violino. Mi guardai intorno, aspettandomi dei clienti, ma la sala era vuota, il caminetto freddo e le braci spente. Papà indossava ancora gli abiti della sera precedente e tutto intorno a lui aleggiavano zaffate di birra stantia, come banchi di nebbia.

    «Dov’è mamma?», chiese Käthe.

    Nostra madre non si vedeva da nessuna parte, e probabilmente era per questo che nostro padre aveva avuto l’audacia di mettersi a suonare nella sala grande, dove chiunque avrebbe potuto sentirlo. Il violino era un tasto dolente per i nostri genitori. Non avevamo molti soldi, perciò mia madre avrebbe preferito che mio padre si facesse pagare invece di suonare solo per piacere personale. Ma forse l’imminente arrivo del maestro Antonius aveva allentato i cordoni della borsa della mamma, oltre che quelli del suo cuore. Il famoso artista si sarebbe fermato alla nostra locanda nel corso del suo viaggio da Vienna a Monaco appositamente per ascoltare il mio fratellino.

    «Probabilmente adesso sta facendo un pisolino», suggerii. «Ci siamo alzate prima dell’alba per pulire le stanze di maestro Antonius».

    Nostro padre era un violinista impareggiabile, in passato aveva suonato con i migliori musicisti della corte di Salisburgo. E proprio a Salisburgo, così si vantava, aveva avuto il privilegio di suonare con Mozart, in uno degli ultimi grandi concerti del compositore. «Un genio come il suo», diceva papà, «viene fuori una volta ogni secolo. O anche ogni due. A volte però», continuava lanciando un’occhiata a Josef, «capita che un fulmine cada due volte nello stesso posto».

    Josef non era insieme agli altri ospiti. Il mio fratellino era timido nei confronti degli sconosciuti, probabilmente si stava nascondendo nella Radura dei Goblin, si esercitava finché le dita non gli sanguinavano. Il mio cuore si rallegrò all’idea di vederlo, e provai una fitta di dolore alla punta delle dita per empatia.

    «Bene, mi pare di capire che non sentirete la mia mancanza», disse Käthe allegra. Mia sorella era bravissima a trovare scuse per non fare le faccende. «Andiamo».

    Fuori l’aria era pungente. Era una giornata insolitamente fredda anche se ormai eravamo nel cuore dell’autunno. La luce era soffusa, debole e tremolante, come ostruita da una tenda o da un velo. Una nebbia sottile avvolgeva gli alberi lungo il sentiero che portava in città, trasformando i rami adunchi in membra dall’aria spettrale. L’ultima notte dell’anno. In giornate come questa riuscivo quasi a credere davvero che la barriera tra i mondi si fosse fatta più sottile.

    Il sentiero che portava in città era costellato di escrementi di cavalli, da buche e dai solchi lasciati dalle ruote dei carri. Io e Käthe stavamo ben attente a camminare sul ciglio della strada, dove l’erba corta e rinsecchita impediva all’umidità di penetrare nei nostri stivali.

    «Ugh». Käthe passò accanto all’ennesima pozza di escrementi. «Quanto vorrei che potessimo permetterci un carro».

    «Se solo i nostri desideri avessero un qualche potere», dissi.

    «Allora sarei la persona più potente della terra», commentò Käthe. «Io ne ho a dozzine. Immagina, Liesl: se fosse, se fosse, se fosse…».

    Sorrisi. Da piccole io e Käthe andavamo pazze per il gioco del Se fosse. La fantasia di mia sorella non si estendeva al soprannaturale, al contrario della mia e di quella di Josef, tuttavia Käthe aveva una straordinaria capacità immaginativa.

    «E se fosse?», chiesi a bassa voce.

    «Giochiamo», disse lei. «Il nostro mondo immaginario ideale. Comincia tu».

    «Va bene». Mi venne in mente Hans, ma poi allontanai quel pensiero. «Josef sarebbe un musicista famoso».

    Käthe fece una smorfia. «Stai sempre a parlare di Josef. Non hai dei sogni tuoi?».

    Li avevo, ma erano chiusi in una scatola, al sicuro sotto il letto che condividevamo. Nessuno doveva vederli o sentirli, mai.

    «E va bene», dissi. «Allora comincia tu, Käthe. Il tuo mondo ideale».

    Lei rise, un suono allegro e squillante come quello di una campanella. L’unica cosa musicale di mia sorella, praticamente. «Io sono una principessa».

    «Ovvio».

    Käthe mi lanciò un’occhiataccia. «Io sono una principessa e tu sei la regina. Contenta adesso?».

    Le feci cenno di continuare.

    «Dunque, sono una principessa», proseguì. «Papà è il Kapellmeister, ovvero il maestro di musica del principe vescovo, e viviamo tutti a Salisburgo».

    Io e Käthe eravamo nate a Salisburgo, quando papà era musicista di corte e mamma cantava in un coro, prima che la povertà ci spingesse a trasferirci nelle foreste della Baviera.

    «Mamma è l’idolo della cittadinanza per via della sua bellezza e della sua voce, e Josef è l’allievo prediletto di maestro Antonius».

    «E studia a Salisburgo?», chiesi. «Non a Vienna?»

    «Facciamo a Vienna», si corresse Käthe. «Oh sì, Vienna». I suoi occhi azzurri scintillavano mentre dava spago alla sua fantasia. «Ovviamente andiamo sempre a trovarlo. E magari anche a vedere i suoi concerti a Parigi, a Mannheim, a Monaco e persino a Londra! Dovremmo avere una grande casa in ognuna di queste città, tutta d’oro e marmo e legno di mogano. Avremmo abiti fatti della seta e dei broccati più pregiati, un colore diverso per ogni giorno della settimana. La nostra cassetta della posta sarebbe invasa ogni giorno di inviti ai balli più eleganti, e alle feste, e all’opera, e a teatro. E ci sarebbe sempre un nugolo di corteggiatori ai cancelli, pronti a tutto per guadagnarsi i nostri favori. Gli artisti e i musicisti più importanti sarebbero i nostri più cari amici e faremmo festa tutte le sere mangiando dolci e pasticci e schnitzel e…».

    «Torta al cioccolato», aggiunsi. Era la mia preferita.

    «Torta al cioccolato», concordò Käthe. «E poi avremmo le carrozze e i cavalli più belli di tutti e…». Strillò e scivolò su una pozzanghera fangosa. «E non dovremmo mai più andare al mercato a piedi, su una strada non lastricata».

    Risi e l’aiutai a recuperare l’equilibrio. «Feste, balli, compagnia elegante. È questo che fanno le principesse? E le regine? Io?»

    «Tu?». Käthe rimase in silenzio per un istante. «No. Le regine sono destinate a fare cose grandi».

    «Grandi?», scherzai. «Una ragazza semplice e povera come me?»

    «Tu hai qualcosa di molto più duraturo della bellezza», disse lei seria.

    «E cosa sarebbe?»

    «La grazia», rispose Käthe. «Grazia e talento».

    Risi di nuovo. «Quindi quale sarebbe il mio destino?».

    Mi lanciò un’occhiata obliqua. «Diventare una compositrice di grande fama».

    Mi sentii attraversare da una folata di vento freddo che mi congelò fin dentro le ossa. Era come se mia sorella mi avesse affondato una mano nel petto e avesse tirato fuori il mio cuore ancora pulsante, stretto nel pugno. Ogni tanto buttavo giù qualche abbozzo di melodia, scribacchiavo qualche piccola aria sugli angoli del libretto domenicale dei canti, pensando un giorno di riunirle in sonate e concerti, romanze e sinfonie. I fragili brandelli dei miei sogni e delle mie lacere speranze erano rimasti avvolti nel segreto così a lungo che non avevo più la forza di portarli alla luce.

    «Liesl?». Käthe mi tirò per una manica. «Liesl, ehi, è tutto a posto?»

    «Come…», dissi con voce roca. «Come hai…?».

    Käthe era imbarazzata. «Un giorno ho trovato la scatola con le tue composizioni sotto il letto. Giuro che non volevo fare niente di male», aggiunse subito. «Ma stavo cercando un bottone che mi era caduto e…». La sua voce si spense mentre alzava lo sguardo su di me.

    Mi tremavano le mani. Come aveva osato? Come aveva osato penetrare nei miei pensieri più privati e posarci sopra i suoi occhi curiosi?

    «Liesl?». Käthe pareva preoccupata. «Che succede?».

    Non risposi. Non potevo rispondere. Mia sorella non avrebbe mai capito quanto mi aveva fatto torto. Lei non aveva nemmeno un pizzico di talento musicale, il che nella nostra famiglia era una specie di sacrilegio. Mi voltai e mi incamminai di nuovo in direzione del mercato.

    «Cosa ho detto?». Mia sorella mi corse dietro. «Pensavo ti avrebbe fatto piacere. Ora che Josef se ne va, pensavo che papà potrebbe… insomma, sappiamo tutti che hai altrettanto talento…».

    «Smettila». Le mie parole squarciarono l’aria autunnale, sospinte bruscamente dalla freddezza della mia voce. «Smettila, Käthe».

    Le sue guance diventarono rosse come se l’avessi schiaffeggiata con forza.

    «Non capisco», disse.

    «Cos’è che non capisci?»

    «Perché ti nascondi dietro Josef».

    «Ora che c’entra Sepperl?». Sepperl era il soprannome di nostro fratello.

    Käthe socchiuse gli occhi. «Quando ci sei di mezzo tu c’entra sempre. Scommetto che al nostro fratellino non l’hai tenuto nascosto, il tuo segreto».

    Rimasi un momento in silenzio. «Con lui è diverso».

    «Certo che è diverso». Käthe alzò le braccia al cielo con un gesto esasperato. «Il caro Josef, il piccolo Josef, il talentuoso Josef. Lui ha la musica e la magia nel sangue, e la povera Katharina, così ordinaria e così stonata, non lo capisce, non potrà mai capirlo».

    Aprii la bocca per protestare, ma poi la richiusi di nuovo. «Sepperl ha bisogno di me», dissi a bassa voce. Era vero. Nostro fratello era fragile, e non solo nelle ossa o nel sangue.

    «Io ho bisogno di te», disse Käthe, in tono più calmo. E ferito.

    Mi tornarono in mente le parole di Constanze. Josef non è l’unico ad aver bisogno di qualcuno che badi a lui.

    «Non è vero che hai bisogno di me». Scossi la testa. «Hai Hans adesso».

    Käthe si irrigidì. Le sue labbra si fecero bianche e le narici si dilatarono. «Se la pensi così», disse a bassa voce, «allora sei ancora più crudele di quanto pensassi».

    Crudele? Cosa ne sapeva mia sorella della crudeltà? Il mondo era stato molto più gentile con lei di quanto non lo fosse mai stato con me. Aveva davanti a sé delle prospettive felici, un futuro certo. Avrebbe sposato l’uomo più desiderato del villaggio, mentre io sarei diventata la sorella rifiutata, quella che era stata scartata. E… mi sarebbe rimasto Josef, ma non per molto. Il mio fratellino se ne sarebbe andato portandosi via quel che rimaneva della mia infanzia: le nostre festicciole nei boschi, le storie di coboldi e hödekin che danzavano al chiaro di luna, i nostri giochi di musica e fantasia. Una volta partito lui, mi sarebbe rimasta solo la musica. La musica, e il Re dei Goblin.

    «Sii grata di quello che hai», le risposi. «Sei giovane, bella, e molto presto avrai un marito che ti renderà felice».

    «Felice?». Gli occhi di Käthe furono attraversati da un lampo. «Davvero credi che Hans possa rendermi felice? Lo scialbo e noioso Hans, con la sua mentalità ristretta, che non va oltre i confini dello stupido villaggio di provincia in cui è nato e cresciuto? L’imperturbabile e affidabile Hans, pronto a incatenarmi alla locanda con l’atto di proprietà in mano e un bambino in grembo?».

    Rimasi sbalordita. Hans era un vecchio amico di famiglia e anche se lui e Käthe non erano mai stati molto intimi da piccoli – non avevano lo stesso rapporto che invece lo univa a me – prima di quel momento non avevo mai capito che mia sorella nutrisse nei suoi confronti ben poco affetto. «Käthe», dissi.«Perché…».

    «Perché ho accettato di sposarlo? Perché non ho detto niente finora?».

    Annuii.

    «Ma l’ho fatto». Le salirono le lacrime agli occhi. «In continuazione. Ma non mi hai mai ascoltata. Stamattina quando ho detto che era noioso mi hai risposto che era un brav’uomo». Si voltò dall’altra parte. «Non ascolti mai quello che dico, Liesl. Sei troppo occupata ad ascoltare Josef».

    Bada bene a quel che scegli. Sentii il senso di colpa serrarmi la gola.

    «Oh, Käthe», sussurrai. «ma avresti potuto dirgli di no».

    «Sul serio?», chiese lei ironica. «Tu e mamma me l’avreste permesso? Avevo davvero scelta o dovevo per forza accettare la sua mano?».

    Quell’accusa mi distrusse, imprigionandomi nel mio stesso risentimento. La mia sicurezza che le cose dovessero assolutamente andare così era stata così salda che non mi ero mai fermata a riflettere. Il bell’Hans e la bellissima Käthe: era ovvio che dovessero stare insieme.

    «Invece hai un sacco di scelte», ribattei un po’ incerta. «Molto più di me».

    «Scelte, già». La risata di Käthe era amara. «Be’, Liesl, tu hai fatto la tua scelta su Josef un sacco di tempo fa. Non puoi certo rimproverarmi se ora scelgo Hans».

    Il resto della nostra passeggiata fino al mercato scorse via in perfetto silenzio.

    Comprate, comprate

    Nella piazza del mercato i banchetti erano carichi di merci, i venditori ne decantavano la qualità a pieni polmoni. «Pane fresco! Latte fresco! Formaggio di capra! Lana calda, la più morbida che abbiate mai provato!». Per attirare i clienti alcuni suonavano dei campanelli, altri agitavano dei sonagli di legno, e altri ancora battevano un irregolare rat-a-tat-tat su un tamburello fatto in casa. Più ci avvicinavamo, più Käthe si illuminava.

    Io non avevo mai capito che piacere ci fosse nello spendere soldi, mia sorella invece adorava fare acquisti. Passava amorevolmente le dita sulle stoffe in vendita: sete, velluti e rasi importati dall’Inghilterra, dall’Italia e persino dall’Estremo Oriente. Affondava il naso in bouquet di lavanda essiccata e rosmarino, chiudeva gli occhi e si godeva il sapore aspro della senape sul delicato pretzel che aveva comprato. Un godimento davvero sensuale.

    Io mi trascinavo dietro di lei, indugiando su ghirlande di fiori essiccati abbellite da nastri. Dovevo comprarne una a mia sorella come dono di nozze, o di scuse? Käthe adorava le cose belle, anzi di più, la rendevano entusiasta. Mi accorsi delle occhiate cupe che le matrone acide e gli anziani accigliati lanciavano a mia sorella, come se il suo indulgere in quei piccoli piaceri fosse qualcosa di osceno e di sporco. Un uomo in particolare, una figura alta, pallida ed elegante, la fissava con uno sguardo così intenso che se l’avesse posato su di me mi avrebbe certamente incenerita.

    «Comprate, comprate!».

    Un gruppetto di fruttivendoli ai margini del mercato chiamava la gente con voci limpide che si levavano al di sopra del chiasso della folla. Quelle note argentee così simili ai rintocchi di una campana mi solleticarono le orecchie, attirandomi verso di loro quasi contro la mia volontà. La stagione era ormai tarda per la frutta fresca, perciò notai l’insolito colore e la consistenza della loro merce: frutti rotondi, seducenti e tentatori.

    «Ooh, Liesl!», indicò Käthe, che pareva aver completamente dimenticato la nostra discussione di poco prima. «Pesche!».

    I venditori ci fecero cenno di avvicinarci con gesti armoniosi, diffondendo nella nostra direzione il profumo ipnotizzante della frutta matura. Mi venne l’acquolina in bocca, tuttavia mi voltai e trascinai via anche Käthe. Non avevo soldi da sprecare.

    Qualche settimana prima avevo portato a riparare alcuni archetti di Josef, le setole dovevano essere sostituite e sistemate da un archetier prima dell’audizione con il maestro Antonius. Avevo risparmiato il più possibile, perché le riparazioni costavano un occhio.

    I fruttivendoli tuttavia si erano accorti dei nostri sguardi bramosi. «Avanti, adorabili signorine!», cantavano. «Venite, care. Comprate, comprate!». Uno di loro prese a tamburellare a ritmo sulle assi di legno che fungevano da tavolo, mentre gli altri intonavano una melodia: «Susine e albicocche, pesche e more, sentite che gusto!».

    Senza rendermene conto cominciai a cantare con loro, un semplice u-uh senza parole, mentre cercavo di carpire l’armonia e il contrappunto della loro musica. Terza, quinta, settima minore, giocherellavo sottovoce con quegli accordi. Insieme ai fruttivendoli cominciai a intessere una scintillante tela fatta di suoni ossessivi, strani e un po’ selvaggi.

    A un tratto tutti i venditori puntarono gli occhi su di me, i loro lineamenti si fecero più aguzzi, i loro sorrisi più ampi. Mi si rizzarono i peli alla base del collo e interruppi la melodia. Sentirmi quegli sguardi addosso mi faceva formicolare la pelle. Alle mie spalle riuscivo a percepire le occhiate di qualcuno che non vedevo, eppure era una presenza palpabile come se mi stesse accarezzando la nuca con la mano. Mi voltai.

    Era lo sconosciuto alto, pallido ed elegante.

    Aveva il volto celato da un cappuccio, ma sotto il mantello si intravedevano dei vestiti lussuosi. Notai lo scintillio di un ricamo a fili d’argento e d’oro su un broccato di velluto verde. Di fronte alla mia espressione inquisitoria lo sconosciuto si strinse meglio il mantello intorno al corpo, ma ebbi lo stesso il tempo di notare con la coda dell’occhio le brache di cuoio marroncino, che esaltavano la sagoma snella dei suoi fianchi. Distolsi lo sguardo e avvampai, incendiando quasi l’aria intorno a me. In qualche modo quell’uomo aveva un’aria familiare.

    «Brava, brava!», esclamarono i fruttivendoli una volta terminata la canzone. «Astuta fanciulla in rosso, vieni a prendere il tuo premio!».

    Agitarono le mani sui frutti esposti, le loro dita erano lunghe e sottili. Per un attimo mi parve quasi che avessero qualche falange di troppo e percepii il soffio di qualcosa di misterioso e inspiegabile. Ma poi quell’attimo passò, i venditori presero una pesca e me la offrirono.

    Il profumo del frutto era intenso nell’aria gelida dell’autunno, ma sotto quei sorrisi stucchevoli si sentiva un odore marcio e putrido. Mi ritrassi e mi parve che i fruttivendoli mutassero d’aspetto. La loro pelle assunse una sfumatura verdastra, i denti si fecero aguzzi e appuntiti e invece delle unghie mi parve di veder spuntare degli artigli.

    Sta’ attenta ai goblin e alle merci che vendono.

    Käthe fece per prendere la pesca con entrambe le mani. «Oh sì, grazie!».

    Afferrai lo scialle di mia sorella e la tirai via.

    «La fanciulla sa cosa vuole», disse uno dei venditori. Sorrise a Käthe, ma il suo era più un ghigno che un sorriso. Le sue labbra parevano un po’ troppo tirate, i denti gialli e aguzzi. «Piena di passione, piena di desiderio. Facile a consumarsi, facile a saziarsi».

    Spaventata, mi voltai verso Käthe. «Andiamo», dissi. «Non dovremmo perdere tempo. Dobbiamo passare dal signor Kassl prima di tornare a casa».

    Gli occhi di Käthe erano ancora fissi sui frutti in esposizione. Sembrava malata, aveva le sopracciglia corrugate, il petto ansimante, le guance in fiamme, gli occhi accesi e febbricitanti. Malata oppure… eccitata. Fui colta dalla sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, di sbagliato e spaventoso, eppure un barlume di eccitazione era sorto anche nelle mie membra.

    «Andiamo», ripetei. Gli occhi di Käthe erano vitrei e vuoti. «Anna Katharina Magdalena Ingeborg Vogler!», sbottai. «Adesso ce ne andiamo».

    «Magari un’altra volta, cara», ci canzonò il fruttivendolo. Tirai a me mia sorella e le misi un braccio intorno alle spalle con fare protettivo. «Lei tornerà», disse il fruttivendolo. «Le ragazze come lei non riescono a resistere a lungo alla tentazione. Siete entrambe… mature per essere colte».

    Me ne andai, spingendo Käthe davanti a me. Con la coda dell’occhio scorsi di nuovo lo sconosciuto alto ed elegante. Capii che ci stava fissando da sotto il cappuccio. Ci osservava. Rifletteva. Traeva le sue conclusioni. Uno dei fruttivendoli gli tirò un lembo del mantello, l’uomo chinò il capo per ascoltarlo, ma io percepii che il suo sguardo rimaneva fisso su di noi. Su di me.

    «Sta’ attenta».

    Mi bloccai. Era un altro fruttivendolo, un ometto mingherlino con una massa di capelli indisciplinati simili a un dente di leone e il volto emaciato. Era alto pressappoco quanto un bambino, ma aveva un’espressione antica in volto, più di quella di Constanze, più della foresta stessa.

    «Lei», disse il mercante indicando Käthe, che aveva appoggiato il capo sulla mia spalla, «brucia come gli sterpi, una fiamma repentina che non ti scalda. Tu invece», proseguì, «tu sei come la brace, mia signora. Dentro di te c’è un fuoco, ma la sua fiamma brucia lentamente. Un calore scintillante, che aspetta solo un soffio per ravvivarsi. Molto curioso». Sulla sua bocca si disegnò un placido sorriso. «Sì, molto curioso davvero».

    Il mercante sparì. Sbattei le palpebre ma lui non ricomparve, e io rimasi lì a chiedermi se per caso non mi fossi immaginata tutto. Scossi la testa, rafforzai

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1