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M.T.V.M
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E-book303 pagine3 ore

M.T.V.M

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Info su questo ebook

Melice Redding ha capito. Dopo dieci anni trascorsi in carcere per difendere Richard Bell, ha capito che non vale la pena di morire per lui, e ha scelto di combattere.
I passi da compiere sono chiari: trovare Richard, preparare la propria difesa al meglio, e aspettare fino alla data del processo.
Il destino della detenuta sembra roseo, eppure l'attesa si rivela più complicata del previsto. Ci sono troppi spettri del passato a intralciare il riscatto di Mel, troppa rabbia da frenare e neppure un Guardiano d’Anime a proteggerla da quella follia. Perché i desideri sono più forti delle buone intenzioni, e nessuno scorpione muta la propria natura.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2019
ISBN9788893124720
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    Anteprima del libro

    M.T.V.M - MICHELA MONTI

    M. T. V. M.

    M. T. V. M.

    Michela Monti

    Triskell Edizioni

    Pubblicato da

    Triskell Edizioni di Barbara Cinelli

    Via 2 Giugno, 9 - 25010 Montirone (BS)

    http://www.triskelledizioni.it/

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi o località è puramente casuale.


    M.T.V.M. di Michela Monti - Copyright © 2019

    Cover Art and Design di Barbara Cinelli

    Immagine di copertina vvvita/stock.adobe.com


    Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma né con alcun mezzo, elettronico o meccanico, incluse fotocopie, registrazioni, né può essere archiviata e depositata per il recupero di informazioni senza il permesso scritto dell’Editore, eccetto laddove permesso dalla legge. Per richiedere il permesso e per qualunque altra domanda, contattare l’associazione al seguente indirizzo: Via 2 Giugno, 9 – 25010 Montirone (BS)

    http://www.triskelledizioni.it/


    Prodotto in Italia

    Prima edizione – Febbraio 2019

    Edizione Ebook: 978-88-9312-472-0

    Edizione cartacea 978-88-9312-473-7

    Indice

    Poesia

    Citazione

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Illustrazione

    Citazione

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Illustrazione

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Ringraziamenti

    L’autrice

    Ringraziamenti Triskell

    A Nonna

    Poesia

    Le sfere di vetro

    ricolme di sogni,

    unite rivelano

    limpidi regni.


    I curvi profili

    di buio oscurati,

    rifiutan struttura,

    taglienti e svuotati.


    Ma il sangue che corre

    lambendo fratture,

    i sogni non vela

    di dense paure.


    È il gioco di parti

    che ognuno trascura.

    Se cambia la forma,

    non muta natura.

    Citazione

    «Ho visto gli occhi del diavolo,

    ed erano simili ai miei,

    più di quanto volessi.»

    Prologo

    Il poliziotto, sfinito, mi osservava da fuori lo stanzino. Lo stavo tempestando di domande da dieci minuti buoni.

    «Potremmo chiudere la porta?» chiesi come ultima opzione.

    «Sì, ma resteranno attive le telecamere.»

    «Sarà sempre meglio di questo,» borbottai, distogliendo lo sguardo dai due militari piazzati davanti all’ingresso.

    Potevo sopportarlo.

    Restavo una condannata a morte, ma ora era diverso. Ero una detenuta in attesa di giudizio, di nuovo, e così la storia cambiava. Potevo vedere degli esterni, parlare coi miei amici, con mia figlia…

    Mia figlia.

    Volevo ripeterlo all’infinito: mia figlia, mia figlia, mia figlia.

    Da troppo ero lontana da lei. Ogni volta che mi guardava con quegli occhi ambrati, impazzivo di gioia. E rideva! Dio, come rideva. Iniziava già a essere grande, ma conservava la risata di pancia dei bambini più piccoli. Chissà per quanto ancora sarebbe rimasta così.

    Sembrava impossibile, eppure era lei, finalmente. La mia Sadie.

    E poi in ogni caso c’erano le visite private.

    Dall’esterno, sentii dei passi. Voci.

    «Ehi, stai puntando la mia donna?»

    Il poliziotto rise, abbassando la testa.

    «No, Gabriel. Finché sarò in grado di ragionare non succederà.»

    «Ottima scelta,» commentò l’altro, oltrepassando l’uscio.

    Lo osservai spingere la porta con più forza del dovuto, facendo leva col braccio sinistro fino a sbatterla in faccia agli spettatori. Aveva una spiccata passione per gli ingressi a effetto.

    «Ciao, Mel,» sussurrò.

    «Ciao, Gab,» rimandai.

    Si lasciò cadere sopra il sottile materasso del letto e intrecciò le dita davanti alle ginocchia.

    Il ciuffo troppo lungo gli copriva lo sguardo, mi impediva di distinguere che espressione avesse.

    «Dunque,» attaccò, «dobbiamo parlare.»

    1

    Domenica


    «Non ti aspetterai che dica la verità, spero.»

    «Messo davanti al giudice e a sua figlia forse lo farà.»

    «Mel.»

    «Mel un cazzo,» brontolai a bassa voce.

    Gabriel sbuffò, con le dita davanti alla faccia.

    «Melice, secondo te Richard è rimasto nell’ombra per dieci anni, aspettando solo che voi due lo ritrovaste, per farsi condannare?»

    «Mentirebbe guardando me e Sadie negli occhi?»

    Gab mi afferrò il viso con forza, avvicinandosi. In silenzio.

    Ripetei la domanda.

    «Mentirebbe di fronte a noi?»

    «Non ti fa neanche un po’ effetto stare seduta sopra un materasso comodo, così, con me?» deviò pesantemente.

    Nessuna risposta, pessima risposta.

    «Eviterei spettacoli di qualsiasi genere,» dissi. «E quando fai così ti picchierei.»

    «Oppure?» insinuò, trattenendomi pur di mantenere la distanza esigua che aveva stabilito. Allentai la tensione sulle spalle, arresa.

    «Sì, bravo. Oppure.»

    «Perfetto,» ridacchiò, scattando in piedi. «Me ne vado, o al Centro di Controllo avranno di che parlare per un pezzo.»

    Si girò e uscì, lasciando la porta spalancata. Un secondo prima pensavo stesse per baciarmi, un secondo dopo sembrava svanito.

    Non un ciao prima di volare via nella sua tunica nera.

    Decisamente una pessima risposta.

    Mi ritrovai sola nella stanza delle visite private, senza che l’incontro col visitatore avesse portato a nulla.

    Conoscevo troppo bene Gabriel. Le telecamere di sorveglianza non lo avevano mai frenato, era stupido pensare che potessero farlo ora. Il gradevole intermezzo nascondeva molto altro.

    Gab aveva delle notizie, ma era determinato a tenerle per sé. E quando quell’uomo contorto decideva di tacere, forzarlo era inutile.

    Mi rincantucciai sul letto sgualcito per riflettere, stendendo le dita ossute sotto al viso.

    Ero dimagrita. Il mio corpo soffriva la detenzione e così, bassa, minuta, apparivo ancora più debole.

    Anche i miei occhi sembravano essersi spenti col tempo. Il verde profondo aveva lasciato spazio a scaglie grigie che non mi appartenevano. Stavano diventando color carcere.

    Scostai i capelli scuri e strofinai le guance con i palmi aperti, per pulirle da due goccioloni sfuggiti al ricordo.

    Al diavolo Richard e il suo tanto declamato amore.

    Sospirai rumorosamente.

    Ancora.

    «83500, pensi di intrattenerti qui per molto?»

    Alzai la testa di scatto, incrociando gli occhi da bambino del grosso poliziotto. Era senza il visore d’ordinanza, ma la cosa non era sufficiente per renderlo riconoscibile. Doveva essere nuovo.

    Sorrisi.

    «Pensavo di chiedere un’altra tazza di tè e il menu dei dolci, se non è di troppo disturbo,» scherzai, incrociando le gambe.

    «Melice?» chiese con aria incuriosita.

    «Sì.»

    «Melice Redding?» rincarò, sorridendo a sua volta.

    «Sì, sono io.»

    Non era normale.

    Le guardie non si interessavano mai alle detenute.

    Nessuno ci chiamava per nome o ci domandava conferma della presunta identità, mai. A parte Gabriel.

    Ma lui era un’altra storia.

    «Bene,» sibilò.

    L’uomo fece mezzo passo avanti, appoggiando la mano paffuta sulla porta. La chiuse. Poi il suo sguardo cambiò.

    Mio Dio.

    Lussuria, violenza, un’espressione che avevo già incontrato e che mi aveva distrutto la vita.

    Ritornai a più di dieci anni prima, a quando Shawn Hayes mi aveva trascinata in un vicolo durante la notte di Halloween.

    Quando mi aveva violentata, picchiandomi nel buio.

    Quando, dieci anni prima, il mondo si era sgretolato sotto i miei piedi.

    Lo guardai, terrorizzata.

    «Mi hanno detto che sei piuttosto amichevole col personale. È vero?»

    Cazzo.

    Iniziai a urlare.

    Gridai con gli occhi chiusi, prima che il poliziotto potesse prendere un altro respiro, e continuai finché non sentii il rumore del legno infranto.

    Poi un tonfo sordo. Un lamento. Uno scricchiolio.

    Riaprii le palpebre.

    L’uomo era in ginocchio e la mano di Gabriel gli stringeva la spalla come se volesse afferrarne la clavicola sotto la carne viva.

    Lo fissai, tremando.

    «Mel, ho dimenticato di dirti una cosa.»

    Annuii, mandando giù per puro riflesso.

    «Sono stato convocato dal giudice,» continuò. «Hanno deciso di non concederti la testimonianza diretta. Potrai far esporre quanto desideri a tuo padre scrivendo delle memorie difensive, ma non parlerai.»

    «Cosa?» balbettai piano.

    Lui mi guardò, alzando il sopracciglio.

    «Gab, cosa significa?»

    «Lo stai chiedendo davvero?»

    «Che cazzo significa?» ripetei più forte.

    Ero di nuovo lucida.

    Il guardiano si divincolò nella presa, gemendo, e Gab gli intimò il silenzio col dito davanti alle labbra, incollandosi alla sua faccia. Salì con entrambi i piedi sul suo polpaccio prima di tornare a guardare me con aria severa.

    «Non protestare, principessina viziata. È ovvio che abbiano deciso di tenerti fuori dalle liste dei testimoni che andranno al banco. L’ultima volta che hai parlato ti sei condannata a morte da sola, e ora le tue dichiarazioni coinvolgeranno anche la vita di Richard. Vogliono essere cauti.»

    «Cauti? Vogliono essere cauti?» ringhiai. «Mi sono fatta dieci anni di carcere per lui! Ho perso dieci anni della vita di mia figlia per lui! Non possono ignorare quello che ho da dire! Non possono! Devono ascoltarmi!»

    «Mel, ti hanno ascoltata,» rispose annoiato. «Il processo è stato riaperto, le indagini attivate di nuovo. Ti hanno decisamente ascoltata.»

    «Sì, ma…»

    Un’imprecazione scivolò dalla bocca dell’uomo inginocchiato. Gab digrignò i denti, e con violenza gli spinse il busto all’indietro fino a farlo schiantare sopra i suoi stessi talloni, contro il pavimento grigio.

    Il poliziotto urlò per il dolore, trovandosi probabilmente svariate ossa rotte. Del resto, la potenza del braccio bionico permetteva a Gabriel questo e altro.

    «Controllati,» borbottai.

    Lui sorrise e si chinò leggermente sul viso contratto della guardia.

    «Fatto male?» domandò angelico, ricavandone un’offesa smozzicata.

    Sospirai, passandomi le dita tra i capelli.

    «Richard ha ammazzato Shawn, ti ha dato la colpa e stiamo cercando di dimostrarlo. Abbi pazienza, per una volta,» disse Gab, seccato.

    Al diavolo. Ero stanca. E non volevo più vedere facce nuove.

    «Possiamo andare?» chiesi nervosa.

    Gabriel si scostò dall’uomo, porgendomi la mano.

    «Muoviti,» ordinò.

    Afferrai il suo palmo, scavalcando la massa in uniforme schiacciata a terra.

    Fuori dalla stanza, tesi i polsi al secondo poliziotto; lo guardai pestare su un radiocomando e le manette magnetiche aderirono tra loro.

    «Melice Redding, detenuta 83500, cella tre, Zona Nera.»

    Le mie amiche metalliche gracchiarono familiari, strette e fredde. Ancora una volta.

    «Cosa ne pensi, Bruce, di sentire l’infermeria per il tuo amico là dentro?» chiese Gab con un sorriso velenoso.

    L’uomo non disse nulla. Tentava di capire quanto fosse grave la situazione dentro allo stanzino, evitando lo sguardo accusatorio di un cyborg abbastanza incazzato.

    Il silenzio regnò per qualche secondo, finché Bruce non tossicchiò un impacciato, richiedendo la presenza dei medici attraverso il microfono integrato nel visore.

    Poteva succedere che qualche guardia si divertisse troppo e che gli altri casualmente non notassero nulla, ma non stavolta.

    «Avanti,» sbuffò Gabriel verso di me, «la gita di piacere è conclusa.» Imboccò il corridoio gelido della parte vecchia di ReBurning, diretto verso l’area di detenzione, e io lo seguii a distanza, riordinando le idee.

    Non potevo testimoniare direttamente al processo; l’ipotetico senso di colpa di Richard era inutile, non ci avrebbe nemmeno incrociate.

    Altri testimoni? Inesistenti.

    E Sadie? Avrebbe potuto assistere, lei?

    Così piccola e così assente durante l’omicidio... che utilità poteva avere?

    Iniziava a girarmi la testa.

    Cosa ci restava?

    «Mel?»

    Sussultai.

    «Sì?»

    «Smettila di rimuginare.»

    Osservai le spalle del mio angelo nero, quella ricoperta di tela buia e quella sinistra, tatuata di rosso e nero. Per Gabriel era facile. Respirava aria vera, vedeva la luce del sole. Vedeva Sadie.

    «Mi sento disarmata,» mugugnai. «Mi sentivo così poco fa, in quella stanza, e continuo a sentirmi allo stesso modo ora, pensando al processo.»

    Gab accennò un ghigno.

    «Eppure, mia cara, hai qualcosa che non ti può togliere nessuno.»

    «Sarebbe?» gli domandai a testa bassa. E non feci in tempo a fermarmi. Andai a sbattere contro Gabriel prima di rendermi conto che si era voltato e che mi fissava con un sorriso strano.

    «Un bel faccino pulito, una storia strappalacrime e l’ipocrita necessità della gente di compiangere chi sta peggio,» ribatté.

    Rimasi ferma, guardandolo girarsi di nuovo, cogliendo il gesto della sua mano che mi indicava di seguirlo.

    L’opinione pubblica. Era quello il mio asso nella manica, secondo lui.

    Lo rincorsi, prima che potesse allontanarsi troppo.

    «Quindi,» dissi, mascherando un accenno di fiatone, «cosa credi che dovrei…»

    «Zitta.» La voce di Gab uscì dura, autorevole. «Ciao, Pete,» continuò.

    Pete?

    Mi guardai attorno. I muri avevano lasciato posto alle lastre di acciaio, l’aria era più secca, le luci più fredde. Eravamo arrivati.

    «Gabriel,» rispose il ragazzo, chinando il capo, poi mi guardò affettuoso.

    Il Piccolo.

    Pete aveva l’aria dolce e ingenua di un cucciolo.

    Era di corporatura normale, gracile per la media maschile a ReBurning, ma il suo aspetto non cambiava i fatti: le detenute della Zona Nera lo conoscevano abbastanza bene, lo accettavano, e questo aveva determinato il suo futuro.

    Era il nuovo Guardiano d’Anime.

    «Scusate, ma hanno mandato me per riportare Melice in cella,» comunicò dispiaciuto.

    «Giusto,» rispose Gab, facendo un passo indietro. «Deve venire con te.»

    Aprii la bocca per protestare, ma i loro sguardi mi fecero tacere. Uno di supplica e l’altro di rimprovero.

    Pete mi lasciò passare avanti a lui e Gabriel, semplicemente, sparì.

    Dimenticavo. Dimenticavo sempre. Gab non poteva più stare dentro a ReBurning.

    Da quando la Commissione aveva capito cosa stava succedendo, il ruolo di Guardiano d’Anime gli era stato negato. Dovevano allontanarci.

    Gabriel era un perno importante nel cuore del carcere, ma non abbastanza. Il rischio di scandali era troppo alto per fingere che non stesse capitando nulla di strano. Per questo avevano deciso di confinarlo fuori. Per questo lo avevano nominato Cacciatore.

    Il suo compito era cercare, stanare, uccidere: Gab doveva trovare e ammazzare dei cyborg. Come lui.

    Le protesi bioniche erano nate per semplificare la vita ai disabili, ai mutilati, ma col tempo aveva preso forza il mercato nero e gli Irregolari ne erano diventati l’immediata conseguenza.

    Le persone si operavano per ottenere potenziamenti, gareggiare nei tornei di strada, lottare per le scommesse, perché i combattimenti portavano soldi. Gli impianti medici si reperivano ovunque, come i chirurghi neuroelettronici disponibili. Ma era tutto illegale: senza comunicare le evoluzioni corporee, possedere una protesi diventava un reato grave. Ogni innestato doveva essere notificato come soggetto pericoloso, meno controllabile.

    Era questo il motivo per cui avevano iniziato a correggere gli occhi. Dicevano.

    Sospirai, pensando a Gab e alla lingua di fuoco rosso nel grigio delle sue iridi. Sembrava fatta apposta per lui.

    Era il mio angelo custode e il mio demonio.

    «Già,» borbottai tra me e me. Perché se ero riuscita a tornare indietro nel tempo, a recuperare tutti i miei ricordi, a incolpare Richard per l’assassinio del mio stupratore, era solo grazie a lui.

    «Brutti pensieri?»

    Mi fermai. Pete osservava la mia espressione con un mezzo sorriso.

    «No,» valutai, «non credo di poterli definire proprio brutti.»

    Scosse la testa e arrossì.

    «Non voglio sapere altro,» commentò divertito, poi batté le palpebre e cambiò tono: «Sembri quasi felice.»

    Scrollai le spalle.

    «Un po’ lo sono. Ho la possibilità di riabbracciare Sadie, di uscire e vedere com’è fuori, via da qui. Potrei vivere.»

    «Sì, hai una fortuna sfacciata, Mel. Non permettono praticamente a nessuno di riconsiderare la condanna, neppure di tentare,» mormorò con un velo di tristezza. «Sai che è solo una speranza, vero?»

    Chiusi gli occhi e mi voltai. Piccolo giovane saggio.

    «Lo so,» risposi. «E mi ci aggrappo con tutte le forze.»

    2

    Domenica


    L’accesso alla Zona Nera era sempre controllato da due guardie.

    Non parlavano, non ti guardavano; semplicemente, fornivano le chiavi magnetiche da inserire nelle serrature.

    Si trattava di tre carte rosse, distribuite in modo da non poterle mai reperire in un colpo solo: due venivano affidate ai custodi e una al Guardiano d’Anime.

    Pete salutò gli uomini silenziosi e prese le tessere.

    Vi fu un cigolio leggero, dopo che le ebbe passate nei tre lettori, poi la superficie riflettente d’acciaio liscio svanì nel muro.

    Un cancello per il nulla.

    Entrammo, circondati da sbarre elettrificate, lagne e offese.

    Gli strilli facevano parte della coreografia.

    Eliza era la più irrequieta. Una bambina di ventiquattro anni, maltrattata dai familiari, che scontava la propria vendetta.

    Aveva ucciso madre, padre e fratello.

    La sua voce sovrastò il caos.

    «Guardate, è tornata la signora! Fai ancora parte del nostro mondo lercio, Mel? Sai, tu prendi, te ne vai, stai con chi cazzo ti pare... Se questo è passare il tempo che ti rimane in carcere, ‘fanculo, allora faccio volentieri uno scambio.»

    «Piantala, Eliza,» sbuffai. «Se il processo farà venir fuori la verità, sarà la fine di quest’incubo. Te lo scordi, lo scambio.»

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