Dio è sepolto a Ovest
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Vede in quei giovani, nella loro apatia, nella loro indifferenza, nell’assoluta mancanza di valori e di gioia di vivere, tutto ciò che imputa all’intera società e il declino stesso dell’Occidente e lo stato di alterazione dovuto all’alcool in cui si trova, lo aiuta a esprimere liberamente i suoi pensieri, sentenziando su tutto e su tutti. Ma non sempre i giudizi di Marco sono consoni al momento e non sempre tutti sono disposti ad accettarli. Succede anche quando, svaniti i fumi dell’alcool, conosce il padrone di casa e la sua fidanzata Katia lo porterà a conoscere alcuni suoi amici e a fargli visitare gli ambienti a lei familiari: la sua caratteristica casa, dove faranno l’amore, lo studio di un fotografo porno, la villa con parco di Barbara Carrani, protettrice e sostenitrice di artisti e letterati di cui cerca di fare la fortuna e, alla sera, una discoteca dove conoscerà altri tre suoi amici, protagonisti di un singolare triangolo affettivo. Ma la giornata non si concluderà come si aspettavano.
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Dio è sepolto a Ovest - Maurizio Supino
Dio è sepolto a Ovest
Maurizio Supino
Copyright© Officine Editoriali 2015
Prima edizione ebook Maggio 2015
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ISBN 978-88-98041-51-0
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Ebook by: Officine Editoriali
La foto di copertina è di Danist Soh
Elaborazione grafica copertina: Officine Editoriali
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno il solo scopo di rendere realistica la narrazione. Qualsiasi analogia o riferimento a fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è da ritenersi puramente casuale.
SOMMARIO
Nota
La Regina del mare
Gli amori nel regno sottomarino
La donna serpente
Il tramonto dell’Occidente
La tormentata vita di Susi
I roghi dei bonzi dell’Ovest
Il veliero di sogno
Caos
Nota
Queste pagine, ritrovate qualche tempo fa tra le mie vecchie carte, le ho scritte verso la fine della terribile primavera dell’81, subito dopo i tragici avvenimenti di cui sono stato testimone e, in una certa misura, vittima. Eccole nella loro interezza, senza alcuna modifica.
La Regina del mare
Quando mi svegliai, la Regina del mare era accanto a me, seduta su una bassa poltroncina rivestita di cuoio rosso.
Io ero disteso su un letto morbido, con un’elegante spalliera, e osservavo adesso quella ragazza dal viso ovale e dagli occhi azzurri che a sua volta mi studiava attentamente.
Mi trovavo in una piccola camera, arredata con gusto, con un gusto classico, invasa da una luce primaverile che mi sembrava particolarmente viva, in confronto a quella fioca della sala dove avevo vomitato, la sera prima, e dove poi dovevo essermi addormentato.
Osservavo la Regina del mare e la interrogavo senza parlare, corrugando la fronte.
"Come ti senti? − mi chiese, dopo qualche momento.
Bene … Anzi, come uno straccio. Ma va meglio di ieri.
Passata la sbornia?
Pare di sì. Che ore sono?
Le dieci.
E dove mi trovo, scusa?
Dove ti trovavi ieri sera. Solo che adesso sei al piano di sopra, in una confortevole cameretta come vedi. Ti ci hanno portato in quattro, quattro di quei ragazzi che hai insultato quand’eri sbronzo, e non l’hanno fatto molto volentieri, per essere sincera.
Ho vomitato ieri, non è così?
Sì, e hai fatto un po’ schifo a tutti quanti.
E poi mi sono addormentato.
E poi ti sei sdraiato sul pavimento con una faccia che faceva paura. Dormivi come un ghiro.
La guardai negli occhi: erano azzurrissimi. La sua testa si stagliava contro un cielo che appariva limpido attraverso la finestra spalancata; i raggi caldi, dorati le illuminavano i capelli che le cascavano mollemente sulle spalle, creandole come un’aureola che s’irradiasse dalla sua stessa capigliatura, e il viso era delicato, pallido, d’una bellezza che incuteva soggezione. Sorrideva, divertita.
"Mi dispiace − dissi.
Anche a me: non mi piace veder vomitare.
Non ci posso far nulla: ormai è andata.
Già, ormai è andata. Comunque, ti conviene alzarti e vestirti, se ce la fai; non credo che tu sia un ospite molto gradito, qui.
Immagino. In questa casa è ammesso solo liquido seminale. Niente vomito, insomma.
Lei scoppiò a ridere.
Non sono io che ti butto fuori, sai. Io sono solo un’amica dei padroni, regolarmente invitata. Ho dormito qui come ci dormo spesso, ma sono un’ospite come lo sei tu, con la differenza che riscuoto più simpatie di te. Fra poco andrò via anch’io.
Bene. E i miei panni dove sono?
Chi lo sa! Saro ti presta un paio di pantaloni e una camicia, che non so di chi siano. I tuoi dovrebbero essere in uno stato pietoso.
Fece una pausa e chiarì:
Saro è il padrone di casa, o il figlio dei padroni, se vuoi.
Ringrazia Saro per la sua cortesia − feci ironicamente, alzandomi e indossando i pantaloni che mi porgeva e che, fortunatamente, mi andavano bene. − Posso almeno farmi una doccia, o devo squagliarmi subito?
Per la verità, nessuno ha detto di buttarti fuori.
E allora?
È un consiglio che ti do io. Le tue condizioni e il tuo vomito non hanno scandalizzato nessuno. Qui l’alcool e i suoi effetti sono di casa. Ma a nessuno è piaciuto il tuo elogio funebre della gioventù. A Saro meno che mai ... Il bagno è in fondo al corridoio.
"Ah, è per questo? − dissi.
Andai in bagno e rimasi per un po’ sotto un getto caldo. Poi tornai nella stanza, indossai la camicia e mi ravviai i capelli con le dita.
Ti dispiace farmi da battistrada, visto che non saprei orientarmi?
"Ma con vero piacere − rispose lei, gioiosamente.
Era evidente che la mia persona doveva apparirle, per un motivo o per l’altro, esilarante. Poi aggiunse:
Non ti chiedi perché al tuo risveglio hai trovato me al tuo capezzale?
Perché?
Per spirito missionario, forse; o perché m’incuriosisci. La verità è che ti hanno portato qui come si porterebbe un maiale, t’hanno gettato sul letto e si sono completamente dimenticati di te. Così m’è toccato fare la buona samaritana. T’ho pulito quella bocca ancora sporca di vomito, t’ho lavato la faccia, spogliato e assistito finché ce l’ho fatta. Poi me ne sono andata a dormire anch’io, nella camera accanto. Ma questa mattina sono venuta a vederti più d’una volta, ed ecco perché mi hai trovata vicino a te, quando ti sei svegliato.
"Molto commovente − commentai, facendo il cinico. Ma la ringraziai con un vago cenno del capo.
Devi essere uno strano tipo, tu.
Io, eh?
Vuoi dire che lo sono io?
Scoppiò di nuovo a ridere, tenendomi addosso quei suoi occhi che nel riso sembravano allargarsi, farsi di pura, intensa luce.
Ma hai idea di quello che hai detto, ieri sera?
Sì, me lo ricordo: che erano tutti morti.
Già, ma questo è niente: io ho sentito parlare di oscuri disegni, di sinistri signori, di angeli e di fiori. Sei stato di una comicità irresistibile.
Per un po’, rimasi confuso, senza riuscire a dir nulla, mentre lei non sapeva trattenere ancora una volta una risata la cui eco, nonostante l’imbarazzo, si ripercuoteva debolmente in me. Ma alla fine riuscii a ritrovare una certa sicurezza.
Può darsi che il linguaggio fosse squinternato. Ma sicuramente rideresti di meno, o forse rideresti di più, se sapessi che io penso realmente le cose che ho detto.
Lei si calmò a poco a poco.
Questo lo abbiamo capito tutti, te l’ho già detto: perciò credo che tu non sia ben visto, da queste parti.
Ci fissammo per qualche secondo, incerti se fossimo amici o nemici, se dovessimo ignorarci o far lega. Poi lei considerò:
Non so neppure come ti chiami.
Marco.
Io Katia, ammesso che la cosa ti interessi. Comunque, seguimi. Ti porto da Saro. È giù in giardino, con cinque o sei amici che sono rimasti a dormire qui. Non è necessario che ti scusi, ma puoi almeno ringraziarlo per averti ospitato per la notte. Poi puoi andartene … o rimanere con noi, se hai un po’ di faccia tosta.
Mentre la seguivo, riandai con la mente a quant’era accaduto, prima di rimettere e di addormentarmi.
Ero ubriaco, ero piuttosto ubriaco. Mi trovavo nella villa di gente ricca, in una grande sala piena di giovani dove non conoscevo nessuno, e dove nessuno mi aspettava. Vi ero stato portato da uno di quei tipi che s’incontrano nei bar, con cui ci si sbronza insieme e dei quali, svanita l’ebbrezza, non si ricorda più la faccia, né il nome.
Mi aveva assicurato, con la convinzione tenace degli ubriachi, che nella villa erano tutti amici suoi, che tutti gli volevano bene, che ci saremmo divertiti moltissimo e che, non appena arrivati, m’avrebbe presentato gli invitati a uno a uno.
Me l’aveva assicurato con una certa animazione, inquieto, come se temesse di non essere creduto. Ma, quando entrai nel salone, il mio amico non era già più al mio fianco. Forse aveva preferito una stanza meno affollata, dove smaltire la sbornia. Forse aveva incontrato qualcuno nei corridoi e s’era aggrappato a lui come aveva fatto con me fino allora. O forse era caduto riverso da qualche parte, senza che me ne accorgessi. Fatto è che quando varcai la soglia non era accanto a me. Non lo rividi più. Né quella sera né mai.
L’ambiente era pieno di fumo. Si vedevano, qua e là, in una tenue penombra verde, delle figure come di sonnambuli, vaghe, con gli occhi socchiusi, che si muovevano con il moto lento e ondeggiante delle alghe accarezzate blandamente dalle correnti. Qualche coppia, infatti, ballava, indolentemente, allacciandosi senza passione, facendo pensare più a persone sfinite che si sorreggessero a vicenda che a innamorati avvinti in una danza. Tutti gli altri, invece, in gruppo, ammucchiati, o soli, se ne stavano completamente inerti, seduti o distesi sui tappeti, o sui divani rivestiti di pelle o di velluto.
Dal giradischi veniva una musica malinconica, jazz, forse degli anni Trenta. Sgorgavano, da un sax, delle note morbide, ovattate e a volte spezzate, che davano l’idea di singhiozzi soffocati. Nessuno parlava. C’era uno strano silenzio nell’aria. Un silenzio incompleto. S’udiva la voce del sax, s’udiva la vibrazione cupa e ritmica del contrabbasso e l’accompagnamento fievole d’un banjo. Si avvertiva di tanto in tanto un sospiro, qualche parola incomprensibile o un mugolio. Ma ugualmente il silenzio era più profondo di quello che ristagna in un deserto. Diffondeva gelo, rivelava un’assenza. Qualcosa doveva essere accaduto, lì dentro. E io mi guardavo intorno con attenzione, con una certa ansia, come se m’aspettassi di scoprire a un tratto, nascosto in un angolo, un cadavere spaventoso.
E qualcosa, davvero, era accaduto. Me ne accorsi all’improvviso. Non c’era un cadavere, tra quelle mura: ce n’erano in gran numero. Là, sul pavimento e sui divani, erano ammassati i corpi di giovani vinti forse da un oscuro male, vittime forse d’un oscuro morbo. Quasi tutti erano immobili, nella sala.
Io ho sempre avuto paura dei morti, paura ancor più che pietà. Non ho mai potuto guardarli tranquillamente come sanno fare perfino molti bambini. Ho sempre trovato insostenibile posare lo sguardo su quelle facce impenetrabili, con una misteriosa espressione, e su quelle bocche mute, irrimediabilmente mute. Forse per questo l’immobilità d’un uomo mi dà ogni volta un senso d’apprensione.
Avevo provato apprensione, dunque, entrando in quel luogo. E all’improvviso il timore s’era tramutato in terrore.
Avevo scoperto una strage, una strage di ragazzi aggraziati e ben curati, d’angeli senza più sguardo che s’erano accasciati uno sull’altro, abbracciando chi avevano più caro. Ne avevo sentito il silenzio, uno strano silenzio, che si levava come un gas inodore che presto m’avrebbe asfissiato. E li contemplavo.
Perché erano morti, quei giovani? Non sarebbero dovuti morire, perché erano belli. Le loro ragazze, soprattutto, lo erano. E, benché non fossero più vive, o forse proprio per questo, io scrutavo i loro puri volti ovali, fini, spirituali; i loro volti puri dalle palpebre soffuse di viola, dalle guance cosparse d’un fard rossastro, dalle labbra bagnate d’un liquido rossetto fucsia.
Avevano fini e puri volti: spirituali, a volte, oppure un po’ infantili. Fini e puri volti che mani pietose avevano preparato per l’ultimo viaggio, truccandoli come per una festa, dipingendo le labbra, colorando le palpebre, rinsanguando le guance, ma con toni troppo audaci o violenti che offendevano la naturale freschezza della pelle.
Il flusso dei ricordi s’interruppe; e io mi riscoprii a camminare accanto a Katia, che mi stava conducendo dai suoi amici.
Notai che il giardino era in realtà un parco, con il suo muto popolo di pini, di cipressi, di tigli, d’acacie e di magnolie, tra cui si levava la grazia di qualche pianta esotica. C’erano anche delle magnifiche rose, qua e là: rosse, gialle, bianche, di molte varietà e di varia grandezza; e quei fiori ricchi, voluttuosi, quegli splendidi fiori vellutati e carnali diffondevano tutt’intorno un profumo discreto, soave, galleggiando nell’ombra umida che s’allargava tra gli alberi.
Il parco era diviso in due da un lungo viale da cui si dipartivano dei vialetti che, insinuandosi tra l’alta e secolare massa arborea, serpeggiavano, s’incrociavano e avrebbero creato, se fossero stati visti da un aereo, come una rete dalle larghe maglie in cui fosse rimasta prigioniera una gigantesca vegetazione sottomarina. L’aria era carica d’effluvi, e quieta. La luce primaverile dilagava come un’acqua bionda. Uno spirito antico, gentile, che sembrava nascere dal fogliame, s’espandeva sensibilmente e metteva dentro un senso di pace.
Saro e gli altri erano sotto il portico. Sedevano su bianche sedie di ferro stile liberty, attorno ad un tavolino di marmo; e parlavano serenamente, quasi svogliatamente, sorbendo una bibita rossastra con una cannuccia di vetro colorato.
Quando mi avvicinai, portato per mano da Katia, alzarono la testa, senza mostrare curiosità, ma in un modo troppo lento per non rivelarsi studiato.
Ecco il profeta Geremia che questa mattina ha poca voglia di lasciarci ascoltare altre geremiadi, ancora addormentato com’è. − mi annunciò Katia. − Non so se sia qui in veste di penitente. Credo di no: non mi sembra il tipo. Ma posso garantire che è perfettamente sobrio e non ha più niente da vomitarci addosso. Si chiama Marco.
Disse questo allegramente, sorridente, per far capire agli amici che m’aveva preso in simpatia e che desiderava che m’accogliessero bene. Nuovamente, la ringraziai con un cenno.
Siediti, Marco − mi invitò allora Saro, con fare cordiale. − Serviti da solo qualcosa da bere; non c’è niente di alcolico, sta’ tranquillo, sono tutte bibite per perfetti astemi. Non ti faranno male.
Sedetti e osservai Saro. Poteva avere un venticinque anni. Era di statura media, atticciato, con braccia muscolose e pelose e una barba che gli incorniciava una faccia dai lineamenti marcati. Aveva denti piccoli, da bambino, bianchissimi, d’una bianchezza singolare e lucente che dava una strana dolcezza al suo sorriso. E labbra grosse, sanguigne, da gaudente su cui spesso passava la lingua rossa, singolarmente rossa.
Gli occhi sembravano indecifrabili: sfuggenti, per lo più, e miopi, oltretutto; apparivano vaghi dietro le spesse lenti di studioso. S’era rovinato la vista sui libri di filosofia e di sociologia, discipline in cui era versato, come appresi in seguito da Katia. E passava per una bella mente. Ma io potevo notare in quegli occhi, grazie ai brevi lampi che mandavano all’improvviso, un che di ossessivo, di cattivo, come se, sotto una parvenza d’intellettualismo e di bonomia, egli nascondesse in verità una natura perfida di folle. Erano lampi rari. Per il resto, sembrava piuttosto tranquillo e,