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Donna Eleonora
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E-book274 pagine2 ore

Donna Eleonora

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Info su questo ebook

È una storia di amicizia tra due donne, Eleonora e Francesca, divise da

un oceano e da quarant'anni di età, ma unite da un forte legame di

sangue. è la storia di un mese destinato a cambiarle, al termine del

quale niente sarà più come prima.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2021
ISBN9791220336741
Donna Eleonora

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    Anteprima del libro

    Donna Eleonora - Valeria Valcavi Ossoinack

    Maupassant)

    Una visita inaspettata

    Lei è la signora Berardi?

    Eleonora Berardi.

    Piacere.

    Tu saresti…

    Francesca… Francesca Dantoni.

    Non mi dire… la figlia di Carlo?

    Di Gabriele, suo fratello.

    Sì, naturalmente, volevo dire Gabriele… Scusami, alla mia età i nomi si confondono. Si confondono un sacco di cose, ma soprattutto i nomi.

    Non si preoccupi.

    Anche i ricordi si confondono. Quelli non te lo dico neanche, sono tutti mischiati… Così, tu sei la figlia di Gabriele?

    Sì.

    Che sorpresa!

    Forse avrei dovuto avvisarla…

    Mi ricordo di te…

    Davvero?

    Sì, eri ancora piccola, avrai avuto quattro o cinque anni… Eravate venuti in Italia… Quanto sarà passato? Fammi pensare… Credo una trentina d’anni… Tu quanti ne hai?

    Trentasette.

    Ecco, più o meno… Eri una bambina vivace.

    Come tutti i bambini a quell’età…

    I tuoi genitori non facevano altro che correrti dietro.

    Poi mi sono calmata.

    E mi ricordo che eri bionda, coi boccoli.

    È vero.

    Non sei più bionda.

    Li ho tinti.

    Peccato, stavi bene… Dovresti ripensarci.

    Lo farò, grazie.

    E tuo padre come sta?

    È morto.

    Oh.

    Sì.

    Mi dispiace, non lo sapevo…

    Due mesi ieri.

    Povero Gabriele…

    Si sente bene, signora?

    Dammi solo un attimo…

    Sì, certo.

    È una brutta notizia… Eravamo molto legati.

    Mi ha parlato di lei.

    Qui non si sa mai niente. Guardiamo la televisione. Ma suppongo che non l’abbiano detto in televisione.

    No, non credo.

    Scusami, era solo una sciocchezza, ne dico tante… Poi, in questo momento, non so neanche cosa sto dicendo… Sono scossa.

    Non si preoccupi.

    Ha sofferto?

    Un ictus, nel sonno. No, non ha sofferto.

    È la cosa migliore.

    Sì.

    Potessi scegliere, anche domani…

    Perché dice così?

    Cosa vuoi, cara, confinata qui dentro…

    Non la trattano bene?

    Per quello, figurati, un trattamento da Grand Hotel… Anche una retta da Grand Hotel, a dire la verità. Ma il denaro è l’unica cosa che non mi manca… Francesca, hai detto?

    Sì.

    Bene, era solo per vedere se non ero completamente andata.

    Non mi sembra.

    Sei gentile. E sei bella. Ma lo eri già allora.

    Grazie.

    Anche tuo padre è sempre stato bello.

    Sì, era un bell’uomo. Ho visto delle foto di quand’era giovane.

    E lo sapeva, eccome se lo sapeva. Gli morivano dietro. Avevo amiche che diventavano mie amiche solo per ronzargli intorno. Belle amiche! Arrivava con la sua motocicletta, i capelli al vento e non ce n’era per nessuna… Era giovane, benestante e sfrontato. E gli piaceva molto fare il gagà. E poi…

    E poi?

    È andato in America e ha conosciuto tua madre. Lei lo ha messo in riga. Ne aveva bisogno. E gli ha rubato il cuore. A proposito, come sta tua madre?

    Morta anche lei. Cancro. Cinque anni fa.

    Oddio, cara… Il cancro è una brutta bestia. Quello non mi piacerebbe. E a chi piacerebbe?

    A nessuno.

    Hai ragione, a nessuno… Stamani non mi aspettavo una visita. Qui ti svegli, fai colazione, prendi le pillole, fai una passeggiata quando è bello, fai due chiacchiere, e l’unica cosa che aspetti è che venga sera… Il venerdì c’è il torneo di burraco, la domenica fanno della musica, viene qualche orchestrina a farci ballare, per chi ancora è in grado e ha voglia di farlo. Diciamo che non è una vita molto movimentata. Il martedì non succede mai niente... E invece oggi, chi se lo sarebbe immaginato, mi hanno detto che c’era una persona per me. Non avevo idea di chi potesse essere. Ho pensato al mio amministratore, anche se il martedì non è il suo giorno. E poi quello è capace solo di darmi seccature. Invece, eccoti qui… La figlia di Gabriele e… Karen?

    Susan.

    Susan, è vero… Scusami, come ti ho detto, coi nomi…

    Non fa niente, è passato tanto tempo.

    È passata una vita. Tu sei sposata?

    Da undici anni.

    Come si chiama?

    Richard.

    Sei felice?

    Abbiamo due bambini.

    È una risposta.

    A cosa?

    No, niente, non farci caso, alle volte parlo senza pensare. È un privilegio di noi vecchi.

    Comunque sì, sono felice.

    E io lo sono per te, non so perché te l’ho chiesto. Non sono fatti miei.

    È stata gentile a chiedermelo.

    No, non lo sono stata. Io non sono gentile. Tu sei gentile, io no.

    Non è vero.

    Come fai a dirlo? Non mi conosci.

    No, non la conosco.

    Allora perché sei qui, Francesca?

    Per conoscerla.

    Era un pomeriggio di giugno del 1989.

    Seduta di fronte a Eleonora, nella sala da tè di Villa Thalia, affondata in una poltrona Chesterfield invecchiata bene, come in molti lì dentro, c’era Francesca Dantoni, figlia di suo cugino Gabriele, appena arrivata dagli Stati Uniti.

    Una visita del tutto inaspettata.

    Soprattutto per lei, che non si aspettava più niente.

    Villa Thalia

    Villa Thalia era un’antica residenza estiva ottocentesca appartenuta a un nobile milanese, fatta costruire sulle rive del Lago di Como e trasformata, sul finire degli anni sessanta, in un buen retiro per anziani facoltosi. Aveva un parco molto grande, che con la bella stagione si poteva definire lussureggiante, dalla quantità di piante e di fiori che lo facevano assomigliare a un giardino tropicale. C’era un dedalo di vialetti sempre perfettamente curati, con file di panchine in legno di noce e ferro lavorato, e c’erano giardinieri sempre all’opera. D’estate la calura non riusciva quasi mai a penetrare l’ombra fresca delle fronde degli alberi e i residenti passavano ore su quelle panchine, oppure a passeggiare: talvolta soli, talvolta accompagnati dai loro ospiti o dal personale di servizio, sempre premuroso e attento.

    Affacciata sul lago, c’era una splendida terrazza dove venivano organizzati piccoli ricevimenti e pieces di musica classica o jazz, il bel jazz di una volta. Di tanto in tanto capitava che si esibissero cantanti di lirica, accompagnati al pianoforte, uno Steinway bianco a coda, dal Maestro Gregotti, un residente di lunga data della villa, con un grande passato nelle migliori sale da concerto d’Europa, così si diceva.

    Non era una casa di riposo, o comunque non voleva apparire come tale. C’erano infermieri, dottori, e le migliori cure, senza dubbio, nonché numerose apparecchiature all’avanguardia in campo medico-scientifico, ma era tutto così discreto che chiunque ne avesse varcato la soglia e fosse entrato nell’imponente hall dagli alti soffitti affrescati e le colonne di marmo screziato, si sarebbe trovato immerso in un’atmosfera da hotel internazionale d’inizio novecento, nulla da invidiare al Plaza, o al Ritz, o al Danieli di Venezia, per restare in Italia.

    Villa Thalia era un biglietto d’ingresso per il Paradiso. Perché il Paradiso si può comprare. Non è vero che te lo devi guadagnare con una vita di sacrifici e di buone azioni. Quella è una storia inventata dalla Chiesa per far star buoni i poveri. Un biglietto che ben pochi si potevano permettere.

    Tra questi, c’era Eleonora Federica Berardi Marliani.

    Per chi poteva vantare una certa familiarità, e non erano in tanti, semplicemente Donna Eleonora.

    Caffè e biscottini

    Vuoi un caffè, cara?

    Grazie, volentieri.

    Io non dovrei berlo, ma ormai sono troppe le cose che non dovrei fare e troppo poco il tempo che mi resta per farle.

    La vita è una.

    Parole sante, ma la sai una cosa? Qualche volta penso che una sia anche troppo.

    Non lo dica.

    Aspetta, chiamiamo qualcuno… Giorgio, mi scusi…

    Buongiorno, signora Berardi.

    Per favore, ci può portare due caffè e del latte freddo. Qualcos’altro, cara? Che so, dei biscottini? Sì, ci porti dei biscottini.

    Senz’altro.

    Allora, Francesca, dove eravamo rimaste?

    Vuol sapere perché sono venuta.

    Hai detto che sei venuta per conoscermi.

    Sì.

    Questo è chiaro, ma perché hai preso questa decisione?

    Non so da dove iniziare, signora…

    Eleonora, solo Eleonora. Non chiamarmi signora, sono stanca delle riverenze. E poi, nella tua lingua non c’è neanche il lei, giusto?

    Giusto.

    A proposito di lingua: lo parli bene l’italiano. Certo, si sente che non sei italiana, ma complimenti.

    Grazie. Papà ci teneva… Lo aveva insegnato anche alla mamma. A casa lo parlavamo spesso, soprattutto a tavola.

    L’italiano è una lingua bellissima. E poi, può sempre servire. Se non altro, in Italia… Tu dove vivi?

    Nel Maryland.

    È un bel posto?

    È un posto.

    Ma i tuoi non stavano vicino a Boston?

    A Somerville.

    Come mai sei andata via?

    Mio marito…

    Ecco una frase che io non ho mai dovuto pronunciare.

    Non si è mai sposata?

    Mai sentito il bisogno.

    Non le dispiace?

    Non ti dispiace. Dammi del tu, ti prego.

    Sì, mi scusi… Cioè, volevo dire, scusami.

    Mi dicevi del Maryland.

    Stiamo nei dintorni di Baltimora. Non è tanto distante da Somerville: un’ora e mezzo di volo. Andavamo a trovarli una volta al mese. Qualche volta venivano loro. Quando è morta la mamma, papà non è più voluto venire da solo. E allora cercavo di andare io, appena mi era possibile, qualche volta mi fermavo il weekend. Qualche volta portavo anche i bambini. Solo a Natale veniva da noi, ma andavo a prenderlo. Negli ultimi anni papà non era più lo stesso.

    Immagino cara, Susan doveva essere tutto per lui.

    Erano ancora molto innamorati, si vedeva da come si guardavano… Com’è possibile dopo più di cinquant’anni?

    Non chiederlo a me, sono la persona sbagliata.

    Lei è mai stata innamorata?

    Lei chi?

    Devo farci l’abitudine.

    Ce la farai.

    Tu sei mai stata innamorata?

    Oh sì, tante di quelle volte che ho perso il conto. Ma altrettante volte, come lo sono stata, ho smesso di esserlo. Si dice che tutte le cose belle finiscano. Le mie sono sempre finite troppo presto. E spesso, male.

    Mi dispiace.

    Non devi dispiacerti. Ho vissuto la vita che volevo.

    Caffè e biscottini per queste belle signore.

    Veramente qui ne vedo solo una, di bella signora.

    Mi permetta di contraddirla.

    Glielo permetterò, ma solo per questa volta.

    Molto gentile, signora Berardi.

    Zucchero, cara?

    Uno, grazie.

    Io, due… però non dirlo a nessuno.

    Resterà un segreto.

    Mi piaci Francesca, mi sembri una donna di spirito. Hai preso di tuo padre.

    Esserlo, qualche volta aiuta.

    Esserlo, qualche volta è l’unica arma che ci resta.

    Era piovuto quella mattina, era ancora nuvoloso, e l’aria era troppo umida per godersi una passeggiata nel parco.

    Davanti a quei caffè, c’erano due donne, divise da quarant’anni di vita e un oceano nel mezzo, ma accomunate da un sentimento che ancora non potevano conoscere.

    Forte dei Marmi

    Io volevo bene a tuo padre. Per me era quasi un fratello. Ricordo che quando partì per l’America piansi per giorni. Era più grande di me di cinque anni, frequentavamo compagnie diverse, ma quando avevo bisogno, lui c’era sempre: per un consiglio, un aiuto, oppure per consolarmi quando qualcuno mi spezzava il cuore. Allora succedeva. Poi, col tempo, ho imparato che nessun uomo merita la tua disperazione. Non che non ci sia ricascata, ma ogni volta ne sono uscita più disillusa. Alla fine dobbiamo sempre fare da sole e lasciarci tutto alle spalle.

    Hai ragione, dobbiamo fare da sole.

    A parole è facile, ma non sempre ci sono riuscita… Mi ricordo che una volta, avrò avuto diciotto, diciannove anni, passammo tutta una giornata a parlare. Era estate, eravamo al mare. A me piaceva molto un ragazzo, e io piacevo a lui. Dopo qualche settimana e non so quanti tentativi da parte sua, ci eravamo baciati: all’epoca, era quasi una promessa. Una mattina che ero uscita per fare una passeggiata, scoprii che la stessa promessa la stava facendo a una mia amica, molto meno timida di me. Erano avvinghiati dietro un capanno da pesca. Gli feci una scenata e poi corsi via in lacrime. Dio, com’ero melodrammatica, ma a quell’età lo si è un po’ tutte, no?

    Chissà come ti eri sentita…

    Tuo padre mi incrociò a poca distanza da casa mia, in quelle condizioni. Fermò la motocicletta e mi disse di salire. Io non volevo, ma lui insistette finché non mi alzai la gonna, un gesto decisamente poco elegante per una signorina della buona società, e montai in sella. Mi portò in spiaggia e mi raccontò tutto quello che gli venne in mente. Tuo padre era bravo a parlare.

    Sì, era molto bravo.

    Riuscì a distrarmi e a farmi dimenticare di quel mascalzone. Mi asciugò ogni lacrima con le sue storie, che fossero vere o inventate per me non aveva nessuna importanza. Mi comprò un gelato, come fossi una bambina. Alla fine non smettevamo di ridere. Mi riportò a casa che era quasi buio. Era bello andare in motocicletta insieme a lui: il vento si portava via tutti i cattivi pensieri. Mia madre era preoccupata, ma Gabriele, il suo nipote preferito, la tranquillizzò e le disse che era tutta colpa sua. Venne perdonato. Tuo padre veniva sempre perdonato.

    Che anno era?

    Intorno al trenta. Eravamo a Forte dei Marmi. Ci andavamo in villeggiatura. Solo noi privilegiati, noi fortunati, è chiaro: il resto d’Italia non sapeva neanche cosa fosse una villeggiatura.

    Mi piace sentirti parlare di lui.

    "Era tanto che non lo facevo. E di sicuro, non avrei mai pensato che un giorno lo avrei fatto con sua figlia. Mi devi scusare, Francesca, se prima ho parlato un po’ a vanvera… Anche chiederti se l’avessero detto in televisione, che

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