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Quando viene la sera
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E-book306 pagine3 ore

Quando viene la sera

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Info su questo ebook

Giuseppe Garibaldi è un quarantasettenne di dimensioni gigantesche, il quale un giorno viene sottratto all'affetto dei propri cari per entrare a fare parte del progetto ‘Kommando’, volto alla costruzione di super agenti segreti. Di ritorno dopo quattro anni di feroce addestramento, Beppe inizia a lavorare come guardia di sicurezza in un centro commerciale. Ma questo è solo il lavoro di copertura. Garibaldi, in realtà, risolve incarichi pericolosissimi. E scrive libri bellissimi. O almeno ci prova.  Una passione fulminante ed improcrastinabile, la sua; raccontare la vita degli altri. Per cui si diverte (ci diverte) a descrivere le vicissitudini di due giovani gemelli in procinto di ereditare il titolo di Conti. Orso Maria e Lavinia Cosima. Romanzo (nel romanzo) corale, di formazione, tragicomico, ironico. Personaggi paradossali e terribilmente umani. Troppo umani. Creature in prossimità del più bieco dei fallimenti e in attesa della più fulgida delle redenzioni.
LinguaItaliano
EditoreGFE
Data di uscita21 apr 2023
ISBN9791222097350
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    Anteprima del libro

    Quando viene la sera - matteo malavasi

    IL PROGETTO KOMMANDO

    La saletta d’attesa, deprimente e buia, è carica di tensione. Spio gli altri candidati con la coda dell’occhio. Sono una decina in tutto. Apparentemente più adatti, più bravi, più meritevoli del sottoscritto. Non ci sono finestre, ma la pioggia che scroscia violenta è avvertibile anche all’interno di questa specie di bunker. Nonostante il caldo estivo sia ormai un lontano ricordo, ho deciso di presentarmi al colloquio in T-shirt. Una di quelle T-shirt che vanno di moda oggi, minimaliste e decisamente evocative. Ho un tronco possente, dal quale si estendono avambracci guizzanti di muscoli tonici e ben oliati. Ho sostenuto la prova scritta soltanto qualche giorno fa, pochi semplici quesiti di cultura generale mischiati ad altrettanto facili domande di natura tecnica. Il buon esito della prova mi è stato comunicato soltanto ieri pomeriggio, una breve chiacchierata con il responsabile del personale che con voce asettica mi ha dato appuntamento ad oggi per il colloquio conclusivo.

    Ho trascorso la notte in bianco. Continuavo a rigirarmi nel letto, cercando di non svegliare mia moglie. Ho passeggiato per il salotto tormentando il povero Gildo, il nostro gatto, che cercava di evitarmi in tutti i modi nella vana speranza di essere lasciato in pace. Insomma, sono teso come un ragazzino che deve sostenere l’esame di maturità. La notte scorsa come adesso.

    Vedo uscire un giovane ben piazzato che mi osserva con sufficienza. Il posto da guardia nel centro commerciale sembra allontanarsi ad ogni candidato che esce tronfio da quella maledetta porticina verde. Mi concentro sul volantino. Una brochure che decanta le virtù di questa figura fondamentale della società contemporanea, l’addetto alla sicurezza interna nei supermercati. La foto mostra due ragazzi in salute e sorridenti, in divisa blu, che aiutano una signora anziana a spingere un carrello della spesa.

    Ai lati dell’immagine un breve elenco delle competenze richieste per lo svolgimento della mansione. In coda al volantino, l’infallibile slogan. Abbiamo bisogno del tuo aiuto per rendere più sicuro il centro commerciale. Sostieni l’esame, e potrai essere dei nostri…. Appallottolo la brochure e la getto nel cestino. Mi guardo intorno. Sono l’unico candidato rimasto. La porticina verde si apre.

    Prego, tocca a lei

    Si qualifichi

    Giuseppe Garibaldi

    Il capo della sicurezza alza gli occhi dallo schermo del personal computer.

    Guarda il proprio assistente, in piedi di fianco alla scrivania.

    Poi guarda me.

    Mi prende per il culo?

    Mi tergo il sudore che scende a rivoli dalla fronte.

    No, signore. Sono un trovatello. L’impiegato del comune che mi ha registrato all’anagrafe…

    Basta così. Età?

    Quarantasette anni

    Titolo di studio?

    Terza media

    Il capo della sicurezza si alza. Mi gira intorno. Fa un cenno all’assistente, che prontamente gli lancia una sigaretta.

    Ha letto il volantino?

    Certo, molto interessante. Fatto davvero bene…

    Tutte cazzate, Garibaldi. Il lavoro qui è una merda. Una merda fatta e finita. Sottopagato e pieno di rischi

    Ma…

    Stia zitto, nessuno le ha dato il permesso di parlare

    Chiudo immediatamente la bocca. La bocca quella che contiene i denti, intendo. Quella dello stomaco è già serrata da tempo.

    Dicevo, Garibaldi… Avrà a che fare con la feccia dell’umanità, qui nel centro commerciale. E dovrà sorridere, sorridere tutto il tempo…

    A sorridere inizio immediatamente, mentre il capo continua a decantare le lodi del mio possibile futuro impiego.

    Io sono il suo capo. Mi chiamo Mayer. E la persona al mio fianco è Lorenzon, il mio braccio destro…

    Il braccio destro entra nella mia visuale. Un uomo di bassa statura, ancora giovane e leggermente sovrappeso. Ben piantato, però. Molto ben piantato. Allunga la mano. Me la stringe.

    Io e Mayer siamo cattivi. Bastardi e cattivi. Per cui veda di rigare dritto e non farci incazzare, Garibaldi. Altrimenti…

    La stretta si fa più forte.

    … Altrimenti la schiaccio. Proprio come sto facendo con la sua mano adesso. Tutto chiaro?

    Ritraggo la mano. Fingo una smorfia. In realtà quello che ho avvertito è giusto un insignificante fastidio.

    Quindi mi state dicendo…

    "Quindi ti stiamo dicendo che sei assunto, coglione. Passa in magazzino per le misure della divisa. E all’ufficio

    personale per questioni burocratiche…"

    Ma… Esattamente cosa devo fare? Lorenzon scuote la testa.

    Svegliarti, prima di tutto. Poi cercare di non farci incazzare. Ma questo te l’avevo già detto, vero? Annuisco prontamente.

    Ecco, bravo. Vai, Garibaldi. Fuori dalle palle, adesso

    Attraverso stancamente la parte superiore del centro commerciale destinata ad uffici, ufficini ed ufficetti. Il colore e l’aria che mi circondano sono gli stessi da quando sono entrato in questo posto dimenticato da Dio. Un’atmosfera falsa, malata, deprimente. Qui dentro è tutto prefabbricato. Tutto di plastica, di alluminio e di cartongesso. Mi viene da vomitare. Ho bisogno di respirare, ma non posso certo attaccarmi ai tubi del condizionamento. Devo resistere, cazzo.

    Garibaldi vieni che ti consegno il badge. Devi timbrarlo inserendolo nella colonnina che sta al piano di sotto. Sia quando monti che quando smonti dal turno. Tutto chiaro?

    La garrula segretaria che mi viene incontro è una donna di una cinquant’anni d’anni vestita a strisce. Mi spiego. Il busto è coperto da una specie di nylon nero che le gira intorno alla schiena. E questa è la prima striscia. La pancia è scoperta, con tanto di ombelico decorato con un brillantino che non fa altro che evidenziare le pieghe della pelle. E questa è la seconda striscia. Una striscia di pelle, quindi. La zona lombare è coperta da un plasticone bianco con due fessurine perfettamente parallele che lasciano intravedere quel poco che tutti hanno la possibilità di ammirare per intero ogni volta che la signora si siede, si alza, cammina. Sempre, quindi. Nero, pelle e bianco. Sembra una zebra. La signora Zebra mi dà una pacca sulla spalla.

    Io sono Jessica. Anzi, Jessy. Mamma mia, Garibaldi. Ma quanto sei alto? Sorrido e allungo la mano.

    Quasi due metri. Comunque, piacere. Io sono Beppe…

    La Zebra mi strizza l’occhio. Ruota su sé stessa facendo leva su una trentina di centimetri di tacco.

    Passa a trovarmi, ogni tanto. In ufficio sono sempre sola…

    La Zebra si allontana ancheggiando. Rientra nella savana, nella più che palesata speranza che qualche leone possa finalmente cacciarla e farla a brandelli.

    Fa caldo nel corridoio degli uffici. Mi tergo ancora il sudore, mentre mi sfrecciano davanti decine di commessi diretti dentro "il Mostro’, come qui chiamano l’ampio perimetro del centro commerciale. Quello dove lavorerò io. Un mostro brutale e sanguinoso che si ciba dell’avidità delle persone. Sono vestito in borghese. Ancora per poco, però. Sto andando a ritirare la mia divisa. La divisa da guardia. La indosserò a casa. Ho promesso a moglie e figli che saranno loro a vedermi per primi.

    Esco dallo scatolone infame e finalmente respiro un po’ di aria fresca. Faccio pochi passi e mi accendo una sigaretta. Mi dirigo verso la macchina ma dopo pochi passi mi blocco di colpo. Mi volto ad osservare l’edificio da cui sono appena uscito e in cui dovrò rientrare chissà quante volte e per chissà quanti anni. Sul tetto una scritta lampeggiante. Prima gialla, poi rossa, poi arancione. ‘Il Sole.’ Mi sento come in un film, quando il regista inquadra il protagonista cogliendolo in un momento di suggestiva introversione. La mia espressione è assorta, adesso. Intensa. Sputo il fumo e mi passo una mano sul viso. Fisso il sole, quello vero. Quella stella che nessuno guarda più. Perlomeno, non la gente in transito per questo cazzo di centro commerciale. Entro in macchina e rifletto sulla vita.

    Non so quando, dove e da chi sono nato. Da quanto mi è stato raccontato mi ha trovato una suora sulla porta di un convento. Una mattina come tante stava uscendo per andare a messa, ed è casualmente inciampata in un fagotto all’interno del quale un bimbetto di qualche mese stava frignando perché aveva fame. O perché si era pisciato addosso. Bene, quel bimbetto ero io.

    Mi raccolse e mi portò dentro al convento. Mi tenne per qualche giorno senza raccontare nulla alle proprie consorelle. Voleva giocare a fare la mamma. Questo me l’ha detto lei, quando il bimbetto era già cresciuto. Si chiama Suor Egista. Siamo rimasti in contatto, ed ogni tanto vado a trovarla, anche se ormai è anziana e quasi cieca. Dopo qualche giorno, comunque, la Madre Superiora scoprì il terribile segreto ed impose ad Egista di andare all’anagrafe per denunciarmi. Correva il mese di novembre dell’anno 1975. Il dodici novembre 1975. Suor Egista mi cambio il pannolino, mi tappò con un biberon stracolmo di latte e mi portò negli uffici dell’anagrafe di quella città. Che poi è quella in cui ho sempre vissuto e in cui vivo tutt’ora.

    Quando l’impiegato comunale vide la suora col bambino in braccio quasi svenne. Chiamò i carabinieri, i quali si fecero raccontare la storia e per poco non denunciarono la suora per sequestro di minore.

    Facendosi il segno della croce e dichiarando che trattavasi di volontà divina, suor Egista evitò un sicuro processo. I carabinieri abbozzarono e, cercando di non bestemmiare, contattarono una casa-famiglia, la quale mi ospitò per qualche mese in attesa di qualcuno che mi adottasse. Suor Egista consegnò quindi a malincuore il fagottino tanto desiderato, non prima di aver espresso l’ultimo desiderio.

    Voglio che si chiami Giuseppe. Sarà tranquillo e paziente come lo sposo di Maria. E contribuirà a crescere figli illuminati…

    L’impiegato comunale, registro delle nascite pronto ad essere aggiornato, iniziò a scrivere il mio nome sulla riga vuota. Giuseppe. Appassionato di storia del Risorgimento, completò la riga aggiungendo il mio attuale cognome. Garibaldi. Poi, soddisfatto, uscì dalla scrivania e accompagnò la suora all’uscita.

    Il traffico dell’ora di punta mi costringe a riflessioni piuttosto lunghe. Stanco di trovarmi in coda, parcheggio nel primo posto libero ed entro in un bar. Ordino un Aperol. Seduto al tavolino, da solo, continuo a lasciarmi andare ai ricordi. Ai bilanci.

    Mi chiamo Giuseppe Garibaldi per colpa, o per merito, di una suora devota e di un impiegato comunale con la passione della Storia.

    Mi chiamo Giuseppe Garibaldi e da domani inizia una nuova vita. Una nuova vita nella quale l’incarico di guardia addetta alla sicurezza di un centro commerciale è solo la copertura ufficiale.

    Giuseppe Garibaldi, infatti, è un agente dei servizi segreti. Non solo, attenzione. Giuseppe Garibaldi è una agente dei servizi segreti con la passione della scrittura.

    Bevo l’Aperol senza gustarlo e mi faccio portare una birra. Poi un’altra. Anche se mi beccano ubriaco alla guida chi se ne frega. I servizi penseranno a tutto.

    Controllo il cellulare personale, quello di famiglia. Un whatsapp di mia moglie.

    Quando torni amore? Ce l’ai il lavoro? Se ce l’ai, porta a casa la pizza fritta, così festeggiamo…

    Soprassiedo sulla grammatica. I miei stessi banali errori di qualche anno fa. Poi sarà colpa del T9, naturalmente. Rispondo con un’emoticon. Una faccina gialla che strizza l’occhio. Invio anche un cuoricino, non si sa mai. Sono correo dell’imbarbarimento dei costumi comunicativi, per cui estraggo dalla tasca il cellulare di lavoro. Il lavoro vero. Un modello di una ventina d’anni fa con scheda prepagata. Brilla una lucina sul display. Un sms. Clicco sulla letterina. Trovo un indirizzo e un orario. La data è domani. Memorizzo e poi spengo.

    Vorrei festeggiare con un rutto l’inizio di questa nuova era. Mi trattengo e mi dirigo alla cassa per pagare. Poi rientro in macchina. Ed arrivo a casa.

    Mia moglie si chiama Dea, ma a ad essere obiettivi della divinità non ha nulla. È donna alquanto profana, in realtà. Prosaica. Era bella e fresca, in gioventù, anche se i miei ricordi non possono certo essere significativi. Ora Dea si è trasformata in una sciocca quarantenne che veste come una ragazzina di dodici anni e parla come una bambina di sette. È piuttosto sovrappeso, inoltre. Ragiono da porco sciovinista, e presto ne intenderete la ragione.

    Non appena sente girare la chiave nella serratura Dea mi corre incontro. Sciabattando, travolgendomi ed abbracciandomi con le sue braccia cicciute.

    Beppe, facciamo un selfie, daiiii…

    Non faccio in tempo a togliermi la giacca che compaio sullo schermo del suo iPhone.

    Faccio finta di sorridere, consapevole a malapena che sto per essere sparato sugli schermi di altre migliaia di smartphone.

    Dea smanetta furiosamente, sorridendo per ogni cuoricino di risposta che riceve.

    La guardo con malcelata compassione. Gildo mi salva. Mi si struscia ai piedi e mi annusa le scarpe. Miagola. Lo accarezzo e gli verso qualche crocchetta.

    Dov’e Kevin?

    Dea emerge stranita dagli algoritmi della rete. Mi guarda con un’espressione quasi rabbiosa.

    Beppe, santa pazienza…Ti sei scordato la pizza fritta? Come festeggiamo, adesso? L’avevo detto anche alla mamma…

    Mi picchio la mano sulla fronte, proprio nel momento in cui in salotto compare mio figlio. Kevin, appunto.

    La sua sedia a rotelle sbatte contro la credenza, ma riesce ugualmente a raggiungermi. Mi batte un cinque. Grande, Pà. Allora ce l’hai fatta… Gli sorrido.

    Sì, Kevin. Sono stato capace di essere assunto, ma non sono stato capace di ricordarmi la cena. Ci andiamo insieme, da Ciro?

    Kevin allunga le braccia per farsi sollevare. Il mio ragnetto di appena trenta chili. Il mio Ragnetto paraplegico. Lo bacio sulla testa ed esco dal salotto. Ciro, il pizzaiolo, ha il negozio proprio sotto il nostro appartamento. Non faccio nessuna fatica a sollevare Kevin e a portarmelo in giro. Né la farei se di chili ne pesasse il triplo.

    Continuo a pensare con Kevin in braccio, mentre attendiamo il nostro turno in pizzeria. Mi chiamo Giuseppe Garibaldi ed ho due figli. Victoria, di sedici anni, che mi sta sfuggendo di mano. Kevin, di quattordici, paraplegico della nascita. A scuola un rendimento prodigioso.

    Mi chiamo Giuseppe Garibaldi ed ho due figli ed una moglie. Con la mente ritorno al giorno in cui conobbi Dea, all’incirca diciassette anni fa. Una festa d’estate chissà dove. Un cocomero svuotato pieno di sangria. E il ragazzone di quasi due metri, cioè il sottoscritto, che concepisce Victoria dietro un cespuglio. Abbarbicato ed avvinghiato ad una innamoratissima futura moglie.

    Poi una cerimonia in fretta e furia, la Casa popolare che ospita il nuovo nucleo, i pianti notturni di Victoria. La nascita di Kevin, questo bambino che non è capace di camminare. Il mio lavoro da muratore, per più di dieci anni. Fino a quel mattino di novembre, il 12 novembre. Una data piuttosto significativa nella mia altrimenti risibile esistenza. Il muletto che mi rovescia addosso quintalate di cemento armato. Sono grosso, quasi due metri per poco più di cento chili di muscoli. Mi salvo, ma entro in coma.

    E ci rimango per quattro anni.

    Signora Garibaldi, danni cerebrali irreversibili. Potrebbe svegliarsi da un momento all’altro, ma chissà in quali condizioni. Oppure…

    Oppure?

    Oppure suo marito potrebbe non svegliarsi mai più…

    Dea si dispera non tanto per la mia sventurata sorte, quanto perché lavoro in nero, per cui non ho diritto ad alcun rimborso assicurativo. Mi viene a trovare quasi tutte le sere, povera donna, indossando camice verde, calzari e mascherina. Ma io sono sempre intubato, rattrappito, monitorato. Dietro un vetro oscurato ed assolutamente irriconoscibile.

    Soprattutto non sono io quell’uomo fra la vita e la morte, disteso supino e in attesa del miracolo.

    Non sono io perché il vero Giuseppe Garibaldi, il giorno dell’incidente, viene preso, caricato sopra un’ambulanza e portato in un posto molto lontano. Per quattro anni Giuseppe Garibaldi diventa il protagonista del progetto K. Un programma di addestramento intensivo, volto a far nascere super soldati.

    Kappa come Kommando. Mi hanno fatto diventare un cazzo di Kommando. Una sorta di supereroe da playstation in grado di uccidere con una stretta di mano. Avete presente il film Nikita? Ecco, io sono Nikita. Una Nikita di quasi due metri e poco più di cento chili.

    Rientro in casa reggendo Kevin con la sola forza del collo, le mani impegnate a non far cadere cinque cartoni di pizza fritta rovente ed olezzante.

    Beppe, tesoro, finalmente un lavoro…

    La Mamma. Con la M maiuscola. Non la mia naturalmente. La mamma di Dea. Una insopportabile donnetta dai capelli tinti che ha completamente spappolato il cervello della mia povera consorte. Dice solo cazzate, la Mamma. Spacciandole per sacrosante verità. Naturale che un simile bombardamento, in atto da decenni, abbia causato danni incalcolabili alle sinapsi del mio tenero simbionte. In realtà, la questione è divenuta prioritaria solo da quando sono tornato. Al Beppe pre-addestramento la qualità delle relazioni intra-familiari interessava il giusto. Ad essere sinceri, al Beppe pre-addestramento quasi tutto interessava il giusto. Ma adesso devo sforzarmi per evitare ulteriori danni. Soprattutto, devo fare in modo che il bombardamento non raggiunga Vic.

    Obiettivo affatto semplice ma non certo impossibile.

    Apro i cartoni ed appoggio le pizze sul tavolo. Faccio accomodare Kevin ed inizio a tagliare la pizza. La mamma, Dea e Vic mangiano con la sinistra e postano con la destra. Uno spettacolo davvero desolante. Dovrò faticare non poco per raggiungere quell’obiettivo.

    Guardo Kevin e gli sorrido. Almeno c’è Kevin, il mio Ragnetto di appena trenta chili.

    Esco, Mà…

    Dove? Con chi?

    Victoria si guarda allo specchio. Alza la maglietta per far uscire l’ombelico. Un ombelico come quello di Jessy la Zebra, contornato da un brillante piuttosto kitch.

    Mi viene a prendere Lollo…

    La Mamma, ossia la nonna di Vic, le si avvicina da dietro. Le sorride mentre cerca di arpionare con le dita un pezzo di mozzarella fritta incastrato fra molare e premolare.

    Senti un po’… Che macchina ha questo Lollo? Victoria si volta verso la nonna. L’abbraccia.

    Un’Audi. Decappottabile…

    Cazzo. Anche nel caso di Vic il bombardamento è in corso da anni. Sono stato assente per troppo tempo. Devo per forza ricostruir su macerie.

    Mia suocera mi guarda. Un sorrisino di scherno. Poi si volta giusto in tempo per non vedere il mio dito medio alzato.

    Dea continua ad avvicinarsi pericolosamente ad un attacco epilettico. Ormai è un tutt’uno col telefonino. Praticamente impossibile comunicare. Indomito decido di fare una prova.

    Domani vieni a cena a Brad Pitt…

    Ah sì? Ma guarda…

    Ci ho messo un sacco ma alla fine l’ho convinto. Pensavo di uscire un attimo a comprare del vino. Sai, per celebrare l’occasione. Pensavo di andarci con una scopa infilata nel culo, se non ha niente in contrario…

    No, figurati. Vai tu però. Io sono stanca…

    Non ti preoccupare, amore. Nessun problema. Poi al ritorno mi piacerebbe sodomizzare Gildo. Sempre se sei d’accordo, ovviamente…

    Certo, amore. A Gildo farà sicuramente piacere… Kevin ride in silenzio. Adoro quel suo modo di ridere. Così discreto, così rispettoso. Lo afferro e ci buttiamo sul divano. Guardiamo un film che in realtà non ci interessa. Ma stiamo bene così, la sua testa leggera sopra la mia spalla capiente.

    La pizza fritta continua il suo laborioso iter all’interno del mio stomaco provato. Il film è veramente scadente, ma mi permette di pensare ad altro. Mi permette, ancora, di riflettere su me stesso. Di continuare con i bilanci. Non ho praticamente fatto altro, oggi.

    Ma oggi è una giornata speciale. Oggi Giuseppe Garibaldi ha finalmente trovato un lavoro. Un lavoro serio.

    Naturalmente è tutta una farsa. Non il lavoro in sé, che dovrò cercare di mantenere a tutti i costi. Chiaro che ho svolto mansioni ben più pericolose, ma se dovessi eccedere in stronzate i Servizi potrebbero prendermi e sbattermi in Medio Oriente a incastrare mine antiuomo nel retto di guerriglieri palestinesi. O israeliani, dipende sempre dalla politica estera del Governo in carica. In tutti i modi, scenari

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