Bologna imperfetta
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Anteprima del libro
Bologna imperfetta - Anna Patrizia Mongiardo
Anna Patrizia Mongiardo
BOLOGNA IMPERFETTA
Prima Edizione Ebook 2020 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868104023
Immagine di copertina su licenza
Adobestock.com
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Piave, 60 - 41121 Modena
http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it
Il nostro catalogo completo lo trovi su
www.librisumisura.it
Anna Patrizia Mongiardo
BOLOGNA IMPERFETTA
Romanzo
INDICE
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L’AUTRICE
CATALOGO
A mio marito Gianluigi
Ho appena trovato un morto! Ah no, proprio a quest’ora, alle sette del mattino, che ho fretta di andare a lavorare? Devo avvisare la polizia.
Cos’è successo?
Adesso vi spiego. Seguitemi.
1
Dopo aver parcheggiato l’auto, attraverso la stradina che procede rasente il retro dell’ospedale dove lavoro. Oltre c’è un muretto che nasconde un viottolo segnato dal solco dei passi. Lo attraversano anche altri dipendenti che come me parcheggiano dietro gli edifici e a forza di passarci l’erba si è fatta da parte.
A luglio, alle sette del mattino c’è molta luce e una temperatura gradevole, il cielo oggi è pulito e sgombro da nuvole. Sento il fischio del treno a valle che a quest’ora passa dalla Futa in direzione di Firenze. Quando giro l’angolo del muretto, ci sono le siepi intisichite dalla mancanza d’acqua. Da sotto un cespuglio formato da alloro, sorbi e felci, vedo spuntare un paio di scarpe, con la punta rivolta verso l’alto. Mi abbasso per osservare meglio perché sono miope, per questo porto gli occhiali, di certo non per bellezza. Insomma, sono leggermente ciecata. Ammicco. Dopo le scarpe ci sono i pantaloni, ma ne vedo solo un pezzetto, perché il cespuglio ha i rami che arrivano fino a terra e coprono tutto. Li scosto un po’ per vedere cosa c’è lì sotto e una folata di zanzare, che probabilmente ho disturbato, si alza in volo.
— Oddio qui c’è un morto! No no, forse è ubriaco.
Faccio un salto dallo spavento. Mi sembra proprio morto. Per poco non mi prende un colpo. Anche se lavoro in ospedale, i morti mi fanno impressione lo stesso.
A quest’ora della mattina incontrare un morto non è proprio bello. Non è che un morto s’incontra così tutti i giorni.
Sotto quel cespuglio non avevo mai visto niente, al massimo qualche bottiglia di birra lasciata dagli operai delle manutenzioni. Mi giro a vedere se arriva qualcuno, così, giusto per chiedere e capire se quel che vedo io lo vede anche qualcun altro. Certe volte non so come faccio a raggiungere il posto di lavoro. Diciamo che quando salgo in macchina, l’attenzione e i riflessi si destano, poi, quando arrivo in ospedale, il cervello sembra rientrare nella scatola dell’ultimo sonno; il livello di concentrazione cala di nuovo.
Quindi a quest’ora prendo un altro caffè, ma intanto che sono qui, davanti al morto, che faccio? Do una vociata in direzione delle scarpe, dico ehi! Niente, sono troppo immobili, forse quelle scarpe lì appartengono a un senzatetto, così come il pezzo di pantaloni che vedo. Ogni tanto qualche soggetto strano capita da queste parti, ma non si infilano di certo sotto i cespugli, di solito cercano qualche angolo riparato dell’edificio. Di sicuro c’è che a luglio la notte è fresca, quindi dormire così all’aperto non è poi così male. Me la batto a gambe levate, più resto qua e più provo spavento.
Vado in direzione del sotterraneo a chiamare qualcuno, insomma quattro occhi vedono sempre meglio di due.
Nel sotterraneo c’è anche un bar frequentato dal personale che come me deve prendere servizio. Dal bar proviene un discreto vociare, rumori di tazzine, profumo di caffellatte e vaniglia. Entro. Allungo lo sguardo. Ah eccolo, è lì, uno degli addetti alla manutenzione. Mi rivolgo a lui perché lo incrocio sempre fuori, si distingue bene dagli altri per la tuta grigia che indossa. Non mi è nemmeno simpatico, ma è l’unico che a quest’ora può darmi retta. Mi avvicino piuttosto agitata.
— Senti, per piacere, vieni a dare un’occhiata fuori, sotto un cespuglio, credo ci sia un uomo morto.
— Un morto? — Mi guarda con il braccio sospeso mentre sta sorseggiando il caffè.
— Mortissimo, è infilato sotto il cespuglio.
Qualcuno che ha orecchiato si gira, altri fanno finta di niente, altri ancora mi guardano incuriositi, ma non si muovono dal loro cornetto e dal caffè. E ti pareva, non c’è nessuno che vuole avere delle beghe.
L’uomo mi guarda per un attimo e non so se fissa i miei occhi o gli occhiali che li coprono, perché le lenti, con la luce, tendono a scurirsi e a nascondere lo sguardo. L’addetto ingurgita il suo caffè che per poco non gli va di traverso e, senza ribattere troppo, mentre appoggia la tazzina sul bancone, dice: — Andiamo. — Meno male che almeno lui mi ha dato retta.
Ripercorriamo il pezzetto di strada insieme.
Dev’essere marocchino oppure tunisino, non so, insomma sembra arabo. Sul badge che porta attaccato al collo c’è scritto Ahmed. Non mi guarda più, non parla e non mi rivolge la parola, si vede che parla poco, forse è per questo che non mi sta simpatico. Procede dritto.
— Dove? — chiede.
— È lì — dico indicando il grande cespuglio. Non è lontano dall’ingresso, facciamo pochi passi e ci siamo.
Lui china la testa da una parte, poi si abbassa, allunga il braccio, afferra una delle scarpe e la scuote leggermente.
Adesso noto che una scarpa ha la suola leggermente consumata.
Fossero state quelle da ginnastica, non si sarebbe visto, perché le scarpe da ginnastica hanno la suola di gomma che non si consuma mai. Ahmed non si è scomposto minimamente nel vedere il morto, fa l’uomo forte lui.
— Dobbiamo chiamare la polizia — dice intanto che si rialza.
— Ci pensi tu? Io devo timbrare il cartellino e presentarmi in reparto — dico mentre cerco di svignarmela.
— No, aspetta, scusa, come ti chiami e dove lavori? Lo dici tu alla polizia che l’hai trovato.
Ah ma allora parla! Eccome se parla.
— Mi chiamo Anita Ferraro, mi trovi nel reparto di radioterapia, piano terra padiglione B. Ci sono solo io che mi chiamo così.
— Lavori in un posto mica tanto allegro — dice Hamed mentre allarga le gambe a V come per darsi maggiore stabilità. Sfila il cellulare dalla tasca dei pantaloni e compone il numero della portineria perché attivino la chiamata per la polizia. Io cerco di svignarmela. Gli lascio il caso in mano ben volentieri, ho i pazienti che mi aspettano, io, lui no.
Corro via più in fretta che posso. Bestemmio in bolognese, calabrese, romano e in tutte le lingue che conosco, perché ho tre punture di zanzare che mi provocano un dolore terribile. Lo so, oggi sarà una giornata bestiale, arriveranno i poliziotti, la scientifica, il fotografo, qualche giornalista, e qualcuno verrà sicuramente a interrogarmi. Ma tu guarda! Proprio a me doveva capitare una rogna del genere.
Intanto si è fatto tardi, porco mondo! Certo che arrivo al lavoro in ritardo, non vorrei provare imbarazzo a sentirmelo dire. Entro in reparto col fiatone. Imbocco un lungo corridoio che è anche la corsia del reparto da cui si accede alle sale di trattamento radioterapico. Alle due estremità vi sono le uscite che portano uno in senologia e l’altro in oncologia.
Elvira è la collega in turno con me per tutta la settimana, mi sta aspettando, e intanto che aspetta, si adorna con braccialetti fatti di perline colorate, si spolvera un po’ di cipria sulle guance . In ogni sala lavoriamo in due per legge, ma anche per necessità.
Le condizioni fisiche e psicologiche dei pazienti a volte sono precarie e necessita la presenza di più figure professionali. Quindi, Elvira e io questa settimana la trascorreremo insieme.
— Cum êla ch’t î arivè lóng? — (Com’è che sei in ritardo?
) chiede. Infila sempre qualche frase bolognese in mezzo all’italiano. Carina lei, quando mi parla in bolognese, e quando lo fa m’incanta.
I dialetti mi piacciono perché danno succo alle parole e le rendono dense di significato. Allora glielo dico perché sono in ritardo.
— Sotto un cespuglio c’era un morto — e racconto quel che ho visto, che non è poi tanto. Elvira si accende come una lampadina, per la curiosità.
— Ma chi era, non hai notato nient’altro?
— Boh, no. Solo le scarpe, erano di quelle buone come andavano una volta, scarpe di cuoio cucite a mano, però erano consumate parecchio, la suola era assottigliata e sotto l’alluce di una scarpa fra un po’ sarebbe uscito il buco.
— Poveretto. Chissà chi è — dice.
Elvira è una delle colleghe che amo di più, ha quel non so che d’infantile ancora, anche se ha ventotto anni. È troppo giovane forse, rispetto a me che ne ho trentotto. Farisa, un’altra collega, che ha qualche anno in più di Elvira, le ha appiccicato il nomignolo di Hello Kitty perché arriva al lavoro con una borsa di Hello Kitty, e dentro ci sono gli accessori di Hello Kitty. Insomma la chiamiamo tutti così.
Eccoci finalmente in sala comandi davanti alla lista dei pazienti.
Dalla telecamera do uno sguardo alla sala d’attesa affollata, prima di chiamare il paziente numero uno.
Arrivano tutti molto presto per schivare il traffico che dopo le otto del mattino congestiona le strade di Bologna.
Adesso devo cercare di concentrarmi ed