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I bambini di Parigi
I bambini di Parigi
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E-book416 pagine5 ore

I bambini di Parigi

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Info su questo ebook

La speranza è l’arma più potente contro l’oscurità

Parigi, 1935. Un’ombra cala sull’Europa, foriera di oscuri pre­sagi per la città di Parigi, mentre il regime di Adolf Hitler acquista po­tere. La giovane Madeleine Lévy, nipote di Alfred Dreyfus – un eroe ebreo della prima guerra mondia­le – prende coraggiosamente parte alla resistenza e diventa la custode dei bambini perduti.
Quando Madeleine incontra una bambina in un cappotto logoro con lo sguardo vuoto di chi ha as­sistito a orrori indicibili, una gio­vanissima rifugiata ebrea tedesca, è sempre più decisa a fare la sua parte. Madeleine offre ai bambi­ni conforto mentre lavora con gli altri membri della resistenza con l’obiettivo di uscire di nascosto da Parigi verso un luogo più sicuro. Mentre la Parigi che Madeleine ama si trasforma in un teatro di tensione e di odio, molti sono ten­tati di abbandonare la causa. Nel mezzo dell’occupazione, il destino di Madeleine si unisce indissolu­bilmente a quello di Claude, un giovane ebreo combattente della resistenza. Con un futuro impre­vedibile davanti a loro, tutto quel­lo che Madeleine può fare è con­tinuare a lottare con la massima determinazione di cui è capace.

Ispirato alla commovente storia vera della nipote di Alfred Dreyfus, il protagonista dello scandalo che divise la Francia

«Questo libro ci ricorda un’epoca oscura. L’autrice ha svolto una ricerca accurata sulla vita di tutti i giorni nella Parigi occupata. La storia vera si intreccia mirabilmente alla narrazione.»
Historical Novel Society

«Un romanzo che si divora, una storia di grande ispirazione sul coraggio che sopravvive al Male più oscuro.»
New York Journal of Books

«Gloria Goldreich racconta la straordinaria vita di Madeleine Lévy, che si batté contro l’antisemitismo durante la seconda guerra mondiale. Il suo eroico salvataggio di tanti bambini ebrei francesi è una storia che commuove.»
Marie Benedict, autrice del bestseller La diva geniale
Gloria Goldreich
Si è laureata alla Brandeis Uni­versity e si è specializzata in storia ebraica all’Università Ebraica di Gerusalemme. È stata coordina­trice del dipartimento di Edu­cazione ebraica della National Hadassah e ha ricoperto il ruolo di direttrice delle relazioni pubbli­che del Baruch College della City University di New York. I suoi li­bri sono tradotti in diverse lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2020
ISBN9788822747884
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    Anteprima del libro

    I bambini di Parigi - Gloria Goldreich

    Nota dell’autrice

    I bambini di Parigi è un romanzo basato sulla vita di Madeleine Lévy, nipote di Alfred Dreyfus ed eroina del movimento di resistenza francese.

    Sebbene io abbia cercato di seguire il più fedelmente possibile la successione cronologica della sua breve e tragica vita, mi sono avvalsa della finzione letteraria per dar vita a scene e relazioni frutto della mia fantasia. Ho consultato diverse fonti, in particolare Dreyfus: A Family Affair di Michael Burns e Suzanne’s Children: A Daring Rescue in Nazi Paris di Anne Nelson.

    Prologo

    Fuochi d’artificio rossi, bianchi e blu danzavano nel cielo color cobalto della sera. Le urla esaltate dei bambini e la vigorosa musica patriottica degli artisti di strada si mischiavano con canzoni intonate all’improvviso. Come sempre nella settimana precedente al 14 luglio, i parigini si riversavano per le vie a festeggiare. Il rumore dell’entusiasmo per l’imminente celebrazione entrava dalle finestre aperte del salotto dei Lévy, dove però la famiglia al completo sedeva in un silenzio carico di sofferenza, indifferente all’allegria del mondo esterno.

    Con le mani giunte e le teste chine, non osavano guardarsi in faccia, per il timore che una sola occhiata potesse scatenare un torrente di dolore. Si sforzavano di recepire le parole mormorate con voce misurata, pacata e pregna di dispiacere dal dottor Pierre Paul Lévy, che, a disagio, spostava il peso da un piede all’altro. Nella sua lunga carriera di medico, il genero di Alfred Dreyfus aveva avvertito molte famiglie dell’incombente dipartita di un parente ma, quella sera d’estate, il verdetto riguardava i suoi stessi cari.

    «Vi ho chiesto di venire per dirvi di prepararvi all’inevitabile. Morirà. Presto. Molto presto», disse con un tono a malapena udibile.

    Sua moglie, Jeanne Dreyfus Lévy, si voltò verso di lui e, con il bel viso sbiancato, parlò con un filo di voce.

    «Ne sei sicuro, Pierre Paul?», gli chiese, pur consapevole che era una domanda superflua. Pierre Paul era famoso per la sua competenza diagnostica e per la precisione delle sue previsioni. Conosceva fin troppo bene gli infausti sviluppi della malattia che stava lentamente e inesorabilmente ponendo fine alla vita di Alfred Dreyfus.

    «Senza alcun dubbio», rispose lui con decisione. «I reni stanno cedendo. La morte si avvicina in fretta».

    Jeanne annuì e andò alla finestra, la chiuse e tirò le tende di velluto color cremisi, bloccando alla vista e all’udito i festeggiamenti che importunavano il loro dolore nascente. Che buffo, pensò, che suo padre, dopo essere sopravvissuto a un’ingiusta condanna per spionaggio, a cinque lunghi anni di esilio e prigionia sull’isola del Diavolo e poi essere diventato un eroe sui campi di battaglia insanguinati della Grande Guerra, stesse morendo per un semplice disturbo addominale. Con un sospiro, tornò a sedersi accanto all’anziana madre Lucie sul divano, le prese la mano fredda e le massaggiò delicatamente le dita.

    «Ma il nonno non morirà prima del 14?», s’informò Étienne, il più piccolo dei figli dei Lévy, arrossendo subito dopo di vergogna per la domanda irrilevante.

    «Sì. Quasi sicuramente prima del 14», rispose mesto il padre.

    Pierre Paul Lévy non avrebbe mentito alla sua famiglia. Non avrebbe potuto. In quanto medico, da tempo per lui la morte, improvvisa o lenta che fosse, era una compagna costante. Il dolore che provava per la perdita imminente era contenuto, ma soffriva per Jeanne, per suo fratello Pierre, per la madre Lucie e per i piccoli di casa, i propri figli e i nipoti, la cui innocenza sarebbe stata annientata dalla dipartita del nonno.

    Facendosi forza per affrontare lo sconforto, poggiò una mano sulla spalla di Jeanne, senza però staccare lo sguardo da Madeleine, la loro figlia più piccola.

    Era seduta di fronte a lui, accanto alla sorella Simone. Aveva gli occhi chiusi, con le lunghe ciglia umide di lacrime non ancora versate sopra gli zigomi alti e una cascata di ricci scuri che le arrivavano alle spalle. Aveva diciassette anni, era giovanissima; troppo giovane, pensò lui, per una perdita così grave. Da tempo aveva notato il legame speciale tra Madeleine e il nonno, la misteriosa tenerezza che per entrambi era stata un conforto e un sostegno fin dai primi giorni dell’infanzia di lei. Il loro amore era palpabile.

    «Hanno bisogno l’uno dell’altra, si capiscono», gli aveva detto una volta Simone, esprimendosi con quella precoce maturità che lo sorprendeva sempre. «Madeleine gli legge le labbra e il nonno le legge nel cuore».

    La verità in quelle parole aveva colpito Pierre Paul. Quando, all’età di otto anni, Madeleine aveva preso la scarlattina, Alfred Dreyfus era rimasto al suo capezzale giorno dopo giorno, notte dopo notte. Non appena la piccola si era risvegliata da quel sonno potenzialmente eterno, la prima parola che aveva sussurrato era stata «nonno». E quell’uomo, che di rado lasciava trapelare la commozione, era scoppiato a piangere e si era chinato per darle un bacio sulla guancia. Ma, qualche giorno dopo, Alfred Dreyfus non aveva versato una lacrima nello spiegare alla bambina guarita che la malattia le aveva danneggiato l’udito.

    Lui e Jeanne, pur essendo i genitori, erano stati un po’ codardi a delegare quel difficile compito ad Alfred, ne era consapevole. Ma erano rimasti ad ascoltare mentre lui rivelava la verità alla nipote.

    «Devi considerare la difficoltà a sentire come un dono. Imparerai a concentrarti e a leggere le labbra delle persone con cui parli, e la concentrazione ti permetterà di capire a fondo sia chi parla sia le parole che usa», le aveva detto e Madeleine, accettando la situazione con coraggio, aveva annuito.

    All’epoca, la piccola non aveva compreso quel discorso, ma le era rimasto impresso nella memoria, e vi ripensava quando ne sentiva il bisogno. Forse lo stava facendo anche in quel momento, immaginò Pierre Paul.

    Si rese conto che si era verificato uno strano ribaltamento dei ruoli. Come il nonno era rimasto al suo capezzale quando lei era una bambina, Madeleine era rimasta al suo fianco durante la malattia. Per tutta la primavera dell’ultimo anno di liceo, aveva trascorso lunghi pomeriggi e serate accanto a lui, racimolando qualche ora tra lo studio e l’impegno preso con i bambini del movimento scout ebraico. I bambini la riempivano di gioia. La salute sempre più deteriorata del nonno la riempiva di disperazione.

    L’aveva visto dimagrire in fretta; aveva visto la sua pelle, delicata come pergamena, ingiallire per un principio di itterizia. Essendo figlia di un medico, aveva capito che sarebbe morto.

    Nel fissare il bel volto di Madeleine, Pierre Paul si meravigliò di aver sempre pensato soltanto alla fragilità della figlia, senza mai riconoscerne la notevole forza. Ma ora la riconosceva e, prendendole la mano, la condusse nella sala da pranzo, dove il resto della famiglia sedeva a tavola per bere il tè ormai freddo e discutere il da farsi alla luce della fine imminente. I preparativi per il funerale. L’annuncio alla stampa e all’esercito. Alfred Dreyfus era una figura storica, un cavaliere della Legion d’onore. Stilarono delle liste e si suddivisero le responsabilità.

    Una volta finito, la conversazione virò inevitabilmente sulle nefaste notizie giunte dalla Germania, causa di grande tormento. Era impossibile ignorare la crudeltà del regime nazista, la realtà del male così vicino che minacciava il loro confine.

    La guerra era dietro l’angolo come la morte del padre, Pierre Dreyfus ne era convinto.

    «I resoconti da Berlino sono inquietanti», disse con aria solenne. «Hanno approvato le leggi antisemite e gli ebrei soffrono in modo indicibile. Viene negato loro di lavorare. I bambini sono costretti ad abbandonare la scuola, terrorizzati dai quei prepotenti della Gioventù hitleriana. Stanno accadendo cose terribili, e il peggio deve ancora venire».

    «Quelle leggi verranno revocate. Hitler non può sopravvivere nella patria di Schiller, Goethe, Beethoven e Bach», obiettò Pierre Paul. «Sei troppo pessimista, Pierre».

    «No», rispose lui con decisione. «Non lo sono abbastanza. Forse dimentichi che mio padre è stato perseguito nella patria di Voltaire e Racine».

    «E poi prosciolto. La Francia non è la Germania», ribatté Pierre Paul.

    «Ma adesso Adolf Hitler è la Germania. Proprio oggi ha dichiarato di appoggiare l’invasione italiana in Etiopia. Dopotutto, se l’Italia può invadere l’Etiopia, allora perché la Germania non dovrebbe invadere la Francia? Non ha già detto che le rivendicazioni tedesche sull’Alsazia sono del tutto legittime?».

    A sentir nominare quella regione, rabbrividirono. Alfred Dreyfus era nato in una frazione di Mulhouse e alcuni parenti abitavano ancora in quel paesino. Se l’Alsazia era in pericolo, allora lo era anche la famiglia Dreyfus. Le minacce di Hitler li colpivano al cuore.

    Pierre tacque e curvò le spalle. Era una domanda retorica. Si sentiva logorato dalla futilità della discussione. Per quanto fossero legati, da tempo lui e il cognato avevano convinzioni politiche opposte.

    «Anche nel caso improbabile di un’invasione tedesca, i francesi si comporteranno con coraggio e onore», insistette Pierre Paul.

    Madeleine rabbrividì. Le metteva paura sentir parlare delle crudeltà che dovevano sopportare i bambini ebrei tedeschi. Se la Germania avesse invaso la Francia, i piccoli di cui lei si occupava come scout avrebbero corso lo stesso pericolo. Pensò ai loro visi allegri, alle loro voci dolci e acute, e si sentì invadere dal panico.

    Fissò Simone e i fratelli dall’altra parte del tavolo. Percependo la sua angoscia, Simone le prese una mano per rassicurarla e i ragazzi sorrisero. In quanto membri degli éclaireurs israélites, un’associazione scout ebraica, i figli dei Lévy condividevano le apprensioni dello zio e riconoscevano la fondatezza dei timori di Madeleine, ma quella sera non era il caso di mostrarsi in disaccordo con il padre, né che i Dreyfus fossero in conflitto tra loro.

    «Non litighiamo», intervenne Lucie con un filo di voce, alzando una mano. «Preghiamo invece per quello che ci sta a cuore. La pace per il nostro Paese e il nostro popolo. La pace per Alfred».

    Alle sue parole seguì il silenzio. Madeleine l’aiutò a mettersi il mantello.

    «A domani, nonna», le disse.

    «Sì. À demain», ripeté l’anziana e le diede un bacio sulla guancia.

    La mattina seguente, Madeleine si svegliò di buon’ora e partì da casa dei genitori pedalando in fretta fino a un piccolo caffè frequentato da studenti sulla rive gauche, dove l’aspettava il suo caro amico Claude Lehmann. Con la fronte corrugata, sfogliava «Le Monde».

    «Ancora brutte notizie?», gli chiese; si sedette davanti a lui e intinse un croissant nella tazza di caffellatte che era stato così gentile da ordinare per lei.

    «Quando mai ci sono state buone notizie?», disse Claude, con un sospiro. «Questi sono tempi pericolosi. Gli éclaireurs devono essere pronti ad affrontare le difficoltà che ci aspettano».

    Madeleine annuì. Aveva parlato in modo velato, ma lei aveva ugualmente compreso il suo intento.

    «Non posso aggiungere altro», proseguì lui, «ma hai capito. Gli scout hanno bisogno di te, Madeleine. C’è del lavoro da fare».

    «Lo so», rispose lei, risoluta e rossa in viso.

    «Certo». Claude abbassò lo sguardo. «Tuo nonno sta meglio?», le domandò con gentilezza.

    «Non starà meglio, Claude», gli rispose in tono piatto e lui si allungò sul tavolo per prenderle la mano.

    «Fatti forza, Madeleine», la incoraggiò, poi si alzò e recuperò i suoi libri. «Scusa, ma devo andare. Ho un seminario a breve».

    Si sforzò di trovare le parole per confortarla, invece fu lei a dire quelle giuste per alleggerire il commiato.

    «Non preoccuparti per me, Claude», gli disse. «Pensa a studiare. Parleremo presto. Per ora, au revoir».

    «Au revoir», ripeté lui e si allontanò di corsa.

    Si girò prima di svoltare l’angolo e la vide seduta immobile al tavolino, a fissare la tazza quasi vuota. Non avrebbe dovuto dirle di farsi forza. Madeleine era già abbastanza forte. Avrebbe dovuto darle un bacio sulle guance e metterle una mano sui capelli, in un gesto di tenerezza. Assalito dal rimpianto, rallentò il passo e maledisse tra sé e sé la propria timidezza.

    Rimasta sola, Madeleine si concesse il lusso del silenzio, persa in un turbine di ricordi.

    «Fiori, signorina, fiori per il 14 luglio? Oggi sono speciali. Rossi, bianchi e blu».

    Un bambino, con gerle piene di fiori sulle spalle strette, la riscosse dai suoi pensieri e le rivolse un sorriso speranzoso.

    «Sì. Certo», disse lei, prese il borsellino e tirò fuori due franchi.

    Lui le consegnò un grosso mazzo legato con un nastro tricolore.

    «Vorrei anche questi bei lillà», aggiunse lei e, con un sorriso, prese i profumati boccioli viola che il piccolo le porgeva.

    I lillà erano i fiori preferiti della nonna, e anche i suoi. Se ne infilò uno tra i lunghi capelli scuri e, di nuovo piena di energia, finì quel che restava del caffellatte ormai tiepido, montò in sella alla bicicletta e si diresse a gran velocità verso l’appartamento dei nonni in rue des Renaudes.

    Lucie Dreyfus aprì il pesante portone di quercia con il suo solito sorriso dolce e gentile. Anche in quel momento critico, la sua calma dignità non la abbandonava. I capelli bianchi e folti erano raccolti in uno chignon e al vestito nero aveva applicato un colletto di pizzo bianco fatto da lei. Madeleine notò che, anche se il bel viso della nonna era pallido per la stanchezza, gli zigomi alti erano lievemente arrossati. La donna prese i lillà e inspirò riconoscente il loro dolce profumo.

    «Sono bellissimi, Madeleine», esclamò. «Sono contenta che tu sia qui. Pochi minuti fa, il nonno ha chiesto di te».

    «Allora è sveglio?», s’informò Madeleine.

    «È in una specie di dormiveglia. Apre gli occhi, li chiude. Parla e poi tace. Ma non avere paura, Madeleine. Non sembra che soffra».

    «Non ho paura», la rassicurò la ragazza.

    Le tornarono in mente le parole di Claude. Tempi pericolosi, aveva detto. La vita, pensò lei con tristezza, incuteva più paura della morte.

    Portò il vaso con i fiori rossi, bianchi e blu nella stanza in penombra del malato, dove lo zio Pierre sedeva accanto al letto.

    «Sta dormendo?», gli chiese in un sussurro mentre appoggiava il vaso su un tavolino.

    «Non è sveglio e non dorme. Mi pare che tuo padre lo chiami stato dissociativo».

    Lei annuì e gli si sedette a fianco. Non dissero altro, anche se ogni tanto i loro sguardi si incrociavano e si chinavano verso il malato che bisbigliava parole per loro incomprensibili. All’arrivo di Lucie, rimasero a osservarla mentre passava uno straccio inumidito sulla fronte del marito, gli bagnava le labbra secche con del ghiaccio e infine gli dava un bacio leggero sulla guancia.

    Alfred Dreyfus aprì gli occhi e si voltò verso Madeleine.

    «Ma petite. Ma Madeleine». Il suo nome, pronunciato da quella voce roca, trasudava affetto.

    «Chante. Canta». Chiuse gli occhi e ripiombò nello strano dormiveglia che ben presto l’avrebbe condotto alla morte.

    Lei ubbidì, prima piano, poi alzò la voce e canticchiò la ninnananna che il nonno che le aveva cantato spesso. Dato il suo problema all’udito, lui aveva articolato chiaramente ogni parola e lei le aveva imparate a memoria. Come molte persone con il suo stesso deficit, non aveva alcuna difficoltà con la musica e le melodie.

    «Entends-tu le coucou, Malirette? Lo senti il cuculo, Malirette?», cantò.

    La squillante voce da tenore di Pierre si unì alla sua da contralto e, in un tenero duetto, accompagnarono con affetto Alfred Dreyfus verso il sonno eterno. Il canto si affievolì insieme al suo respiro, fino a quando si fermò. Lucie entrò nella stanza, la attraversò e gli mise una mano sul cuore, poi premette la guancia sulla sua bocca e le labbra sulle palpebre pallide per un bacio d’addio.

    «Se n’è andato», disse, con voce rotta. «Ci ha lasciato».

    Pierre la strinse tra le braccia forti e lei appoggiò la testa sulla sua spalla. Rimasero così in silenzio, in piedi, uniti in quel dolore condiviso, nell’enormità della perdita subita. Madeleine sistemò tre boccioli, uno rosso, uno bianco e uno blu, sul cuore del nonno, il cui battito si era fermato per sempre.

    Dalla finestra aperta, udì i rintocchi del campanile e li contò. Un. Deux. Trois. Quatre. Cinq. Non avrebbe mai dimenticato che, alle cinque del pomeriggio del 12 luglio, con il sole ancora alto in cielo, la morte era venuta a prendere suo nonno, Alfred Dreyfus.

    Fu Lucie Dreyfus a insistere perché il funerale si tenesse il 14 luglio.

    «Il nostro popolo rende onore ai morti seppellendoli il prima possibile», sentenziò risoluta e la famiglia annuì, ubbidiente. La sua placida serenità le conferiva un’autorità che i figli e i nipoti riconobbero e accettarono.

    «Sono contento che tuo nonno venga sepolto il 14 luglio», mormorò Pierre a Madeleine. «Sai quanto amasse la Francia».

    «Già», convenne Madeleine mentre sistemava con cura la bandiera francese sulla bara di pino.

    Il corteo funebre partì all’alba da rue des Renaudes e procedette lentamente dagli Champs Élysées fino al cimitero di Montparnasse, sull’altra sponda della Senna. Nonostante fosse presto, le vie erano piene di gente che festeggiava agitando il tricolore. Palloncini rossi, bianchi e blu si levavano in cielo. I bambini giocavano con i cerchi e le giovani coppie ballavano sulle note dei musicisti di strada ma, al lento passaggio del feretro, si fermarono in segno di rispetto.

    In place de la Concorde, le truppe della cavalleria interruppero l’esercitazione e girarono i cavalli verso il carro che accompagnava l’eroe di Montmorency nel luogo in cui avrebbe riposato per l’eternità.

    Al cimitero, Madeleine e Simone, con abiti di lino neri e cappelli di paglia neri in equilibrio precario sui capelli raccolti con cura, presero posto accanto al fidanzato di Simone, Anatol, e ascoltarono il rabbino Julien Weill intonare le tradizionali preghiere ebraiche. Fu Madeleine a farsi avanti per sostenere la nonna Lucie quando barcollò appena, muovendo in silenzio le labbra a tempo con la liturgia.

    Pierre Dreyfus intonò il Kaddish funebre e Madeleine rimase profondamente commossa dalla cadenza della preghiera e dalla voce forte e ritmata dello zio.

    «Amen», dissero i presenti quando Pierre finì, con il capo chino e il viso rigato di lacrime.

    «Amen», ripeté Madeleine e, con un filo di voce, aggiunse le parole che per Alfred Dreyfus avevano significato moltissimo: «Liberté, égalité, fraternité». Il suo credo, l’eredità che le aveva lasciato.

    Uno dopo l’altro, i famigliari si fecero avanti e sollevarono la pesante pala con la terra scura che avrebbe ricoperto il legno chiaro della bara. Era una tradizione ebraica, l’ultimo atto di amore e rispetto concesso dalla famiglia al defunto.

    «Tocca a te, Madeleine», le disse il fratello Jean-Louis e le allungò la pala.

    Lei scosse la testa e preferì inginocchiarsi accanto alla tomba aperta. Raccolse una manciata di terra umida e la lasciò cadere sulla bara. «Au revoir, grand-père. Shalom, grand-père», mormorò. Nel tragitto di ritorno verso rue de Renaudes, dove Lucie Dreyfus sarebbe rimasta a vivere da sola, sedette accanto a Simone.

    «Stai bene, Madeleine?», le chiese lei.

    Fin dall’infanzia, le sorelle Lévy erano sempre riuscite a percepire il rispettivo stato d’animo. Amiche carissime, sorelle devote, erano protettive l’una verso l’altra e condividevano interessi e inclinazioni, nonché il desiderio di mettersi al servizio dei meno fortunati. Simone stava ultimando il corso per diventare assistente sociale e Madeleine, da poco diplomata al liceo Molière, avrebbe seguito la stessa strada.

    «No. Non ancora. Ma mi riprenderò», rispose.

    «Sì, ti riprenderai», convenne Simone.

    Le sorelle si tennero occupate nella cucina della nonna sistemando i vassoi di uova sode e pasticcini, il tipico cibo che si mangiava dopo un funerale a simboleggiare la continuità della vita anche di fronte alla morte.

    Madeleine portò un vassoio in sala da pranzo, poi andò nello studio e chiuse la porta. In quella stanza in penombra, piena di libri, dove aveva trascorso molte ore felici con il nonno, le finestre erano sbarrate; nell’aria aleggiava una cappa di afa estiva. Le aprì e subito sentì sulle guance una brezza fragrante, carica dell’aroma delle primule. Guardò la strada, brulicante di gente in festa che agitava bandiere e cantava in modo spontaneo. Alcuni bambini impegnati a ballare sotto il portico del palazzo si divisero per lasciar entrare dei visitatori venuti a rendere omaggio alla famiglia del defunto. Le parve al tempo stesso strano e stupendo che la gioia dei bambini e la sofferenza per il recente lutto potessero fondersi con tale facilità. Ci aveva pensato quella mattina, mentre con la nonna preparava la tavola per il pranzo che avrebbe seguito il funerale.

    Lucie le aveva detto di maneggiare con cura i piatti da portata di Sèvres dal bordo dorato.

    «Sono stati il mio primo regalo di nozze», le aveva spiegato. «Avevo paura anche solo a toccarli. Che stupida ero. Mi sono sposata giovanissima. Ero così felice, così innamorata. Avevo più o meno la stessa età di Simone. E Alfred aveva forse un anno in più di Anatol. Non riuscivamo a smettere di sorridere, io e Alfred».

    Madeleine aveva annuito, stupita che in quel giorno triste la nonna ripensasse a sé e al marito traboccanti di gioia. «Simone ha scelto bene», aveva proseguito la donna. «Non credi, Madeleine?»

    «Sì».

    Aveva risposto con sincerità. Era meraviglioso che Simone avesse trovato l’amore e la felicità con Anatol, brillante studente di Legge, ma lei bramava l’avventura di una vita indipendente, una carriera insignita di un significato che forse, nel suo piccolo, avrebbe reso il mondo un posto migliore. Voleva che la vita la sfidasse, che la mettesse alla prova.

    Prese la cornice con il disegno della casa dei Dreyfus a Mulhouse, all’ombra di un pero. Era stato realizzato da un artista itinerante sconosciuto, ma Alfred Dreyfus l’aveva conservato come un tesoro. Madeleine lo sollevò verso la luce per osservarlo meglio e, in quell’istante, la porta si aprì ed entrò Claude Lehmann. Senza dire una parola, lei gli porse il disegno e lui sorrise. Per una strana coincidenza, anche lui veniva da Mulhouse e la sua famiglia era vicina di casa dei Dreyfus.

    «Ah, quell’albero. Mi ci sono arrampicato tante volte. D’estate, coglievo una pera succosa e me la mangiavo seduto tra i rami», disse.

    «Anch’io ci salivo quando ci andavamo d’estate. Magari tu eri nascosto tra le foglie e non ti ho visto», ribatté lei.

    «Magari».

    La guardò con quel sorriso così tenero, che aveva notato al loro primo incontro, alla sua prima riunione con gli éclaireurs, quando lui aveva tenuto un discorso con un raro misto di ardente solennità e malinconico umorismo.

    «Quella degli scout è una tradizione importante», aveva affermato. «Ci insegna a essere autosufficienti e a confrontarci con la natura in tutta la sua bellezza e con tutte le sue sfide. E noi, in quanto scout ebrei, ben presto ci troveremo ad affrontare situazioni che richiederanno il nostro coraggio e le nostre capacità. Quello che sta accadendo ai Blau-Weiss, i leader giovanili ebrei in Germania, potrebbe accadere presto anche in Francia e, da bravi scout, dobbiamo essere pronti per un simile pericolo».

    Mentre parlava, si era levato un mormorio di dissenso.

    «La Francia non è la Germania. Ciò che succede in quel Paese, non potrebbe mai accadere qui», aveva strillato con aria di sfida un ragazzo alto.

    Claude aveva sfoderato il suo meraviglioso sorriso tollerante.

    «Speriamo di no», aveva detto. «Ma non c’è nulla di male a prepararsi per qualcosa che potrebbe succedere come non succedere».

    Dopo di che, insieme agli altri scout aveva cantato con entusiasmo la Marsigliese, seguita dall’Hatikvah, l’inno del popolo ebraico.

    Claude poi era andato da lei e le aveva porto una mano.

    «Spero di non averti spaventato con le mie parole», le aveva detto.

    «No. Spero che non dovremo affrontare un tale pericolo, ma sono d’accordo sul fatto che dobbiamo essere pronti. Nei nostri cuori non deve esserci posto per la paura», aveva risposto lei con fare serio.

    «Non mi sembri un tipo che si spaventa facilmente».

    «Nemmeno tu».

    Quel primo scambio di battute aveva gettato le basi della loro affettuosa amicizia. I loro sguardi si erano incrociati, in segno di riconoscimento e sintonia reciproci.

    Sempre attenta quando si trattava della sorella, Simone aveva notato la confidenza tra loro.

    «Forse tu e Claude siete qualcosa di più che amici?», aveva chiesto a Madeleine per prenderla in giro, staccando gli occhi dal quaderno su cui faceva delle prove per gli inviti alle sue nozze.

    Madeleine si era sporta per ammirare la bella calligrafia della sorella e aveva scosso la testa.

    «Io e Claude siamo buoni amici, niente di più», aveva risposto in tutta sincerità.

    Ci teneva alla loro amicizia, ma lui non era il centro del suo universo. Aveva tutta la vita davanti, una strada inesplorata rischiarata dal sole che portava verso un futuro sconosciuto e ignoto.

    Tuttavia, nel triste giorno del funerale del nonno, fu grata di avere accanto Claude, con il suo silenzioso sostegno e la tacita comprensione del suo lutto.

    Lui le tolse il disegno di mano e lo osservò con attenzione.

    «Magari, un giorno, ci arrampicheremo insieme su quel pero, Madeleine», le disse. «Arriveremo fino in cima, guarderemo la valle sotto di noi e raccoglieremo abbastanza pere per fare una bella composta. E quel giorno saremo felici».

    «Saremo mai felici, Claude?».

    La domanda le uscì spontanea e la riempì di vergogna, ma lui non ne fu sorpreso. Sfoggiò ancora quel meraviglioso e strambo sorriso, le prese una mano e gliela massaggiò con delicatezza, lentamente, per calmarla con il suo tenero tocco. La capiva. Conosceva bene l’origine di quell’improvvisa tristezza; condivideva le sue stesse paure e speranze per il futuro. In quel giorno di lutto, le offrì la propria forza e il proprio cordoglio.

    Si avvicinarono alla finestra e osservarono il sole che cominciava la sua lenta discesa. Il giorno della festa nazionale si apprestava a finire. Tutta Parigi era avvolta dall’azzurra malinconia dell’heure bleue, quell’ora magica tra il crepuscolo e l’arrivo delle tenebre. Si voltarono l’uno verso l’altra, consapevoli anche senza bisogno di parlare che quella triste giornata si era conclusa e che un nuovo inizio li attendeva.

    Capitolo uno

    Passarono trenta giorni, ognuno dei quali accentuò la nuova realtà dei Dreyfus: Alfred non c’era più. Il trentesimo giorno, chiamato in ebraico shloshim, la famiglia si riunì per osservare l’antica tradizione della seconda fase del lutto.

    Seppur riluttanti, i famigliari si ricongiunsero come previsto in rue des Renaudes nell’appartamento di Lucie, che li accolse con la sua tipica serenità. Dalla cucina arrivava il profumo del suo famoso stufato di agnello. In ritardo per via del colloquio all’ente per i servizi sociali, non appena entrò nella stanza affollata Madeleine fu travolta dai saluti e dall’affetto. Nonostante la morte, i Dreyfus erano uniti, vivi e resistenti.

    La stanza era pervasa dalla tenue melodia dei ricordi. I cugini raccontavano con dolcezza le domeniche felici trascorse in salotto. Aline Dreyfus, la figlia più piccola di Pierre, rammentò la volta in cui Alfred aveva insegnato loro la vivace tanzette à la schellette, poi prese per mano Étienne e insieme si misero a correre allegri per la sala accennando quel veloce ballo alsaziano.

    «Il nonno sorrideva mentre ce la insegnava», disse Jean-Louis. «Me lo ricordo perché non sorrideva spesso. Vero, Madeleine?»

    «No, infatti», convenne la sorella. «Spesso era molto triste».

    «E aveva tutti i motivi per esserlo. La Francia, la sua amata Francia, l’aveva deluso. Perché era ebreo, vulnerabile e senza protezione», borbottò Pierre.

    Madeleine fu sorpresa dall’amarezza nel tono dello zio. Pierre Dreyfus, eroe di Verdun, insignito della Legion d’onore, aveva sempre mostrato un fervente patriottismo nei confronti della République.

    I tempi erano cambiati. «Adesso la Francia riconosce il valore degli ebrei e li protegge. I nostri figli non conosceranno mai la paura e l’odio», intervenne suo padre.

    Pierre si strinse nelle spalle.

    «Come vorrei poterti credere, Pierre Paul», disse in tono amaro. «Invece credo che la maledizione dell’antisemitismo resti vivissima nei cuori e nelle menti di tanti nostri connazionali. Presto, molto presto, l’odio che infetta la Germania si riverserà oltre il confine e gli uomini che hanno perseguito mio padre perseguiranno tutti gli ebrei. Tu sei un medico, lo sai che non è facile contenere né curare il cancro. L’antisemitismo è un cancro e ne abbiamo già visto i sintomi. La settimana scorsa ci sono state manifestazioni antisemite sul Grand Boulevard. Manifestazioni che si diffonderanno. Una mitosi di odio irrazionale. Un raduno questa settimana, due quella dopo. Un contagio del male».

    Si versò un generoso bicchiere di brandy e lo bevve con gli occhi chiusi.

    Madeleine lanciò un’occhiata a Simone, che scosse la testa in segno di ammonimento. Non dissero nulla per non contraddire il proprio padre, ma sapevano bene quanta verità ci fosse nelle parole dello zio. Pochi giorni prima, avevano assistito a un nuovo spettacolo intitolato Il caso Dreyfus. Il critico teatrale di «Le Monde» l’aveva descritto come un ritratto solidale dell’innocenza di Alfred Dreyfus e della sua immotivata disavventura. Le ragazze si erano prese per mano quando l’attrice che interpretava Lucie aveva detto, con un gemito: «I nostri figli meritano un po’ di compassione».

    Quei figli erano Jeanne, la loro madre, e Pierre, il loro zio. Simone e Madeleine erano scoppiate a piangere, ma si erano subito riscosse dalla tristezza per la reazione al vetriolo del pubblico. Nel teatro era esplosa una cacofonia furiosa.

    «Nessuna compassione per i figli di Dreyfus. Quel traditore ebreo ha forse avuto compassione della Francia?»

    «Abbasso gli ebrei!».

    Simone e Madeleine erano scappate di corsa dal teatro e da quel coro di ignoranza e odio. Ora, sedute nel salotto della nonna, la paura provata quella sera era tornata.

    Pierre andò alla finestra e fissò imbronciato la strada. Il loro padre sedeva in silenzio, con aria arcigna.

    Alla fine fu Jeanne Lévy a parlare, rivolgendosi al fratello, con un tono a metà tra una supplica e un’affermazione.

    «Lo sai anche tu che le cose andranno meglio, Pierre. Al

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