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Morire a Marcinelle. Storia di un minatore italiano
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Morire a Marcinelle. Storia di un minatore italiano
E-book131 pagine1 ora

Morire a Marcinelle. Storia di un minatore italiano

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Info su questo ebook

Il soldato Giuseppe Corso, dopo tanti scontri combattuti tra le fila del reggimento cavalleggeri "Alessandria" in Jugoslavia e dopo sette anni di guerra, riesce a salvarsi dalla fucilazione da parte dei titini. È Sonja, un'infermiera slava che amerà per tutta la vita, a salvarlo. Giuseppe, tornato in Italia, spera di essere utile alla ripresa della sua patria lavorando nelle miniere del Belgio. Parte con tanti altri in carri ferroviari malandati per andare a vivere in campi di baracche. Sarà uno dei 262 morti nella tragedia di Marcinelle avvenuta l'8 agosto 1956. Il libro racconta le vicende di guerra intrecciate con l'amore per Sonja e la difficile vita in Belgio, dove nei locali pubblici era proibito l'ingresso ai cani e agli italiani. Sopravvissuto agli orrori della guerra in Jugoslavia fatta di assalti, esecuzioni sommarie, deportazioni, lager, tradimenti e vendette, Giuseppe Corso cerca di costruire la propria vita ma in Belgio tutto finisce mostrando ancora una volta la faccia mostruosa del genere umano.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788899735678
Morire a Marcinelle. Storia di un minatore italiano

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    Anteprima del libro

    Morire a Marcinelle. Storia di un minatore italiano - Emanuele Corocher

    G

    Dedicato a Giuseppe Corso

    Quel mattino il cielo era azzurro. Molti testimoni lo ricordano come una delle più limpide giornate che si fossero mai godute nel distretto minerario di Charleroi, ma verso le otto, la volta celeste cominciò a oscurarsi. Nuvole di fumo salivano dai pozzi del Bois du Cazier. La gente spaventata si precipitò ai cancelli, mentre sotto i loro piedi, nelle viscere della terra si consumava la Tragedia. Non sapevano ancora che le condizioni d’insicurezza e di abbandono di quel posto stavano trasformando un errore umano in una strage.

    L’angoscia cresceva minuto dopo minuto.

    Dei 274 lavoratori in servizio, nei vari livelli sotterranei, 262 (di cui 136 italiani) non ne sarebbero usciti vivi.

    Molte vicende le ho ricostruite io, basandomi sulle fonti che ho controllato al limite del possibile. Ho raccolto le testimonianze della cognata Rita, della nipote Maria Elisa e del pronipote Francesco, alle quali mi sono liberamente ispirato per raccontare, romanzandola, la vita di un giovane uomo pieno d’ideali e speranze, ma che ha conosciuto solo guerra, delusioni, fatiche e desolazioni. Nella sua breve vita ha provato raramente gioie e soddisfazioni, dalle quali trasse comunque forza e speranza. La miseria del dopoguerra e l’amore per la sua Patria, lo spinse ad emigrare, e dopo umiliazioni, patimenti, ferite, incidenti e infelicità, morì nella miniera di Marcinelle con altri 261 uomini come lui. Il più giovane aveva quattordici anni e il più anziano cinquantacinque.

    Il romanzo è ispirato dalla vita di Giuseppe Corso, Medaglia d’oro nel 2005 per merito civile.

    Emanuele Corocher

    Prefazione

    Sono Nerina, un’italiana di seconda generazione. Dopo aver frequentato la scuola elementare fra mille difficoltà a causa dell’emarginazione degli emigrati italiani, mi sono laureata ed ho insegnato nelle scuole belghe a migliaia di bambini di tutte le nazionalità. Il mio nome descrive l’ambiente in cui si viveva: tutto era nero. La fuliggine avvolgeva tutto e tutti, neonati compresi. Da molto tempo desideravo mettere ordine nei miei ricordi, scrivendoli in un diario. I miei figli temono che con lo scorrere del tempo la memoria si offuschi e possa scordare cose importanti. Ora ho più tempo, perché ho raggiunto l’età della pensione. Ho deciso di raccontare la storia d’amore, d’amicizia, di sofferenza e sacrificio che secondo noi non deve assolutamente cadere nell’oblio. Mio padre era un minatore che non scese in miniera il giorno della catastrofe perché aveva subito un intervento chirurgico e stava a letto. Non comprendevo che cosa significasse lavorare otto o nove ore in miniera. Vivevamo nelle baracche, ma io allora, bimba di nove anni, pensavo solo a giocare e non mi pesava dormire con la mia sorellina testa e piedi. Non c’era l’acqua corrente in casa e con i bambini del Belgio non ci giocavo mai.

    A scuola mi schernivano: «Sales macaronìs!», e io gli gridavo: «Sales pommes de terre! Patates!».

    Molte volte disputavo fisicamente. Spesso riuscivo persino a picchiare dei maschi che poi mi giravano alla larga. Nel campo eravamo tutti italiani, e se una famiglia aveva delle difficoltà o dei problemi, le altre cercavano d’aiutarla. Con il trascorrere degli anni le cose sono migliorate con i belgi ed io ne ho sposato uno. Logicamente il più bello e bravo. I miei figli sono nati qui e parlano minimo tre lingue. Siamo una famiglia, come si usa dire, integrata.

    Quando nacque la mia sorellina Irma, nell’anno Santo 1950, i suoi padrini di battesimo furono Franz e Ingrid, due fratelli tedeschi, grandi amici dei miei genitori. Li ho persi di vista per un paio d’anni, ma l’8 agosto 1956 riapparvero e non ci perdemmo di vista mai più. Conobbi in seguito Sonja, innamorata del nostro vicino e amico Giuseppe. Lei abitò con noi per molti giorni e raccontò tutto ciò che mi accingo a scrivere. Sono onorata per aver custodito questi ricordi che riescono a svelare molte facce dell’anima umana.

    1. La partenza

    Giuseppe si girava e rigirava nella brandina messa a sua disposizione dalle autorità belghe. Si trovava sotto la stazione centrale di Milano, al mattino seguente sarebbe stato sottoposto ad un’ultima visita medica presso la caserma Garibaldi, e poi, se ritenuto sano, sarebbe partito per una miniera in Vallonia.

    Era arrivato con un pacco di carte rilasciate dalla questura di Verona per attestare che non era pericoloso né facinoroso. Aveva inoltre una dichiarazione del vescovo, per dimostrare la buona reputazione e i risultati delle visite mediche già sostenute nella sua città. Durante la prima visita del mattino, i sanitari belgi gliele avevano sottratte, dandogli un solo foglietto numerato. Non poteva allontanarsi, ora non possedeva nessun documento per dimostrare che lui era veramente Giuseppe Corso, nato a Montorio Veronese e residente a Chievo. Pensò maliziosamente che qualche brigante avrebbe potuto sostituirsi a lui. Se rubavano quel foglio, sarebbero andati a lavorare al posto suo.

    Era molto inquieto. Durante il responso medico del pomeriggio, un contadino trevisano e uno friulano erano stati respinti perché uno aveva una vena varicosa e l’altro tracce di sangue nell’urina. I due uomini piansero e supplicarono per ore i sanitari ma la squadra medica fu inamovibile. Non potevano partire: Inabili.

    La dottoressa belga aveva poi rassicurato Giuseppe, in tedesco, lingua che lui parlava fluidamente. L’indomani la società mineraria gli avrebbe senz’altro dato il contratto per poter lavorare a scelta in uno dei cinque bacini carboniferi belgi: Borinage, Centre, Charleroi, Liège e Campine.

    Lo consigliò anche d’imparare la lingua francese. Sembrava proprio gentile.

    Non i due disgraziati contadini, che aveva guardato negli occhi e incoraggiato, lo avrebbero derubato. Non sarebbero andati a corrompere i medici, ma forse qualcuno scartato nei giorni precedenti e che ancora si aggirava fra le rotaie, al piano superiore. Sì! Quei due uomini erano umili e onesti. Da loro non poteva arrivare nessuna carognata, ne era certo, ma da gente sconosciuta forse sì.

    Era solo e non doveva fidarsi degli sconosciuti. Era stato questo l’ultimo consiglio avuto dal padre Onorio. Pensò alle sue forti braccia. Ricordava l’espressione dei suoi occhi quando due notti prima l’aveva salutato annunciando che partiva in cerca di fortuna.

    I genitori trasecolati lo pregarono di restare ma lui aveva preparato le carte già da giorni e a loro insaputa.

    Aveva trascorso sette lunghi anni lontano da casa a causa del conflitto bellico, e al rientro in Italia dall’est europeo si sentiva un estraneo. Non c’erano argomenti da condividere.

    Suo fratello Bruno, quasi coetaneo, da pochi mesi era tornato dalla prigionia in Germania. Capiva i sentimenti del fratello perché erano anche i suoi. Entrambi disoccupati si sentivano parassiti, benché i genitori mostrassero solo felicità per il loro ritorno. Erano tutti ancora sconvolti da ciò che avevano sofferto e visto durante la guerra. C’era tanta miseria.

    I genitori cercavano di sfamare cinque figli maschi e lo facevano senza lamentarsi, ma Giuseppe soffriva. Era nervoso, insofferente. Non si confidava con nessuno.

    S’isolava in un mondo triste e si capiva che soffriva. Diceva poche cose solo a Bruno. Era l’unico al quale aveva accennato della sua partenza per il Belgio.

    Si girò nuovamente nella brandina, uguale alle altre. Avrebbe potuto essere nella camerata di una colonia estiva per bambini. Sì, sul mar Adriatico di fronte ai luoghi che l’avevano visto in armi, fino l’anno prima.

    ***

    Avvertì il solito vuoto nello stomaco mentre prepotentemente ricordava lo sguardo di Sonja a Fiume il 10 settembre di quasi tre anni prima. Stava godendo una licenza già programmata di ventiquattro ore. Lui era già a letto, mentre lei si spogliava in modo meccanico, con lo sguardo perso nel vuoto.

    La camicetta cadde sul tappeto, poi la gonna, e mentre si toglieva la biancheria intima, lo guardò trattenendo il pianto. Era un amore totale, nato senza spiegazioni razionali.

    Nella stanza d’albergo, la solita passione li prese fino il mattino dopo. Dalle tende polverose s’insinuava un raggio di sole, attraversava il tappeto e lambiva la biancheria, in un fascio perfetto come una lama sottile. Ora doveva tornare al reggimento e lei era disperata. Lo scongiurò di restare, ma Giuseppe non poteva tradire la fiducia del suo superiore, né abbandonare gli amici. Di traditori italiani se ne potevano contare già molti iniziando dal Re, esponente di una monarchia inetta e fellona. L’aveva dimostrato con la sua fuga a Brindisi tradendo un’intera generazione d’idealisti.

    L’ordine arrivato dal Capo del reggimento consigliava di ricongiungersi con gli altri reparti e dirigersi a Trieste per aspettare nuovi ordini. Negli ultimi mesi, mentre era al sicuro nella casa del Chievo, si era silenziosamente rimproverato migliaia di volte. Sentiva la mancanza della sua donna che non era riuscito a convincere con il suo piano d’espatrio. Ricordò come l’aveva conosciuta. Accadde il 20 ottobre 1941 nell’infermeria del campo. Con il suo reparto era impiegato in una colonna d’autocarri che andava a Voinic. Dovevano prendere i rifornimenti alimentari. A circa metà strada nei pressi di Miholijsko, caddero in un’imboscata. L’equipaggio dell’autocarro di coda, sottrattosi all’agguato, riuscì a piazzare una mitragliatrice su una circostante altura e aprì il fuoco sui partigiani titini, che si accingevano a depredare e finire le vittime dell’imboscata. Lui, cavalcando il suo cavallo di nome Nero, riuscì a fuggire e avvisare il Capitano Casaburi a Voinic, che mandò immediatamente i carri armati in rinforzo ai superstiti. Recuperarono le salme dei caduti e portarono in salvo i feriti.

    Giuseppe si fece curare una ferita di striscio alla

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