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La casa dei sopravvissuti
La casa dei sopravvissuti
La casa dei sopravvissuti
E-book421 pagine6 ore

La casa dei sopravvissuti

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Info su questo ebook

Quando la guerra è vicina nessuno può fingere di non vederla

Erano ebrei in fuga dalla deportazione: lui li salvò

Alla vigilia del coinvolgimento degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, in America cominciano a nascere organizzazioni che riuniscono chi desidera aiutare gli ebrei in fuga dall’Europa sconvolta dal nazismo, gli stessi che vengono respinti dalle coste statunitensi come migranti indesiderati. È l’estate del 1941 quando Abe Auer, un immigrato russo, accetta di accogliere nella sua proprietà una rifugiata europea, Ana Beidler. Intorno a loro, la comunità ebraica americana si divide tra chi ha scelto di ignorare le atrocità che vengono commesse oltreoceano e chi invece vorrebbe intervenire, anche combattendo in prima persona contro Hitler. Ma quando una popolare sinagoga di Manhattan viene incendiata, nessuno può più fingere di non vedere che la guerra è sempre più vicina. La casa dei sopravvissuti racconta la paura e il coraggio, la determinazione e l’angoscia di chi si è trovato a lottare per la propria vita, per il proprio diritto a fuggire la disperazione e la guerra.

Una commovente storia sul significato di identità e famiglia e sulle decisioni che ci fanno capire chi siamo realmente

«Ha tutti gli ingredienti per un’opera memorabile: un’evocativa gestione del tempo e dello spazio, personaggi cesellati, una prosa limpida e precisa… Con Ana Beidler, Brooks ha creato una protagonista impressionante.»
New York Times Book Review

«Kim Brooks ci ammonisce che chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo… I personaggi sono travolgenti… Questo è un libro davvero potente.» 
Historical Novel Society

«Un’opera ambiziosa, mostruosamente riuscita… Con coraggio, Brooks ha scelto come ambientazione uno dei più terrificanti periodi della storia.»
Chicago Tribune
Kim Brooks
Si è diplomata all’Iowa Writers’ Workshop, dove ha anche insegnato. I suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste e i suoi saggi sono apparsi in «Salon», «Buzzfeed» e «New York Magazine». Vive a Chicago con la sua famiglia e La casa dei sopravvissuti è il suo primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2017
ISBN9788822716040
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    Anteprima del libro

    La casa dei sopravvissuti - Kim Brooks

    1940

    Titolo originale: The Houseguest

    Copyright © 2016 Kim Brooks

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Cecilia Pirovano e Sofia Buccaro

    Prima edizione ebook: gennaio 2018

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1604-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Kim Brooks

    La casa dei sopravvissuti

    Erano ebrei in fuga dalla deportazione: lui li salvò

    Indice

    Prologo. L’incendio

    I. L’arrivo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    II. Il lago

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    III. Hotel Utica

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    IV. La partenza

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Epilogo. La stazione

    Nota dell’autrice

    Ringraziamenti

    A Pete

    Voi che vivete sicuri

    Nelle vostre tiepide case,

    Voi che trovate tornando a sera

    Il cibo caldo e visi amici…

    Primo Levi, Se questo è un uomo

    Prologo

    L’incendio

    A mezzanotte passata, Stephen Field sedeva ancora alla scrivania, a leggere le lettere di sconosciuti che lo imploravano di salvarli. Il silenzio nel suo appartamento era interrotto soltanto dal ticchettio dell’orologio nella sala da pranzo. Di tanto in tanto, sentiva il lieve ronzio dell’ascensore che saliva e il vecchio portiere, il signor O’Brien, che salutava un inquilino e gli augurava una buona serata, ma erano rumori e interruzioni lontani. Così trascorreva le sue serate da ormai tre anni.

    Ogni sera leggeva lettere di ebrei che scrivevano dalla Germania, dall’Austria, dal Caucaso occidentale e dalla Polonia, ebrei sempre più consapevoli che, se non avessero lasciato l’Europa, sarebbero morti. Lui leggeva, leggeva e leggeva; per ogni lettera che terminava, il giorno dopo ne riceveva altre cinque, i cui mittenti, semplici spettri per Field, erano tragicamente ed erroneamente convinti che lui, in quanto ebreo, ebreo in America, ebreo americano con un nome abbastanza importante da giungere oltreoceano, oltre i controlli di frontiera, fino alle loro disperate mani imploranti, avrebbe potuto aiutarli.

    Al momento, aveva tra le mani la lettera di una quattordicenne di Vienna. Suo padre era originario di Łódź ma aveva vissuto in Austria per vent’anni, fino all’occupazione nazista, quando era stato deportato a Sachsenhausen. La piccola aveva fame ed era mezzo congelata. Tutte quelle lettere erano avvolte dalle tenebre e il suo compito principale, aveva deciso, era setacciarle in cerca di uno spiraglio di luce. Field conosceva un uomo al consolato austriaco. Era da un po’ che non chiedeva favori, quindi sistemò la lettera in una pila esigua, a destra di una ben più alta. Se la sua magia burocratica avesse funzionato, la ragazza sarebbe stata portata a Rector Street, in Nuova Scozia o a Murfreesboro, in Tennessee. In caso contrario, probabilmente sarebbe stata la fine della sua vita, ancora agli albori. La settimana prima, a un pranzo che lui stesso aveva organizzato in qualità di direttore della Zionist Organization of America, aveva confidato a Louis Brandeis di essere convinto che non ci fosse più molto da fare per gli ebrei perseguitati in Europa. Tre, quattro anni prima, forse sì, ma ormai, con i tedeschi che avanzavano in tutto il continente e gli inglesi che cercavano di limitare il Mandato britannico della Palestina per paura di una guerra con gli arabi, la situazione era senza speranza. Alcune persone in pericolo si potevano ancora salvare, certo. I giovani, i forti e i resilienti, ma gli anziani e i deboli sarebbero morti. Come lui stesso aveva dichiarato durante una riunione d’emergenza a Evian, erano ceneri economiche e sociali in un mondo crudele, She’erith Hapleitah. E non si capacitava del fatto che lui, Stephen Field, figlio di un uomo che vendeva generi alimentari porta a porta agli operai in Dean Street, fosse ora costretto a essere, per quanto possibile, lo spartiacque tra i vivi e i morti. Qualsiasi atrocità stesse accadendo, una cosa era certa: si trattava della peggiore crisi che il suo popolo avesse affrontato da quando lui era in vita. Ormai avevano accettato che in pratica storia e crisi fossero sinonimi per gli ebrei, dalla Genesi a Danzica, ma quello che stava succedendo al momento, quello che la gente subiva da quando i nazionalsocialisti avevano conquistato la Germania e poi l’Europa, era del tutto diverso e orripilante e inspiegabile e assolutamente innegabile. Il senso di immediatezza che avvertiva, il disastro di cui ogni giorno leggeva nella corrispondenza, lo travolgevano con una potenza ciclonica. Il suo ufficio era inondato di lettere, comunicazioni e ritagli di giornali yiddish che arrivavano da ogni agenzia ebraica. Leggeva una lettera o il racconto di un testimone oculare su un giornale e subito provava un senso di impotenza e di terrore, come la sensazione di cadere nello spazio, sempre più in fretta, verso l’ignoto, verso una catastrofe imperscrutabile. Poi, però, chiudeva il giornale o infilava la lettera in un cassetto e la sensazione passava. Si preparava una tazza di caffè, usciva per una passeggiata e il panico svaniva, sbiadiva come un sogno al risveglio, e lui andava avanti con la sua giornata. Perché in America, nel 1941, un ebreo poteva permettersi di andare avanti con la propria giornata. Ecco la differenza tra lui e le povere anime che scrivevano quelle lettere: una distanza impossibile e incolmabile. Finché, una notte di giugno, molto dopo la mezzanotte, il telefono si mise a squillare e una voce insistente gli disse di recarsi subito alla sinagoga, il più in fretta possibile.

    La sinagoga sembrava più alta, di un’imponenza raccapricciante. I suoi nuovi piani fiammeggianti svettavano sul parco come mai prima. Disorientato e stupito da quelle repliche della realtà, Field rimase perplesso dalla strana altezza del suo tempio. Più bruciava, più cresceva, mentre le fiamme lo rendevano grande quasi quanto i palazzi di appartamenti con cui condivideva la 68a Strada. Dalla cupola saliva una colonna di fumo nero che si perdeva nel cielo scuro. Era mattina, ma non ancora l’alba. Seguita dal rumore di vetri in frantumi, la cupola si afflosciò su se stessa, crollando sul tempio con una fiammata di ossigeno. La folla – ebbene sì, buon Dio, c’erano degli spettatori – sussultò e fece un passo indietro.

    Tra loro si trovava anche Field, che non si era ancora identificato e non aveva comunicato alle autorità la propria funzione nel tempio. Un vecchio svegliato dalle sirene e dal fumo, venuto a osservare la scena a distanza di sicurezza. L’impulso di guardare. Uomini, donne e persino bambini. Osservare era una delle più pure espressioni dell’esistenza umana; sanciva la presenza di quelle persone e la realtà del mondo in cui abitavano.

    Field si portò un fazzoletto davanti al viso per riparare la gola e le narici dal fumo. L’aria era umida per via degli idranti. Si fece largo tra la folla, con il calore che aumentava, superando corpi indifferenti, interessati soltanto a mantenere il proprio posto. Alla fine raggiunse lo schieramento di pompieri. Ce n’erano a decine, più tre autopompe e due camion dotati di scala. Si spostavano tutt’intorno all’edificio in modo sorprendentemente ordinato ed efficiente, ma anche quasi irrilevante rispetto alle fiamme. Field seguì il cordone fino a quando una grossa mano bagnata lo afferrò per una spalla e lo costrinse a fermarsi. Dalla targhetta, proprio all’altezza dei suoi occhi, lesse che si trattava del comandante. Era un omone con le guance rosse e i capelli chiari sporchi e intrisi di acqua e sudore. «Non può andare oltre», disse a Field.

    «Sono il rabbino».

    «Lei è a capo di questa chiesa?», domandò l’uomo.

    «Di questo tempio, sì. Che cosa è successo?»

    «È troppo presto per dirlo. Non si preoccupi però, ci sarà un’indagine. Ora il modo migliore per aiutarci è lasciarci fare il nostro lavoro». Indicò la strada. «Al momento stiamo cercando di evitare che bruci tutto questo maledetto isolato. Lo vede quell’edificio lì accanto? È pieno di appartamenti, quaranta o cinquanta. Con bambini che dormono. Capisce?».

    Field annuì, ma non si mosse.

    «Glielo ripeto, si faccia indietro».

    Osservò il fumo che saliva. Avrebbe dovuto pensare alle persone nelle case vicine, o ai membri della sua congregazione che avevano perso il loro luogo di culto, o al proprio posto nel mondo – a ottantaquattro anni, avrebbe costruito un nuovo tempio e ricominciato da capo? – invece riusciva a pensare soltanto a tutto ciò che andava perduto all’interno della sinagoga: il bimah da cui parlava da trent’anni durante la festività di Yamim Noraim, l’organo d’ottone, l’Arca e il parochet che la copriva, la menorah vecchia di mezzo secolo all’interno dell’Arca, la sedia per Elia donata dal rabbino capo della Palestina, i rotoli della Torah.

    Ignari di tutto ciò, quegli uomini con le loro uniformi pesanti, le accette in mano e le manichette in equilibrio sulle spalle larghe avanzavano verso il muro di calore sprigionato dalla pericolante struttura di fumo e detriti. Forse parlavano tra loro o seguivano le istruzioni gridate da qualcuno, ma Field non sentiva. Tra la folla si udiva soltanto il rumore dell’acqua che lambiva le fiamme, del legno che cedeva, dei vetri delle finestre che andavano in frantumi come lampadine schiacciate sotto ai piedi. Field cercò di immaginare che cosa fosse necessario per addentrarsi in uno spettacolo simile, che mentalità avessero quegli uomini. Dovevano attuare una scissione, perlomeno momentanea, tra l’azione e loro stessi, una sospensione delle leggi naturali di autoconservazione. Erano arrivati a pochi metri dall’edificio, quando si bloccarono. Si udirono un boato e uno scoppio, seguiti dall’eco come di un tuono in lontananza. Una trave portante cedette, poi crollò il centro dell’edificio. La sinagoga ormai era un fossato, una costruzione circolare con un vuoto al centro. Gli uomini batterono in ritirata, si radunarono intorno al comandante e rividero il piano d’intervento. Sarebbero entrati di lato, non da davanti, sperando che, qualsiasi sostegno fosse rimasto, avrebbe resistito mentre loro combattevano dall’interno e controllavano le eventuali nicchie protette in cerca di persone intrappolate. Field pregò Dio che non ce ne fossero, che a notte fonda non ci fosse nessuno dentro. Per un istante se ne convinse, ma con la stessa rapidità fu invaso da una terribile consapevolezza. Dalla bocca gli sfuggì un verso, a metà tra un sussulto e un gemito. La signora Sobichek, la polacca che puliva la sinagoga ogni sera. Doveva finire e andarsene per le otto, così le era stato detto, ma lei era vecchia e povera. Viveva da sola sull’89a Strada, soffriva di artrite alle anche e beveva. Più di una volta era stata trovata a dormire nei sotterranei della sinagoga.

    Field avanzò tra gli spettatori, verso un pompiere. «Una donna», strillò. «Là dentro». Ma nessuno lo udì. Nessuno lo stette a sentire. Erano già entrati nell’edificio, scomparsi oltre il fumo. Per un attimo, ci fu un sussulto generale e tutti trattennero il fiato. Poi, dall’ingresso laterale della sinagoga, sul lato più lontano dalle fiamme, avanzarono due pompieri, gridando a qualcuno che non si vedeva. Un terzo uomo davanti a loro aveva sfondato la porta a colpi di accetta. Il comandante si diresse verso di loro. Field urlò, ma le sue parole si persero nel frastuono.

    Il comandante corse dai suoi uomini senza guardare indietro. Field fendette la folla a spintoni per vedere meglio. La porta laterale era crollata e ne usciva una colonna di fumo denso e grigio come acqua sporca. Subito dopo emerse un pompiere, di corsa e con un fagotto floscio sulla spalla. Field superò il cordone, ignorando le proteste e le urla dietro di sé. Dal fagotto, ricoperto di cenere, saliva ancora del fumo e, da sotto la coperta, penzolava un braccio, carbonizzato e privo di vita.

    Per la prima volta quella notte, il rabbino fu consapevole dei suoi anni. Aveva le gambe deboli e la testa leggera. Si guardò intorno in cerca di un viso conosciuto, di un membro della congregazione o di un amico, di un sostegno, ma non vide nessuno. Avrebbe dovuto dirlo prima. Avrebbe dovuto ricordarsene. Sentì le proprie fragili ossa schiacciate da una terribile solitudine che premeva sulla cassa toracica. Non riusciva a muoversi. Riusciva a malapena a deglutire. Non ricordava che cosa l’avesse spinto un tempo a credere in Dio o in se stesso o in qualsiasi cosa.

    In lontananza si levava una coltre di fumo, che si diradava fino a farsi sottile come aria e infine svanire nel bagliore rossastro dell’alba sopra Central Park. Il creato era uno spettacolo troppo bello e toccante da contemplare. L’incendio infuriava ancora. Avrebbe tanto voluto dare una mano, aiutare qualcuno, chiunque, partecipare invece di restare in disparte, ma riuscì soltanto a osservare quegli uomini giovani e forti che si facevano in quattro per domare le fiamme.

    I

    L’arrivo

    1

    Abe Auer avrebbe dovuto concentrarsi sul lavoro, non sull’immagine che aveva visto quella mattina sull’«Yiddish Daily Forward» di un corpo senza vita disteso in strada. Il lavoro era lavoro. Il lavoro era reale. Una foto, al contrario, era solo inchiostro. Eppure, in mezzo al suo deposito, continuava ad averla davanti agli occhi. Gli si era annidata nella mente e gli provocava un senso di nausea allo stomaco, una sensazione di bruciore dietro lo sterno, un nodo acuminato proprio al centro della gola e una pulsazione nervosa, di paura, alle tempie.

    Per tutto il giorno, ogni giorno, faceva del proprio meglio per non pensare a quelle immagini. Apriva l’edizione del mattino del «Forward» e leggeva di ebrei costretti a farsi schedare in Olanda, deportati per i lavori forzati in Romania, rinchiusi nei ghetti a Lublino e Varsavia. Poi chiudeva il giornale e andava al lavoro, scaricava la merce in arrivo, si occupava delle spedizioni, faceva quattro chiacchiere con chiunque passasse da lui, potenziali acquirenti che giocavano al ribasso, direttori di aziende, commercianti di rottami e proprietari di imprese edili. Compilava ricevute e valutava vecchie apparecchiature. Si preoccupava per la figlia, era contento di poter stare lontano dalla moglie, teneva d’occhio il suo assistente e, se ne aveva l’occasione, si lamentava del freddo o dell’umidità, o del prezzo dell’acciaio, o della sua ulcera latente che ogni tanto si risvegliava ed eruttava un torrente di lava nella tenera membrana intorno al suo cuore. Erano preoccupazioni normali, ordinarie, la maniera generalmente accettata in cui si passavano le giornate. Era così che viveva ultimamente ogni ebreo che lui conoscesse. C’erano lamenti, sospiri, pugni sbattuti sul tavolo e preghiere perché il saggio e benevolo presidente Roosevelt trovasse il modo di opporsi ai nazisti e proteggere gli ebrei. Poi tutti chiudevano il giornale e lavavano i piatti. Persino quella mattina, con la notizia di un incendio in una sinagoga non ad Amburgo, ma a Manhattan, avevano letto e si erano preoccupati, si erano lamentati a voce alta e avevano stretto i denti, poi avevano chiuso il giornale e avevano lavato i piatti. Che altro potevano fare?

    Abe sapeva che avrebbe dovuto farlo anche lui. Le persone a cui teneva, sua figlia, sua moglie, dipendevano da lui per continuare con la vita di sempre, proprio come chiunque altro. E così ci provava. Giorno dopo giorno, ci provava. Versava il latte nel caffè e leggeva i resoconti dei bombardamenti della Luftwaffe su Varsavia. Imburrava un toast e leggiucchiava un articolo sulla confisca dei telefoni a tutti gli ebrei tedeschi. Proprio quel giorno aveva letto di migliaia di ebrei, uomini, donne e bambini, nella città di Iași, in Romania, giustiziati davanti a una fossa. Poi, si portava dietro quei dettagli per tutto il giorno, separati dal resto di sé. Era come se avesse sulla schiena un sacco di ghiaia a schiacciarlo e rallentarlo. Era importante tenersi informati, erano tutti d’accordo al riguardo, ma ciò che poi dovevano farne delle informazioni era un’altra faccenda.

    La risposta migliore per Abe era un misto di stoicismo e rassegnazione. Perlopiù funzionava. Riusciva ad andare avanti. Se la cavava. Di rado vacillava, quando sul «Forward» leggeva un articolo sull’espulsione a Chișinău che gli riportava alla mente un episodio della sua infanzia a Hrodna o suo fratello Shayke, scomparso una sera senza mai più fare ritorno, nemmeno quando a casa era arrivata la polizia. C’erano cose del suo passato di cui Abe non parlava. Le persone che conosceva e a cui voleva bene lo accettavano. Solo che adesso i giornali erano pieni di notizie di cui nessuno voleva parlare. La comunità ebraica lo incalzava sempre più; lui era bravo a tenere i segreti.

    Ora, nel suo deposito, fissava il cielo e pensava alle spedizioni della settimana mentre il suo assistente mandava avanti la baracca. Là in piedi, con le mani nere di olio e gli occhi stanchi per la mancanza di sonno, guardava il cielo di giugno sopra la carcassa di una Oldsmobile. Agganciata a una gru, la macchina si muoveva in cerchio a mano a mano che si avvicinava alla distesa di ferraglia arrugginita, telai accartocciati e pile di copertoni bruciati che ricopriva il terreno. Penzolò e ruotò appesa alla catena mentre l’assistente di Abe la abbassava finché, tutt’a un tratto, si schiantò al suolo, sollevando un polverone grigio. Poi il motore si zittì e Tadeusz Kazimierz strillò a Abe: «Ehi, non dovresti essere in ufficio? Devi vedere un compratore alle tre e un quarto».

    Era la terza volta quel giorno che Abe se ne scordava. Non avrebbe dovuto essere così difficile ricordarsi un incontro con un tizio interessato a rilevare la sua attività.

    Quell’uomo non era il primo a interessarsi al deposito di Abe. Ne venivano ogni settimana. Uomini d’affari di Albany, imprenditori di Chicago, proprietari di aziende e costruttori di New York. Uomini pieni di soldi, alcuni discendenti da famiglie abbienti, altri che si erano fatti da soli. Venivano per incontrarlo e fargli un’offerta per il deposito e, con modi più o meno diretti, gli dicevano che razza di idiota sarebbe stato a rifiutarla. Al che, lui rifiutava.

    L’aveva fatto così tante volte nell’ultimo anno che era diventata quasi un’abitudine. Sapeva quello che gli avrebbero detto prima ancora che aprissero bocca. Cosa diavolo se ne sarebbe fatto di un mucchio di rottami che valeva otto volte più di quanto l’aveva pagato dieci anni prima? Voleva fondere personalmente il metallo per ricavarne l’artiglieria da mandare in Europa? Lo sapeva almeno come si faceva a produrre mitragliatrici e munizioni? O forse era solo allergico al successo?

    Gli ponevano le stesse domande che gli facevano tutti in città, che sua moglie gli ripeteva da anni: era stupido o soltanto ostinato? Come poteva non riconoscere la mano fortunata che gli era stata servita? Aveva comprato il deposito per due soldi nel ’26 da una famiglia italiana sul lastrico, pagandolo con i risparmi che aveva messo insieme vendendo articoli da ferramenta nell’East End. All’epoca non aveva idea che nel giro di quindici anni, con l’Europa nuovamente prossima a una guerra, il ferro si sarebbe venduto a quaranta centesimi l’oncia, l’acciaio e l’alluminio al doppio e che le fabbriche di tutto il Paese avrebbero battuto ogni luogo possibile alla ricerca di fonti di metallo da esportare economiche.

    Riceveva tre offerte al mese, molte delle quali generose. In tempo di pace, il settore dei rottami non era affatto di richiamo, ma con la guerra era tutta un’altra storia. La Remington, la General Electrics, quel giorno toccava alla Chicago Pneumatic. Vide l’uomo accostare su una Buick nuova di zecca. Elegante e sorridente, attraversò il cortile polveroso con l’aria più di recarsi a un gala che in un deposito di rottami; l’immagine perfetta dell’ebreo benestante. Troppo benestante, pensò Abe. Troppo fortunato. Gli ebrei non avrebbero dovuto avere tanta fortuna, avrebbero dovuto cominciare come aveva fatto lui quando era arrivato in America ventotto anni prima, raccogliendo stracci sotto la sopraelevata della Seconda Avenue. Quando un uomo cominciava a quel modo, tutto quello che veniva dopo poteva essere considerato un gran successo.

    «Takeh a shmelke». Sono un uomo di gran successo, mormorò Abe tra sé e sé, mentre tastava il taschino della camicia in cerca di un pacchetto di sigarette che non c’era. Ne trovò una dietro l’orecchio e si voltò verso il compratore giunto sulla soglia del suo ufficio.

    L’uomo si chiamava Nate Suskind. L’offerta era buona, come sottolineò più e più volte. Erano seduti nell’ufficio di Abe, al piccolo tavolo rotondo, sgombro e scolorito dalla pioggia che aveva preso prima che Abe lo spostasse all’interno. L’uomo aveva le mani dello stesso colore del legno. Tutto in lui lasciava intuire che ci fosse qualcosa di nascosto, come una patina di vernice sopra alla pasta di legno segnata dalle intemperie.

    «Mi stia a sentire», disse, appoggiando i gomiti sul tavolo. «Non le farei questa offerta se non fossi impressionato da quello che è riuscito a fare qui».

    Abe resistette all’impulso di sorridere, poi si arrese. «Se è così impressionante, perché diamine dovrei vendere a lei?»

    «Ho detto vendere? Volevo dire lavorare in società. Capisce la differenza?»

    «Certo», gli rispose. «Non è così complicata».

    A Utica c’erano solo due depositi che raccoglievano rottami: la American Junk Co. di Abe e uno più piccolo nella parte orientale della città di proprietà della famiglia Campo. I Campo erano in difficoltà e si potevano comprare per poco. Suskind intendeva investire nell’attività di Abe e sfruttare l’investimento per acquisire quella dei Campo. Loro due sarebbero diventati soci e avrebbero posseduto tutti i rottami ferrosi a est dei monti Adirondack. Insieme, sarebbero diventati i re dei rottami. Al momento, con le esportazioni che crescevano ogni mese e la produzione a pieno regime, era una buona posizione in cui trovarsi, ma se l’America fosse entrata in guerra, allora sarebbe diventata più che buona.

    Abe ascoltò senza aprire bocca. Rimase seduto a fissare prima l’uomo e poi, con gli occhi strizzati, Kazimierz fuori dalla finestra che scaricava un camion. L’assistente sollevò un grosso bordo bianco e lo estrasse, rivelando gran parte di una vasca da bagno con i piedini. Lo trasportò per il cortile e poi tornò al camion da cui scaricò un’altra vasca a metà. Questa però non era stata spaccata di netto, ma era frastagliata e irregolare, con la ceramica sbreccata. Qualcuno ci era andato giù pesante con quella vasca. In piedi sul bordo del camion, Kazimierz cercava il modo più sicuro per tirarla giù. Decise di prenderla a pedate, poi la trascinò per il cortile e tornò per i resti della vasca successiva. Dopo qualche minuto, Suskind cominciò a pestare un piede a terra, poi a tamburellare le dita sul tavolo e, infine, a battere il palmo della mano sul ginocchio. L’immobilità lo stava uccidendo. Quell’uomo non era abituato ad aspettare che la gente riflettesse a lungo sulle sue proposte, pensò Abe.

    «Lo vede?», gli chiese.

    «Che cosa?», disse Suskind.

    «Chi rompe le vasche da bagno? Chi le raccoglie? Perché le prendo?».

    Suskind alzò gli occhi al cielo. «Sono rifiuti, scarti».

    Finalmente, Abe scosse la testa. «Grazie, ma no. Non sono interessato».

    Suskind rimase seduto immobile, in attesa di qualcosa, di un seguito, di una spiegazione. Passati dieci secondi senza che accadesse nulla, il suo sorriso svanì e lui si appoggiò allo schienale della sedia, come se mettere dello spazio tra loro due servisse a chiarire quell’incertezza. «Sul serio?», chiese.

    «Sul serio».

    «Si prenda del tempo. Ci pensi su».

    «L’ho fatto. Adesso».

    «Allora mi faccia contento e mi spieghi il suo ragionamento».

    «Non lo definirei un ragionamento. Più una sensazione. Un presentimento».

    «Non capisco questo linguaggio. Ma lei è un uomo d’affari o un indovino? Le sto chiedendo di concludere un accordo, non di leggermi la mano».

    «Non posso fare nessuna delle due cose. E ora, se non le dispiace…».

    L’uomo riempì la sua valigetta con gesti ostentati, sistemando le carte e i raccoglitori all’interno. Fece scattare la prima chiusura e poi la seconda. Anche quelle erano lucide e l’ottone brillava illuminato dalla lampadina sul soffitto. Abe capì che stava già pensando alla prossima mossa. Un uomo del genere ci avrebbe guadagnato dalla guerra, in un modo o in un altro. La moneta corrente al mondo erano la sofferenza e la disgrazia. Solo gli idioti come lui restavano a bordocampo, a osservare il tempo che faceva.

    «Come vuole», commentò l’uomo, poi sbatté la valigetta sul tavolo e rivolse a Abe Auer un gran sorriso, porgendogli la mano. «Narishe kop». Lei è uno stupido, aggiunse, prima di toccarsi il cappello e attraversare il cortile.

    Abe si avviò alla sua Buick. All’interno, i sedili erano ricoperti dai giornali della settimana che non aveva ancora buttato e, dopo la pioggia in quella giornata calda, c’era puzza di umidità e di muschio. Raccolse i giornali e li portò al bidone della spazzatura accanto all’ufficio. Tornò alla macchina, accese il motore e si chiese che cosa avesse preparato Irene per cena, sperando che non fosse del pollo. Aveva preso la decisione giusta con Suskind. Era troppo rischioso vendere. Perché agitare le acque tranquille che l’avevano portato tanto lontano? «Narishe kop». Lei è uno stupido, ripeté una voce. Guardò fuori dal finestrino del passeggero aspettandosi di vedere Suskind, invece scorse suo fratello Shayke, allampanato e scuro, con i gomiti e le ginocchia sporgenti, una presenza vacua, il ricordo del fantasma di quell’uomo svanito quasi ancora prima di comparire.

    Quella sera, quando Abe arrivò a casa, Irene stava preparando la cena. Appoggiata al muro nell’ingresso, Judith parlava al telefono con il suo promesso sposo, raccontandogli qualcosa che la spinse a dare le spalle a Abe non appena lo vide. Lui si tolse il cappello e sbatté i piedi per togliere la polvere dalle scarpe, poi si lasciò cadere sul divano e fissò la parete per qualche minuto, fino a quando i piedi smisero di pulsare. A quel punto si alzò di nuovo e andò in cucina. Si avvicinò a Irene da dietro e affondò il viso contro la sua nuca. Era ancora la donna che aveva sposato, appesantita dagli anni, forse, con la postura stanca, ma ancora stupenda. Di una bellezza sprecata con lui. Lei si voltò. «Ciao, marito».

    La attirò a sé.

    «Vuoi le coccole o vuoi la cena?». Allungò un cucchiaio di legno. «Assaggia», disse. Lui le appoggiò le mani sui fianchi e ubbidì. L’intingolo era troppo salato, ma non lo disse e annuì con un verso di apprezzamento. Rimase a guardarla mentre lei tornava a fissare i fornelli.

    «Mi sei mancata oggi», le disse.

    «Ah, sì?».

    Le tirò un laccio del grembiule che si slegò, ma lei non vi fece caso. Il soffitto sopra le loro teste si mise a tremare. Judith stava correndo in camera sua. «Pensavo che questa sera giocassi a bazzica con Max Hoffman», disse Irene.

    «L’abbiamo spostata a martedì, così non è costretto a barare troppo vicino al sabato».

    Gli puntò contro il cucchiaio. «Quell’uomo è sempre così cupo. Se serve a rallegrarlo un po’, dovresti lasciarlo barare. Dovresti incoraggiarlo a farlo».

    «Credo si diverta più a perdere. Certi uomini sono fatti così».

    «Va’ a cambiarti la camicia prima di cena».

    Salì di sopra, prese una canottiera bianca dal comò e lasciò cadere a terra quella sporca, poi ci ripensò e la mise nel cesto della biancheria. Il tutto senza accendere la luce. Che cosa c’era da vedere? Quella camera, quella casa, i mobili e le pareti, gli erano più familiari persino del contorno del proprio volto. Svuotò le tasche sul comò e il posacenere nel cestino. Il giornale di quella mattina era piegato accanto al posacenere. Cominciò a leggere, ma lasciò perdere e lo gettò nel cestino.

    Di sotto, osservò Irene che metteva una spolverata di sale e pepe su una ciotola di fagiolini, mentre immaginava quello che gli avrebbe detto se avesse scoperto che aveva rifiutato l’ennesima offerta. «Ti chiedi sempre perché ti senti giù», gli avrebbe detto. «Ti senti giù perché hai il tempo per farlo, seduto tutto il giorno fra i rottami a tagliarti le unghie. Impazzirei anch’io. Chiunque impazzirebbe. Ti serve un lavoro regolare. Uno di quelli in cui ci si alza, ci si infila un completo e si passa la giornata a parlare con la gente».

    Si sbagliava, ovviamente. Loro erano diversi. Lei aveva bisogno di quelle cose che a lui non interessavano: quattro chiacchiere, conoscenti, inutili compromessi quotidiani. Lei non concepiva l’inattività fine a se stessa. Il grasso sfrigolava nella padella dentro il lavello, simile a lava nell’acqua. C’era un odore ricco, fragrante, straripante. Irene aveva la parte superiore della camicetta umida che le si appiccicava alla pelle, trasparente come un tessuto bagnato. Gli piaceva guardare sua moglie. E avrebbe voluto che stesse zitta. Avrebbe voluto guardarla in un silenzio puro e perfetto, come in un film. Le parole rovinavano tutto, anche la sua eleganza, ma che importava? La sua eleganza era fuori luogo.

    La serata trascorse come al solito. Una tavola apparecchiata, una cena decente, una donna attraente a servirlo, una ragazzina lunatica ma beneducata, affettuosa, sveglia e di una bellezza scura. Non una casa di lusso ma buona per stare al caldo. Non una cena di lusso ma abbastanza per sentirsi sazi. Che cosa c’era di male in tutto ciò? Che cosa era insufficiente? Ogni tanto se lo chiedeva. Gli ebrei venivano uccisi in Romania. Che cosa voleva dire per lui? Cercava di scacciare quei pensieri, ma qualcosa lo riportava sempre là. Una sensazione che non riusciva a scrollarsi di dosso, la sensazione di non essere del tutto distaccato, esente. Vedeva sempre più spesso Shayke. Un’apparizione che si faceva viva quando non riusciva a dormire.

    Era seduto con Irene da un lato e Judith dall’altro. La figlia indossava un vestito giallo con un fiocco nero sul colletto e portava un orologio con il cinturino di perle finte. Aveva le ciglia folte e appiccicose di trucco e i capelli lunghi e scuri con la frangetta. Non era proprio il suo tipo ma era carina, molto carina in quei giorni. Se ogni tanto avesse sorriso, avrebbe potuto stare sulla copertina di una rivista.

    «Smettila di guardarmi», disse lei.

    «Guardarti? Stavo mangiando».

    «Ho qualcosa in faccia?»

    «Stavo pensando a quanto sei bella, se proprio vuoi saperlo. La prossima volta terrò per me i complimenti».

    «Non prendertela. Sto solo scherzando».

    «Mi piace guardare il bel visino di mia figlia. Es tut dir vey? Ti offendo? È forse un crimine?», chiese rivolto alla moglie.

    «Fallo senza parlarne», rispose Irene. «A nessuno piace essere fissato. E poi, deve ancora perdere un paio di chili prima del matrimonio. Troppi complimenti minano la sua forza di volontà».

    «La mia forza di volontà sta benissimo, grazie».

    «Hai poi chiesto a Max Hoffman per la ketubah?», domandò Irene.

    «Non da quando me l’hai chiesto dieci minuti fa».

    Abe smise di ascoltare. Ormai non seguiva più i dettagli del fidanzamento di Judith. Gli bastarono pochi secondi e sentì annebbiarsi la vista. Irene e Judith presero a lamentarsi mentre passavano le pietanze. Riempirono i piatti di intingolo di carne, margarina e verdure bollite; versarono l’acqua; spruzzarono sale e pepe. Le finestre erano lievemente appannate per il calore della cucina. Imburrarono il pane, riempirono di nuovo i bicchieri, infilzarono la carne e raccolsero l’intingolo con il pane. Il vicino stava tagliando l’erba. L’odore dolciastro che entrava dalla finestra fece passare l’appetito a Abe.

    Osservò Irene che mangiava. Non aveva mai visto nessuno mangiare in modo tanto meticoloso. Pinktlekh. Preciso. Non le sfuggiva mai una briciola né una goccia di sugo. L’aspetto più disordinato della sua vita era lui. Nel guardarla, gli venne in mente che se il deposito, il suo unico grande investimento, aveva aumentato il proprio valore oltre ogni sua più rosea aspettativa, l’investimento che Irene aveva fatto con lui, suo marito, aveva imboccato una via di costante declino fin dal

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