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Romanzo musicale di fine millennio
Romanzo musicale di fine millennio
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E-book300 pagine4 ore

Romanzo musicale di fine millennio

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Info su questo ebook

I palchi e i grandi nomi che hanno fatto la storia della musica e del cabaret italiani narrati con ironia e disincanto tipicamente meneghini da un testimone d’eccezione.

Dal 1970 al 2000, una parata di nomi più o meno celebri, da Sanremo a Zelig, dagli chansonnier ai cantautori

Una storia personale, vissuta in prima persona, documentata fino in fondo ma leggibile come un romanzo. La storia di trent'anni di cultura pop del nostro paese.

Tante cose che avremmo voluto chiedere, tante che non potevamo immaginare: una lettura brillante e viva, interessante non solo per gli appassionati di musica. Uno spaccato di un'Italia che è cambiata, ma in cui siamo cresciuti.

Le collaborazioni illustri del Giangilberto Monti chansonnier e autore di testi sono innumerevoli. Dagli anni Settanta delle etichette indipendenti con Ricky Gianco e Ivan Cattaneo agli album pubblicati con CBS Italia (L'ordine è pubblico?, 1978; Il giro del giorno, 1979; E domani?, 1981), dallo Zelig degli anni Ottanta con Aldo Baglio e Giovanni Storti (ancora in attesa di Giacomo) ai progetti con Flavio Premoli, Lella Costa, Rocco Tanica, Flavio Oreglio, Andrea Mirò e molti altri; scrive anche canzoni per Anna Oxa, Fiordaliso e Mia Martini; porta in scena il repertorio di Dario Fo e inediti di Boris Vian, traduce in italiano le canzoni di Vian, Léo Ferré e Serge Gainsbourg…
Infaticabile e incontentabile si dà anche alla scrittura e pubblica, per citare solo alcuni titoli, il Dizionario dei Cantautori (Garzanti 2003-2005, firmato con Veronica Di Pietro), il Dizionario dei Comici e del Cabaret (Garzanti 2008), Boris Vian – Le canzoni (Marcos y Marcos), Maledetti Francesi (NdA Press 2010).



http://www.giangilbertomonti.it
LinguaItaliano
Data di uscita29 lug 2016
ISBN9788899815080
Romanzo musicale di fine millennio

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    Anteprima del libro

    Romanzo musicale di fine millennio - Giangilberto Monti

    978-88-99815-08-0 digitale

    giangilberto monti

    Romanzo musicale

    di fine millennio

    A Rita e Ambrogio,

    sotto l’ombra di un bel fior

    1. Il pane & Le rose 1970-76

    – Io sono un poeta. E tu?

    – E che ne so?

    – Ho già capito. Tu non sei un poeta, sei un clown.

    Lo guardavo stranito. È vero che sembrava un poeta: aveva riccioli dappertutto, fumava sigarette senza filtro e beveva alcolici colorati. Io però non sembravo un clown. Intanto avevo molti meno riccioli… e tra capelli lunghi, occhioni azzurri e sciarpa bianca che spenzolava sul fisico magrino, sembravo uno sbandatello periferico a caccia di fumo, o di prede giovanili. Ma un clown proprio no. I clown stanno al circo e hanno il naso rosso. Invece il poeta guardava tutte le femmine che gli giravano intorno e a furia di bere, il naso rosso sarebbe venuto solo a lui… questo era sicuro. E il fatto che suonasse la chitarra e avesse un monolocale in via Fiori Chiari, dove ci appendeva le sue tele, quadrava il cerchio.

    Mangiavo noccioline al Jamaica, al 32 di via Brera, mentre il poeta svuotava prosecco, guardava i quadri alle pareti e sognava di diventare Emilio Tadini o Luciano Bianciardi, l’anima vera di quella Milano in bianco e nero, ma che al Jamaica non ci passava da un pezzo. Era il 1970, era inverno. E faceva freddo.

    – Ti dico che è ancora vivo, sta a Rapallo.

    – Beato lui… e com’è?

    – È un genio, come me.

    – Ma tu non hai mai pubblicato niente!

    – Lo farò, lo farò… insomma, suoni la chitarra o cosa?

    Tra poco è Natale e la mia sciarpa bianca non c’entrava con i vestiti, ma con la neve che sbatteva sui vetri, sì.

    – Io suono il basso, quello elettrico. Io senza i tasti sul manico non sono capace, e poi quello elettrico pesa la metà di un contrabbasso, costa quattro volte di meno e s’impara prima.

    Il poeta scoppia in una risata isterica e mezzo Jamaica si volta verso di noi.

    – L’avevo detto che sei un clown.

    A quattordici anni me l’aveva regalato mio zio, con una custodia di plastica e un metodo: era una specie di centimetro di plastica, con una sbarretta rossa a forma di ghiera che scorreva in orizzontale. Questo è quello che raccontavo, ma non era vero niente. Lo zio mi aveva regalato una chitarra di quelle facili, piccola e con le corde di nailon, perché gli dicevo che da grande volevo fare il musicista, oltre al pilota, l’astronauta e l’inviato di guerra. Lui aveva deciso che da musicista ero più convincente.

    – Però ieri, su da me, hai suonato la chitarra.

    – La suono a orecchio, come il basso. E poi erano tre accordi.

    Il basso me l’ero comprato da solo, l’anno dopo, con i risparmi di anni d’adolescente. Quel centimetro di plastica, il metodo, assomigliava al manico del basso. Se cercavi un accordo, la ghiera ti indicava le corde da schiacciare, c’erano i maggiori, i minori, e per il resto ti dovevi arrangiare. Insomma, le settime, le quinte e tutta la compagnia cantante te la dovevi studiare davvero. Io non ci capivo niente e così andavo a orecchio. Ho sempre avuto un buon orecchio ma in quanto al ritmo, andava e veniva. Però mi aiutavo con il piede, battevo il tempo e guardavo gli altri: il batterista, il chitarrista… insomma, chi c’era. Perché dopo il basso è arrivata la band.

    – Oggi non serve avere un gruppo.

    – E tu cosa ne sai?

    – Oggi vanno i cantautori. Da sempre vanno i cantautori.

    – Se lo dici tu…

    Suonavamo in un circolo parrocchiale, anzi, sotto il circolo parrocchiale. C’era una specie di magazzino e dentro il magazzino gli strumenti dei Giganti, o quello che ne era rimasto. L’anno prima cantavano a Sanremo Mettete dei fiori nei vostri cannoni, ma poi si erano sciolti. Io nel ’68 non sognavo la rivoluzione, sognavo di doppiare il vocione di Enrico Maria Papes ma ero stonato, o almeno così diceva il cantante della band. E poi Papes era un basso e io no. Non ero nemmeno baritono o tenore, non ero e basta. Prima di tutto perché il cantante ci teneva a cantare da solo e gli altri, al massimo, gli facevano i coretti con le vocine da castrato. Che a me non veniva, quindi suonavo il basso. Il poeta non ci credeva…

    – Quello che importa sono le parole, è la poesia che conta. La musica è un di più. Guarda Guccini… o Gaber.

    – A me, di Gaber, non sembra proprio…

    – Io scrivo poesie, poesie in musica.

    – Però se ci metti la musica diventano canzoni. O no?

    Con il poeta non c’era verso, si arrabbiava a prescindere. Aveva letto dieci volte i libri che avevo letto io, sapeva tutto su Ginsberg, Gregory Corso e Ferlinghetti, conosceva a memoria i testi di Dylan ed era convinto che il mondo gli fosse contro.

    – Infatti un giorno le registrerò, e tu le suonerai con me.

    – Cosa c’entro io? Io non scrivo canzoni.

    – E le canterai anche…

    Quando ho visto Gaber la prima volta, ero all’oratorio. Periferia profonda di una Milano cattolica e molto incurante dell’eroina sulle panchine intorno. Una gara di complessi, io lì come un pagliaccio qualunque ai bordi del circo, e sulla pista lui, il Giorgio nazionale. Anche perché nel ’68 la band ci teneva a far carriera e in gara c’era il meglio del Corvetto. Io stavo nella parte buona del quartiere, gli altri abitavano di fronte alle panchine. Il cantante aveva una bella voce rock, forse perché fumava Gitanes, così diceva, ma per me era bronchite cronica; il chitarrista era pelato di natura e vestiva da portinaio, perché lo era; invece il batterista era elegante di suo, aveva due baffi da Buscaglione e sembrava proprio un gangster di Chicago: non avremmo vinto nessuna gara, però c’eravamo.

    E dopo di noi avrebbe cantato Gaber… E la chiesa si rinnova, per la nuova società…

    – Io le seconde voci non le so fare.

    – Ma se facevi il corista all’oratorio.

    – Non l’ho mai fatto. Avevo un quartetto vocale e c’incontravamo lì.

    – E cosa cantavi, scusa?

    – Qualunque cosa.

    – Anche gli spiritual?

    – Per forza, altrimenti non ci davano la sala per provare, però non ho mai fatto le seconde voci.

    – E allora che facevi?

    – Doppiavo il solista. Io non so leggere la musica, copiavo e basta.

    – Allora doppierai me, perché qui il solista sono io.

    La band era rimasta dietro le quinte, perché aspettava la proclamazione del vincitore e il cantante diceva che sarebbe andato a stringere la mano al Giorgio davanti a tutti, perché ormai erano colleghi. Io no. Dai camerini mi ero infilato in galleria, anche perché i musicisti di Gaber suonavano davvero e io volevo vedere come si faceva. Dopo di lui, l’organizzatore chiamò la band vincitrice, che non era la mia; il cantante ci rimase male, il chitarrista urlò che era tutto uno schifo e io recuperai il basso, mentre i vincitori si godevano gli applausi.

    – Stasera andiamo alla festa di «Re Nudo».

    – E perché?

    – Ci sono Donatella Bardi e Camerini.

    – E chi sarebbero?

    – Due cantautori, lei poi è bellissima.

    La band non si sciolse subito. È stato quando il batterista è finito dentro, o almeno così disse il cantante, perché un bel giorno quel che rimaneva dei Giganti s’era accorto che dalla sala prove mancavano degli strumenti. Anche dalle macchine in zona mancavano delle autoradio e il rock senza il batterista non si può fare. Un bassista senza band, o smette, o trova un’altra band. Io ho rimesso le corde alla chitarra dello zio…

    – E chi paga qui?

    – Visto che faremo un disco insieme, oggi tocca a te.

    – Guarda che hai bevuto solo tu… io mangiavo noccioline.

    – Lo vedi? Io sono il poeta e tu il clown.

    «Re Nudo» era nato un mese prima, in novembre, per colpa o per merito di Andrea Valcarenghi, un tipo magro e ipercapelluto che faceva l’obiettore di coscienza quando io non pensavo ancora al servizio militare. Che io sappia, è sempre stato un bravo organizzatore, soprattutto di se stesso, e infatti quella sera c’era un sacco di gente… stavamo rannicchiati sul fondo perché il poeta non era riuscito a sedersi sulla pedana dove la Bardi stava iniziando a cantare, così aveva mandato affanculo tutti quanti. Comunque aveva ragione il poeta, era veramente bella; il posto della festa un po’ meno, non c’erano i topi solo perché faceva troppo freddo, però io ci sarei rimasto tutta la notte.

    – Questo posto fa schifo, E la musica pure… a parte la Bardi.

    – A me Camerini non dispiace, aspettiamo almeno tocchi a lui.

    – Quello è un brasiliano trapiantato, un figlio di papà. Esattamente come te.

    Il poeta ce l’aveva con me perché sapeva che alla fine del liceo me ne sarei tornato in Inghilterra, dov’ero già stato a strafogarmi di birre senza impararare né la loro musica, né la loro lingua, almeno così pensava lui. In realtà mi strafogavo di gelati e l’unica sera che mi trascinarono in un pub, avevo vomitato tutta la Guinness sotto il tavolo.

    – E comunque noi canteremo in italiano. Smettiamola di scimmiottare quei quattro fighetti dei Beatles.

    – Prima di farlo, bisognerebbe almeno saperli suonare…

    L’Inghilterra è una bellissima cartolina per turisti, anche più della Bardi, però il poeta aveva ragione in quanto alla loro musica, non mi entrava. Ascoltavo cantautori già da piccolo, colpa della collezione di 45 giri del mio unico cugino, che comprava qualunque disco parlasse italiano. Io prima selezionavo i titoli di Tenco e Lauzi, poi quel che c’era di Gaber o Jannacci, e alla fine imparavo a memoria i brani del beat nostrano: dall’Equipe 84 ai Rokes… solo che con i miei tre accordi era dura, così la scelta cadeva su De André. La chitarra dello zio serviva a quello, anche perché La guerra di Piero, solo con il basso, rende poco.

    – Insomma, quando riparti?

    – Dopo la maturità.

    – E i soldi?

    – Be’, m’arrangio… i figli di papà lo fanno da sempre.

    – Sono io che m’arrangio e la tua Carnaby Street non l’ho mai vista, però quando torni ascolterai le mie canzoni. Perché io le scriverò e noi le canteremo in giro.

    – In giro dove? Hai appena mandato affanculo mezza redazione di «Re Nudo».

    – Quelli sono dei pezzenti, noi andiamo in classifica.

    Quell’estate del ’71 serviva a quello, a imparare l’inglese. Così dicevo ai miei, ma loro non ci hanno mai creduto e io nemmeno. Però ho imparato un sacco di cose: a mangiare con poco, a dormire nelle cabine telefoniche e a rubare dai grandi magazzini. Di solito preferivo i maglioncini di cachemire, anche perché allora si fidavano, io avevo la faccia da bravo ragazzo e a Londra faceva sempre un po’ freddo. La musica l’ascoltavo dove capitava, ma più che altro cercavo di fidanzarmi con qualche signorina locale. Invece ho trovato una francese, che aveva una bella macchina bianca e una gran voglia di visitare la Cornovaglia: il passaggio migliore di quell’estate. Per farmi bello le cantavo De André, ma lei puntualmente sbottava: «Mais ça c’est pas Dandré, c’est Brassens». Mi cadeva un mito ma almeno imparavo la sua lingua, chiamavo la colazione petit déjeuner e per il resto faceva lei, visto che l’inglese lo parlava di mestiere, alla reception di un grand hotel parigino. Al ritorno mi aspettavano l’Università e il poeta.

    – Io mi sono iscritto a Medicina. E tu?

    – Ingegneria.

    – Cosa c’entri tu con l’Ingegneria?

    – Senti chi parla. Uno come te dovrebbe studiare Filosofia, invece d’imparare a tagliare pance.

    – Vedi che ti sono poeta? Io curerò i cuori delle persone, dentro e fuori, tu invece finirai a progettare ponti e a sfruttare gli operai.

    – Che ne sai tu degli operai?

    – Molto più di te.

    Il mio impatto con la politica me lo ricordo bene perché fu una delle pochissime volte che mio padre m’invitò a pranzo, in questo caso per parlare del futuro. Lui decise che il posto migliore fosse in via Festa del Perdono, un po’ perché lavorava in centro e un po’ perché lì di fronte c’era un’università vera. Era l’autunno del ’68, stavo ancora al liceo, mi piaceva la storia e lui s’era convinto che avrei voluto fare la Statale. La politica entrò nella mia vita più o meno tra il primo e il secondo, quando la polizia decise di disperdere un assembramento di studenti dell’Università vera. Il padrone del ristorante iniziò a chiudere la serranda ma uno studente riuscì lo stesso a entrare; era in completo scuro, occhialoni da vista e capelli corti, assomigliava a Jannacci ma non era lui. Quando si girò verso di noi, mio padre rimase impassibile.

    Quelli fuori urlavano e si picchiavano, quelli dentro volevano scappar via, una signora disse allo studente di andarsene ma lui era terrorizzato e non si mosse. Il secondo intanto non arrivava, mio padre si alzò, pagò il conto e un minuto dopo uscì in strada, insieme a me e allo studente. Di fronte all’Università non c’era più nessuno: in fondo sulla sinistra si vedevano dei celerini, in fondo sulla destra un pugno di ragazzi con gli stessi completi scuri dello studente. Sembrava un raduno di bancari… e noi, lì in mezzo, come tre pirla. Lo studente non si muoveva, mio padre invece svoltò in Largo Richini e in un attimo eravamo in via Larga, dove il traffico di Milano scorreva incosciente. Per parlare del futuro, non era giornata.

    – Domani sera passa in Fiori Chiari, ti faccio sentire le mie nuove canzoni.

    – Perché? Ci sono anche quelle vecchie?

    – Intendevo, quelle che ho scritto adesso. Non sai che i poeti sono prolifici?

    – Andiamo bene.

    – E ricordati la chitarra.

    Il poeta conosceva qualche accordo in più dei miei, anche se il risultato era depressogeno, testi compresi. Io intanto frequentavo le lezioni e i cortei, il poeta nessuno dei due. Ai cortei si cantavano le ballate di protesta di Alfredo Bandelli, un operaio pisano, schivo e defilato, che infiammava gli studenti barricaderi e un po’ meno il poeta, che s’imbizzarriva.

    – Che palle con questi slogan.

    – Ma non sono canzonette, sono inni… anche se un po’ pesantucci…

    – Sono retorici, non c’è ironia.

    – Be’, Pietrangeli scrive cose diverse. A me, Contessa piace.

    – Agli operai piace anche divertirsi, non sfracellarsi le palle con Giovanna Marini e I morti di Reggio Emilia.

    – Quella è di Fausto Amodei, la Marini ha scritto I treni per Reggio Calabria.

    – Sai che allegria…

    – Ma che c’entra? Sono canti di lotta… non è che Guccini sia un allegrone.

    – Al confronto, Guccini è un comico.

    – E Lolli?

    Claudio Lolli esordisce nel ’72 con Aspettando Godot, un album di culto per il poeta, che tra l’altro gli assomigliava parecchio, non solo perché si ispirava anche lui ai maestri della beat generation, ma anche nei connotati. Certe volte, in Fiori Chiari, mi sembrava di suonare con Lolli, voce a parte ovviamente. Di politica si parlava poco, anche perché eravamo vicini alla prima esibizione: una festa casalinga da una coppia di sorelle, né belle, né brutte, che da tempo adoravano il poeta. Lui, al contrario, preferiva esemplari molto più provocanti, che di solito lo venivano a trovare nel pied-à-terre dopo le nostre schitarrate, anche perché, dove abitava con i genitori, gli era impossibile praticare qualunque forma di sesso sfrenato. Il suo obiettivo quotidiano, a parte le canzoni.

    – Il pane e le rose, questo vogliamo.

    – Cioè?

    – È una frase di Marx, ignorante. Il vero comunismo è pane e rose, il necessario e il superfluo… e tu dovresti conoscerla, visto che non ti perdi un corteo.

    – Ma non c’è una canzone di Pete Seeger con quel titolo?

    – Certo. Solo che non l’ha scritta lui, anche se la canta benissimo. E ora, se non ti spiace, le prove sono finite e io aspetto le rose.

    Il poeta era una specie di coniglio infoiato e della sua idea di comunismo ricordo solo questo, invece del «Pane & Le Rose» ricordo molto di più. Nacque nel ’73 come supplemento a una rivista che si chiamava «Quaderni Piacentini» ed era animato da studenti giocosi e curiosi, di cui molti simpatizzavano per Lotta Continua, il gruppo più utopico e contradditorio di tutto l’antagonismo sognante dell’epoca. Io occasionalmente studiavo, ma facevo parte di quel club, o almeno così credevo, anche se frequentavo un po’ di anarchici sparsi, come Paolo Braschi, un artigiano che aveva un piccolo laboratorio di lampade Tiffany dalle parti di viale Monza e si era appena fatto due anni di galera per un errore giudiziario.

    Mi raccontava con il suo accento toscano che i vetri migliori si comprano in Belgio, si assemblano con cura mischiando forme e colori, se ne molano i bordi e poi si saldano con il filo di rame. Lui preferiva le lampade da tavolo ai lampadari, più ingombranti per quelle poche stanze recuperate in una casa di ringhiera tipica dei paesini che un tempo cinturavano Milano. E che ora davano il nome alle fermate del metrò che la univano all’operosa Sesto San Giovanni. Stavo in piedi e lontano dalla finestra per non ostruirgli la luce e mai una volta mi parlò di quei due anni. Né io glielo chiesi mai. La sua idea di anarchia era l’accostamento armonico dei colori, l’attenzione cortese ai particolari, la trasparenza dei vetri. E un bellssimo sorriso. Così, quando mi sono trovato un giorno nella redazione del «Pane & Le Rose», mi sembrava la cosa più naturale.

    Mi ci aveva mandato Paolo Hutter, un torinese simpatico che avevo conosciuto a Milano e rivisto a Creta, durante una vacanza in cui abbiamo condiviso un bar in attesa del traghetto. Nel ’73 Hutter era andato più lontano. Scriveva per il giornale di Lotta Continua e voleva raccontare il nuovo Cile di Salvador Allende, però sbagliò periodo: i militari di Pinochet l’avevano rinchiuso nello stadio di Santiago il 15 settembre, a quattro giorni dal golpe. Gli è andata bene, perché lui almeno è tornato a casa. Me lo sono trovato davanti a Città Studi, poco dopo il suo rientro a Milano, con un solo desiderio: lavarsi i capelli… anche perché aveva una bella testa riccia che gli scendeva sugli occhialoni da miope. In quell’inverno scrissi le prime canzoni, ma la capigliatura di Hutter non era tra i temi trattati.

    – E così conosci Paolo… e da quando?

    La scrittrice mi guardava con sorrisino sospettoso, voleva capire di che razza fossi e per dirla tutta era proprio antipatica, ma doveva essere abituata a farsi ascoltare e la sua domanda interruppe la riunione di redazione. Io ero l’ultimo arrivato e fino a quel punto mi ero divertito come un matto. Rispetto alle riunioni politiche di facoltà, quella fanzine era il paradiso. Conduceva il tutto Carlo Oliva, insegnante, filologo e comico nato: ciccioso, barbuto, sudato, occhialuto e ironico oltre ogni limite. Per prima cosa leggeva ad alta voce tutto ciò che arrivava in redazione, rimarcando qualunque errore grammaticale e sintattico, fino a generare risate incontenibili. E poi commentava i fatti del giorno con battute feroci, degne di uno stand-up comedian. C’erano anche molti altri e ogni tanto arrivava anche Hutter, ma l’unica che tenesse testa a Oliva era la scrittrice, che ufficialmente ancora non lo era…

    – E a parte conoscere Paolo, cosa sai fare?

    – Studio ingegneria.

    – Qui tutti studiano, e poi?

    – Suono la chitarra.

    Iniziò a diventarlo nel giugno ’75, quando uscì la storia di Rocco e Antonia, un lungo dialogo a distanza in forma di diario sexopolitico, inventato con Marco Lombardo Radice. L’anno dopo, con il nome di Porci con le ali, diventerà il primo titolo della collana omonima creata dall’editore romano Giulio Savelli: un geniale frappè di critica musicale, indagini sociologiche e controletteratura che non solo chiamò a raccolta la meglio gioventù del tempo, ma aiutò molti di noi a vivere con più sorrisi sulle labbra. Intanto la scrittrice avrebbe forse voluto chiedermi altro, ma il conduttore Oliva disse che andava benissimo e che mi sarei occupato di recensire l’ultimo album di Francesco Guccini: il poeta ne sarebbe stato contento, io un po’ meno.

    – Perché? Non ti piace Guccini?

    – Speravo di scrivere qualcosa sui festival di «Re Nudo».

    – Ma che te ne frega? Tu devi scrivere canzoni, non parlarne.

    – Io intendevo, andare dietro il palco, parlare con i musicisti, vedere com’è.

    – Ma vedere cosa? Tu sul palco ci devi salire. E non appena avrò fatto un disco, ci saliremo insieme.

    Col poeta non c’era discussione, ma io volevo veramente guardare. Guardare e basta: i tecnici che armeggiavano con i cavi e i microfoni, i musicisti che accordavano di fretta gli strumenti, i cantanti che si davano da fare per scacciare la tensione e poi bevevano, ridevano sguaiatamente oppure si raggomitolavano su loro stessi per assumere qualunque additivo gli facesse passare il trac del palco, le mani sudate e il respiro che ti secca la gola. Per me era la continuazione di Pinocchio o Biancaneve, anche se nella favola non avevo alcuna voglia di entrare. L’unica volta che ci avevo provato fu quando chiesi un autografo a Silvio Noto. Lui era un conduttore televisivo in bianco e nero, di quelli da prima serata, io solo un ragazzino che non voleva andare a dormire, in un albergo di fronte al mare.

    – Cerchiamo almeno di capire se le canzoni che fai piacciono.

    – Piacciono a tutti, cosa dici?

    – Intendevo, ai discografici.

    – Devono piacere a noi e a chi ci ascolta, chi se ne frega dei discografici.

    – Ho capito ma Guccini, Lolli e via dicendo, vendono dischi, non incazzature. Qualcuno li avrà pure fatti stampare, o no?

    – Tu non sarai mai un poeta.

    Io, le poesie, le accompagnavo da sempre con la chitarra dello zio, solo che non erano mie. Avevo cominciato traducendo The Rime

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