Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Socrate e Europa
Socrate e Europa
Socrate e Europa
E-book241 pagine3 ore

Socrate e Europa

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

...gli avvenimenti succedutisi in una manciata d'anni faranno in modo che Socrate, e la sua generazione, cresceranno in un mondo diverso da quello conosciuto dai loro padri e che per secoli era sembrato quasi immutabile.

Sarà Socrate stesso a raccontarcelo, o meglio, a raccontarlo a una ragazza curiosa insieme a molte altre storie…

...quando le uniche ricchezze del pianeta saranno il sole, l'acqua e l'intelletto forse l'uomo avrà la possibilità di vivere in pace…

...manca la pazienza del contadino che semina sapendo che a volte passeranno molte stagioni prima di poter raccogliere i frutti maturi, manca la saggezza di chi riesce a credere in un'idea che a tutti sembra folle, ad immaginare un futuro sereno anche quando all'orizzonte si vede arrivare la tempesta…

...conoscere il passato, la storia, significa sapere chi siamo, e se non lo sappiamo non siamo in grado di andare da nessuna parte; ma altrettanto importante è avere uno scopo, un sogno, una visione del futuro; se manca questo si muore, sia che siamo individui, nazioni, o l'umanità intera...
LinguaItaliano
Data di uscita28 apr 2023
ISBN9791221468410
Socrate e Europa

Correlato a Socrate e Europa

Ebook correlati

Filosofia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Socrate e Europa

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Socrate e Europa - Anonimo Insubrico

    Occhi

    Che gli occhi siano lo specchio dell’anima non è solo un modo di dire, sono il tramite tra la parte più intima di noi e il mondo esterno, non una semplice telecamera ma il punto dove il cervello tocca l’aria e la luce.

    Attraverso uno sguardo si può vedere chi siamo, i sentimenti che proviamo in un determinato istante, la nostra indole, buona o cattiva. Non è però un dono concesso a tutti.

    Socrate, due occhi blu e vispi, quel dono lo aveva avuto fin da piccolo.

    Nella sua lunga esistenza era sempre riuscito a capire le intenzioni di chi gli stava davanti: uomini o bestie, difficilmente si lasciava sorprendere.

    Che si trattasse di un marüsée`¹ disonesto o di una mula che alla prima occasione avrebbe scalciato, e i muli sanno aspettare a lungo per consumare le loro vendette o soltanto per togliersi qualche capriccio nei confronti di chi non gli sta simpatico, era sempre riuscito a percepire in anticipo l’inganno osservando la luce emanata dai loro occhi.

    E una luce vivida brillava ancora nei suoi nonostante avesse da qualche tempo passato i cento.

    Un suo nipote, più giovane di una quarantina d’anni e noto perdigiorno, aveva provato a frugare nel suo sguardo con la speranza di averne a breve un possibile vantaggio materiale: intelligente sì ma dotato di poca costanza e di ancor meno voglia di lavorare, tra gli innumerevoli interessi coltivati nel tempo, con l’intento di trovare il modo di campare senza dover fare troppa fatica, poteva vantare un corso di iridologia.

    Prima che anche la sua carriera di osservatore di occhi annegasse, così come le altre, nei bianchini dell’osteria del paese, malauguratamente posizionata proprio di fronte a casa sua giusto dall’altra parte della piccola piazza, aveva convinto lo zio a lasciarsi visitare fantasticando di leggergli nell’iride, finalmente, l’imminente cedimento e approfittare così di un’eventuale lauta eredità…

    Ma chi lo ammazza questo?!

    Aveva borbottato sconsolato dopo un paio di minuti di scrupolosa indagine diagnostica di quello sguardo trasparente, affamato di vita come quello dei ragazzini non più bambini e non ancora uomini. Per sua fortuna a Socrate era piaciuto il responso della pizia improvvisata, tanto che gli aveva offerto in cambio un bel calice di vino bianco fresco, evaporato in pochi secondi, attraverso la gola, nel sistema circolatorio del giovane parente alleviandone così la delusione.

    Il Blanquito² era il suo soprannome, affibbiatogli per meriti sportivi: non però per il colorito smorto, come accadeva al decisamente più celebre centrocampista argentino dai piedi buoni appena ingaggiato dalla squadra calcistica del capoluogo, bensì per la predisposizione a ingurgitare prosecchi e simili in gran quantità.

    In paese, la tradizione di attribuire a ciascuno il suo nome d’arte era dovuta alle combinazioni onomastiche basate su tre o quattro cognomi ricorrenti abbinati ai personaggi della sacra famiglia³ e ai santi principali, incluso il patrono: onde poter distinguere fra loro, su una popolazione di nemmeno trecento individui, la mezza dozzina di omonimi viventi, ogni persona era identificata in zona tramite i soprannomi che gli venivano attribuiti in vari ambiti e periodi della vita.

    Di solito si era conosciuti, più che con i propri dati anagrafici, tramite il nomignolo del clan famigliare di appartenenza abbinato a quello usato per chiamarci dai genitori, dai fratelli o dai compagni di giochi quando si era piccoli; oppure con un appellativo dovuto ad attitudini vere o presunte, legato a fatti realmente accaduti o inventati, a una parola pronunciata spesso, o magari spuntato così dal nulla e senza particolari motivi.

    Alcuni, pochi a dire il vero, avevano l’onore di essere conosciuti semplicemente col proprio nome.

    Era il caso di Socrate.

    ___________________

    ¹ Intermediario nella compravendita di capi di bestiame, in genere lui stesso allevatore. I marüsée avevano fama di essere scaltri affaristi e buoni bevitori: reggere bene il vino e portare gli acquirenti a essere brilli era fondamentale per concludere le trattative a proprio vantaggio

    ² In italiano il bianchino, classico bicchiere di vino bianco

    ³ Tranne Gesù, a differenza di quanto avviene nelle culture ispaniche, sostituito dal cugino Giovanni il Battista

    Socrate

    Socrate in quel paesino stretto tra i laghi e le montagne ci era nato per caso.

    Suo padre era un forestiero capitato ai piedi delle Alpi dalla lontana Ragusa, no, non dalla bella città siciliana bensì dall’altrettanto bella cittadina considerata la perla del mare Adriatico, oggi più conosciuta come Dubrovnik, in fuga dalla furia delle guerre balcaniche di inizio novecento.

    Il lento disgregarsi dell’impero ottomano aveva coinciso con la definitiva affermazione dei sentimenti nazionali là dove erano stati soffocati per cinque secoli e, proprio come succede con la brace che cova sotto la cenere anche per giorni dopo che la fiamma si è spenta, il vento della ritrovata libertà li aveva ravvivati provocando un incendio di proporzioni immani.

    Dopo duemila anni trascorsi sotto il dominio o l’influenza di imperi multietnici, con conseguente mescolarsi di persone e culture, improvvisamente i vari popoli della penisola aspiravano a vivere in nazioni etnicamente omogenee e che comprendessero tutti i loro connazionali; di conseguenza in poche settimane tutti gli stati appena formatisi si erano ritrovati in guerra tra loro.

    Il padre di Socrate era il tipico prodotto di quella città di mare aperta e indipendente, nato in una famiglia che vantava origini veneziane, di lingua italiana e cognome croato, da madre serbo-montenegrina originaria della vicina Cattaro; focoso di carattere ma generoso, non era riuscito ad adeguarsi alle nuove ideologie tanto di moda.

    Non si era mai rassegnato a vedere la sua comunità, un tempo così unita, divisa da pochi individui che furbescamente cavalcavano l’onda delle piccole patrie mettendo le une contro le altre persone che fino a poco prima avevano convissuto in armonia.

    Una sera, persa la pazienza e la speranza, era salito su una gaietizza a due vele; raggiunta Cattaro il mattino seguente aveva nell’ordine: atteso la sera, caricato un revolver con sette colpi e rintracciato separatamente i capetti nazionalisti serbo, italiano e croato che in quei giorni fomentavano gli animi; li aveva infine fatti secchi, ognuno con una precisa pallottola in fronte e, risalito in barca, era tornato a Ragusa.

    Giusto il tempo di gettare a bordo un bagaglio leggero, fare un giretto in città per salutare gli amici, usare ai i tre ras locali la stessa premura riservata ai loro omologhi cattaresi e riprendere il mare. Alla mezzanotte di una notte chiara di giugno era già al largo dopo essersi lasciato alle spalle una vita, sei cadaveri e i Balcani in fiamme, deciso ad andare dove lo avrebbe portato il vento.

    Il settimo proiettile, quello che gli sarebbe servito da estrema via d’uscita in caso le cose si fossero messe male, era finito con la pistola ancora calda a raffreddarsi sul fondo dell’Adriatico.

    Non poteva saperlo ma le sue gesta degli ultimi giorni, aiutate dalla presenza nelle due città, amiche e rivali da sempre, di efficaci contingenti armati austroungarici, avrebbero contribuito a limitare a tafferuglio ciò che altrove, come da secolare tradizione slava, sarebbe divenuto carneficina: i gruppi nazionalisti più facinorosi, rimasti senza guida e spiazzati dagli eventi, si erano accusati l’un l’altro per gli omicidi subiti ma, timorosi di fare la fine di chi ne aveva finora tirato le fila, si erano limitati alle minacce reciproche. I venti di inizio estate soffiavano costanti da sud.

    Risalita la costa dalmata fino a Spalato l’abile marinaio aveva intrapreso la traversata verso Ancona dove, approdato fortunosamente nei pressi della città in seguito a un temporale, si era recato alla gendarmeria.

    Presentatosi come pescatore delle terre triestine, naufrago e in fuga dalle angherie della polizia austriaca, aveva ottenuto un passaporto italiano e la possibilità di arruolarsi, in virtù delle sue capacità marinare e della buona mira, nella nascente Brigata Marina come fuciliere.

    Dopo un breve addestramento era stato inviato con la sua squadra sui laghi lombardi, dove si stava segretamente ultimando la linea difensiva`¹ che avrebbe dovuto difendere la pianura padana da un eventuale attacco nemico da oltralpe in caso di guerra che, ormai, non era più considerata eventuale ma data per sicura: tutti erano consapevoli che da un momento all’altro sarebbe scoccata la scintilla che avrebbe esteso all’intero continente l’incendio sudorientale.

    E proprio sul lago si era invaghito della madre di Socrate.

    Donna colta, bella di quella bellezza vagamente orientale che possiedono le toscane, il nostro marinaio si era innamorato all’istante di quel frutto decisamente terricolo.

    Veniva dalla provincia pisana, da un piccolo borgo sulla strada che da Palaia porta a Santa Croce sull’Arno; in qualità di giovane maestra aveva accettato come primo incarico la cattedra della scuola elementare di uno sperduto gruppuscolo di case abbarbicato sul fianco della montagna, a milleduecento metri di quota.

    Solo una frazione di poche decine di abitanti, distante quasi un’ora di buon cammino dal paese capoluogo lungo una strada impervia e almeno tre o quattro dai borghi principali sulle sponde dei laghi. Capitava sovente, durante i rigidi inverni, che il paesino restasse isolato per giorni a causa della neve e del conseguente pericolo di valanghe e frane lungo l’unica strada d’accesso.

    Provvidenziale allora si rivelava l’aiuto degli effettivi della vicina caserma della Guardia di Finanza, posizionata proprio sotto il crinale dove passava il confine, piazzata a guardia del fiorente commercio di contrabbando con la Svizzera.

    Abili nella pratica dello sci e ben riforniti di viveri, oltre che di munizioni, i finanzieri provenivano di solito dagli Appennini del Sud Italia, conoscevano le difficoltà e i pericoli della vita di montagna e non esitavano a intervenire, se necessario, in soccorso dei locali in una sorta di tregua bianca.

    Già, perché capitava loro di aiutare le famiglie di quegli uomini che fino a poche ore prima delle grandi nevicate, quando il mondo era ancora praticabile, li facevano dannare: portavano sacchi di riso, provenienti dalla pianura, di là attraverso varchi aperti nella ramina² e rientravano carichi di sigarette che sarebbero finite in tutto il Nord.

    D’altronde le dure condizioni di vita li accomunavano, gli uni lontani da casa in un ambiente ostile, gli altri a casa ma aggrappati a una terra severa, che non regalava niente e non perdonava errori. Spesso si ritrovavano tutti insieme, uniti nella ricerca di un milite disperso nella nebbia, nel soccorso a uno sfrusadùu³ scivolato in un crepaccio o nel recupero di chi, guardia, ladro o civile, era rimasto ucciso dal fulmine o dalla slavina.

    Poco importava se si erano appena presi a schioppettate, in aria se si trattava di una semplice pattuglia, ad altezza d’uomo quando fosse stato presente un superiore giunto da fuori: bontà d’animo, o peggio debolezza, non erano ammesse in servizio.

    Lo Stato Italiano, ancora giovane e incompleto, non poteva tollerare che venisse frodato il fisco ma nemmeno, per fortuna, che i suoi giovani cittadini restassero senza istruzione primaria.

    Il padre di Socrate, mandato lassù a capo della sua squadra insieme a un gruppo di Alpini per verificare le condizioni delle postazioni di artiglieria lungo il confine, era rimasto fulminato non dalla folgore ma dalla bella maestrina dalla ci aspirata.

    La domenica dopo messa, indossati ognuno abiti borghesi, il lupo di mare la accompagnava in giro per i monti: a lei non dispiaceva imparare i percorsi segreti di uomini e animali, lui ne approfittava per conoscere meglio quella lingua che era la sua ma di cui parlava una variante dal forte accento a metà tra il veneziano e lo slavo.

    Nove mesi dopo quelle passeggiate, mentre la scintilla di Sarajevo accende la miccia che farà esplodere l’Europa, Socrate viene al mondo; nemmeno un anno dopo l’Italia entra in guerra, la madre viene trasferita presso la scuola di un villaggio a mezza montagna, il padre al fronte.

    Uomo d’azione e vigoroso era entrato a far parte delle neonate squadre di arditi dove si era distinto per coraggio e aveva trovato il modo, durante le sporadiche licenze, di tornare in paese e dare a Socrate, prima che la guerra terminasse, due fratelli e una sorella. Vista la sua passione per la filosofia, nonostante non avesse studiato granché da ragazzo, e l’amore per la cultura greca tramandatogli dalla madre, aveva convinto la moglie a chiamare i nuovi nati Platone, Aristotele e Sofia.

    La piccola era nata però l’anno dopo la fine del conflitto e non aveva mai conosciuto il genitore.

    Quando i primi reduci erano tornati la gente aveva iniziato ad ammalarsi: uno, due, cinque, poi il contagio si era esteso in un soffio come una pestilenza d’altri tempi.

    Anche Socrate e i suoi fratelli si erano ammalati.

    Stavano così male che una sera avevano ricevuto l’estrema unzione, da un giovane vicario però, non dal parroco che stava anche lui partendo per l’altro mondo nonostante gli interminabili rosari dedicatigli a ogni vespro dalle sue fedeli più appassionate.

    La madre di Socrate, da poco in attesa della sorellina, era stata una delle poche persone a non cadere ammalata e si era prodigata nell’aiutare non solo i suoi figli ma chiunque avesse bisogno, in particolare i bambini e i ragazzi in età di scuola: per fortuna i bimbi, nonostante all’inizio manifestassero sintomi più gravi rispetto agli adulti, tendevano a guarire più facilmente.

    Così era avvenuto anche per i tre filosofi in fasce, guariti nel volgere di poche ore.

    Altrettanto velocemente il padre una mattina si era sentito addosso la febbre e la sera seguente era morto, nel mezzo di una vita avventurosa vissuta senza paura, sempre col pericolo a fianco.

    Era diventato celebre tra i combattenti, sia italiani che austriaci, per l’efficienza nel neutralizzare i feroci volontari bosgnacchi delle squadre d’assalto nemiche, cui faceva credere di essere dei loro, nella confusione degli attacchi corpo a corpo nelle trincee, poiché ne parlava la lingua.

    Nonostante abbondasse di forza e coraggio era bastato l’incontro fortuito con un esserino minuscolo per costringerlo alla resa definitiva.

    Gli avvenimenti succedutisi in una manciata d’anni faranno in modo che Socrate, e la sua generazione, cresceranno in un mondo diverso da quello conosciuto dai loro padri e che per secoli era sembrato quasi immutabile.

    Sarà Socrate stesso a raccontarcelo, o meglio, a raccontarlo a una ragazza curiosa insieme a molte altre storie.

    ___________________

    ¹ La Linea Cadorna, ancora oggi visibile

    ² Sul Lario e nel Comasco ‘ramada’, rete metallica utilizzata per recinzioni, sul Ceresio rete di confine per antonomasia

    ³ Contrabbandiere

    Joanna

    Nemmeno Joanna era originaria del paese.

    I suoi genitori erano di Milano e come ogni buon milanese che si rispetti, oltre a non essere milanesi, per il fine settimana erano abituati a lasciare la città e spostarsi o verso il mare o verso i laghi e le montagne.

    In uno dei tanti weekend trascorsi a spasso, da fidanzati, erano capitati in un grazioso paesino che godeva di un bel panorama sui laghi lombardi, non troppo lontano dalla metropoli ma abbastanza fuori mano da offrire un paio di giorni a settimana lontano dallo smog e dalla frenesia, e avevano preso in affitto una vecchia casa nel centro storico.

    Lui artigiano di origine siciliana, titolare di una piccola impresa di lavorazione del ferro, lei danese, impiegata del consolato scandinavo, da buoni milanesi lavorando sodo avevano messo da parte abbastanza da potersi permettere, subito dopo sposati, l’acquisto della casa di vacanza di modo che Joanna, oltre ai fine settimana, vi aveva trascorso fin da piccola buona parte dei periodi estivi e natalizi. Aveva preso dalla mamma i riccioli biondi e dal papà, appassionato di storia, la curiosità verso gli avvenimenti del passato vicino e lontano: da poco ventenne, era iscritta proprio alla facoltà di Storia dell’Università Statale.

    L’aver passato in paese i periodi più spensierati della sua ancora breve vita gli aveva fatto conoscere una realtà tanto diversa dalla routine cittadina, che a dire il vero le era sempre piaciuta, e i momenti più belli della sua infanzia li aveva trascorsi lì, tra acque e boschi.

    A fare da contorno alle sue avventure in libertà c’era un universo, composto da persone e abitudini, diametralmente opposto a quello vissuto durante i giorni lavorativi.

    In un mondo sempre in salita, o in discesa a seconda di come lo si guardava, tutto era più difficile a partire dalle cose semplici: andare in bicicletta, trovare un negozio, un cinema, una biblioteca, una palestra con piscina e solarium, spostarsi utilizzando il trasporto pubblico, a Milano era facile come bere il proverbiale bicchier d’acqua, lassù invece diventava una piccola avventura.

    In dotazione solo l’osteria con tabacchi e qualche genere alimentare, in memoria delle antiche botteghe, attrezzata comunque con tutta la tecnologia del caso come connessione wi-fi e abbonamento alla pay-tv per permettere a giovani e diversamente giovani di seguire calcio e formula 1.

    Ufficio postale, giornali e scuole soltanto nel vicino capoluogo. Anche gli indigeni erano assai diversi dai cittadini.

    Mentre a Milano a malapena si conoscevano i volti e i nomi dei vicini di pianerottolo e la gente tendeva a farsi gli affari propri, quassù ci si conosceva fin troppo; la maggior parte delle persone erano imparentate da vicino o da lontano, la privacy era difficile da mantenere anche all’interno della propria dimora e ciò che non si sapeva sul conto di qualcuno poteva essere tranquillamente inventato: dapprima ipotizzato, poi dato per probabile, in poco tempo diventava quasi certo per finire tramandato come verità incontrovertibile e certificata. D’altro canto la vita scorreva a ritmi ancora a misura d’uomo, lontano dalla frenesia di cui i milanesi sono sempre stati, e restano, maestri a livello globale.

    Un giorno caldissimo di metà luglio, uno di quei giorni tipici delle estati degli ultimi anni che ogni volta sembrano voler superare la precedente per temperature massime e durata della siccità, verso le tre del pomeriggio Socrate si era rifugiato tra le fresche mura dell’osteria dopo avere rivoltato un poco di fieno, tagliato nel prato sotto casa e steso a seccare nel piccolo cortile pavimentato con lastre di pietra, che gli sarebbe servito il prossimo inverno per sfamare un paio di conigli.

    Ormai da tempo aveva ridotto drasticamente i ranghi della sua fattoria: appena andato in pensione era tornato in paese e si era preso cura della sua vecchia casa e dei possedimenti di famiglia: qualche prato, un paio di boschi per la legna e un pascolo sulle pendici più alte della montagna; abbastanza per mantenere, con l’aiuto del suo asinello da fatica, una vacca, alcune pecore e capre, diversi tipi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1