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Malacarne
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E-book459 pagine7 ore

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Info su questo ebook

Tre quattordicenni che alla fine degli anni Sessanta sentono di stringere un’amicizia forte e vigorosa come un patto di sangue; le fiamme ideologiche dei Settanta che ardono nella loro vita fino a sfiorare la lotta clandestina; un mostro nero che versa la sua forza devastante nelle loro vite quando hanno ventun anni.
Amanda che entra nelle loro vite, bella, pulita, capace di scorgere l’integro che la loro giovane età cerca di possedere.
         Giulio, Manfredi e Lorenzo hanno diviso la loro vita nella loro amicizia: ora è la loro vita che rimane divisa dal calore e dalle sicurezze che quell’amicizia offriva. Un cosmo perfetto, ordinato, limpido, pulito che diventa caos, un intero che si rompe e si disperde, un peso di piombo che graverà sulle loro esistenze per oltre quattro decenni.
         Cos’è il mostro nero che ha diviso le vite di Giulio, Lorenzo e Manfredi? Perché Giulio sta tornando in Sicilia? Qual è l’intero che si è sbriciolato e che hanno perso? Si può riparare all’odio? Si può guardare in faccia il male assoluto? Si può perdonarlo? Riuscirà Giulio, alla fine della sua carriera di fotoreporter, ad uscire dal labirinto delle mutazioni di Caino e ricostruire un intero che si era rotto quarantré anni prima? Riuscirà una giornalista che somiglia a Uma Thurman a svelare qual è il nodo scorsoio legato al collo di Giulio? Capire perché l’uomo ama perdersi nei posti più pericolosi del mondo? E, soprattutto, farsi raccontare perché ha rinunciato alla celebrità quando avrebbe potuto fotografare Osama Bin Laden, l’uomo più ricercato dai servizi segreti di mezzo mondo?
E poi l’odio che scanna, stupra, uccide. O l’indifferenza che non vede, né sente, né parla. E Josefa rimasta quarantotto ore in balia delle onde prima di essere salvata, o Mariam costretta a prostituirsi nelle prigioni libiche, o i caminantes lungo la frontiera Messico-Stati Uniti, o Emma Gonzalez sopravvissuta ad una delle tante sparatorie nelle scuole dell’America di Trump.
         Pagina dopo pagina al lettore vengono svelati fatti, idee, personaggi che — come le tessere di un puzzle — consentiranno di ricostruire una vicenda iniziata nel 1969. La narrazione è ricca di flash-back, e si avvale pure di un piano narrativo asincrono, per cui una storia sembra fermarsi per consentire ad un’altra di apparire. E il lettore dovrà aspettare che i due pezzi combacino perfettamente.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2020
ISBN9791220235310
Malacarne

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    Anteprima del libro

    Malacarne - Lino Alerci

    Lino Alerci

    Malacarne

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    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

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    L'autore

    Lino Alerci è nato a Enna nel 1954. Vive in Lombardia. Ha scritto Mal’essere, un non-romanzo, e Il concetto di nazionale in Antonio Gramsci ai tempi del compromesso storico.

    Il libro

    Tre quattordicenni che alla fine degli anni Sessanta sentono di stringere un’amicizia forte e vigorosa come un patto di sangue; le fiamme ideologiche dei Settanta che ardono nella loro vita fino a sfiorare la lotta clandestina; un mostro nero che versa la sua forza devastante nelle loro vite quando hanno ventun anni.

    Amanda che entra nelle loro vite, bella, pulita, capace di scorgere l’integro che la loro giovane età cerca di possedere.

    Giulio, Manfredi e Lorenzo hanno diviso la loro vita nella loro amicizia: ora è la loro vita che rimane divisa dal calore e dalle sicurezze che quell’amicizia offriva. Un cosmo perfetto, ordinato, limpido, pulito che diventa caos, un intero che si rompe e si disperde, un peso di piombo che graverà sulle loro esistenze per oltre quattro decenni.

    Cos’è il mostro nero che ha diviso le vite di Giulio, Lorenzo e Manfredi? Perché Giulio sta tornando in Sicilia? Qual è l’intero che si è sbriciolato e che hanno perso? Si può riparare all’odio? Si può guardare in faccia il male assoluto? Si può perdonarlo? Riuscirà Giulio, alla fine della sua carriera di fotoreporter, ad uscire dal labirinto delle mutazioni di Caino e ricostruire un intero che si era rotto quarantré anni prima? Riuscirà una giornalista che somiglia a Uma Thurman a svelare qual è il nodo scorsoio legato al collo di Giulio? Capire perché l’uomo ama perdersi nei posti più pericolosi del mondo? E, soprattutto, farsi raccontare perché ha rinunciato alla celebrità quando avrebbe potuto fotografare Osama Bin Laden, l’uomo più ricercato dai servizi segreti di mezzo mondo?

    E poi l’odio che scanna, stupra, uccide. O l’indifferenza che non vede, né sente, né parla. E Josefa rimasta quarantotto ore in balia delle onde prima di essere salvata, o Mariam costretta a prostituirsi nelle prigioni libiche, o i caminantes lungo la frontiera Messico-Stati Uniti, o Emma Gonzalez sopravvissuta ad una delle tante sparatorie nelle scuole dell’America di Trump.

    Pagina dopo pagina al lettore vengono svelati fatti, idee, personaggi che — come le tessere di un puzzle — consentiranno di ricostruire una vicenda iniziata nel 1969. La narrazione è ricca di flash-back, e si avvale pure di un piano narrativo asincrono, per cui una storia sembra fermarsi per consentire ad un’altra di apparire. E il lettore dovrà aspettare che i due pezzi combacino perfettamente.

                                                                                                          A Paita. Alla quale non ho voluto rubare il futuro

    C’è gente i cui denti sono spade

    e i cui molari sono coltelli,

    per divorare gli umili eliminandoli dalla terra

    e i poveri in mezzo agli uomini.

    (Proverbi, 30:14)

    1 - Solenne, maestosa, una fosca area…

    Solenne, maestosa, una fosca area di bassa pressione era entrata dall’Atlantico nel nord Europa cercando di scacciarne un’altra di alta pressione che — colpa dei cambiamenti climatici del ventunesimo secolo — non avrebbe dovuto stazionare, impigrita e smorta, sulla penisola balcanica. Il vortice si muoveva con dignitosa calma e regale fierezza, come ogni cosa che sa — con feroce certezza — di riuscire in un’impresa che solo le apparenze fanno sembrare impossibile.

    Già alcune propaggini della perturbazione erano riuscite a penetrare nel nord della penisola italiana; l’afflusso di aria fredda e le prime piogge avevano steso sul paesaggio delle città e delle campagne il monocromatico grigio della stagione autunnale quando vuole mostrare la mitezza del suo lato garbatamente triste e malinconico, invitando i ritmi della vita e della terra a sciogliersi nel soffice torpore della stagione, «tessendo e ritessendo reti trasparenti» per dirla con Proust.

    Al sud invece splendevano sopra le opere degli uomini e sulle loro città la vampa dei rossi-arancio e la luminosità dei gialli: lo spettacolo lucente, imponente dell’altro lato dell’autunno, quello festoso, ciarliero, ragazzino. Il sole ottobrino conteneva morbide, piacevoli promesse. Caldo, sguarnito dalla ferrigna canicola estiva, gentile, discreto, quel sole assicurava una temperatura assolutamente nella norma. D’altra parte le isòtere e le isoterme si comportavano seguendo le leggi che le governano.

    Anche gli astri del cielo onoravano egregiamente le regole fissate da una remota antichità, tanto remota da essere accettata per eternità, che è il tempo di Dio, e agli uomini piace attribuire a Dio quello che non possiedono.

    Ovvero, con un’espressione che, quantunque fuori moda, caratterizza benissimo questo insieme di fatti: in tutta l’Italia meridionale sarebbe stata una bella giornata di fine ottobre dell’anno 2019.

    Bianco, possente, lucido, un Boeing 777-ER della compagnia Emirates stava solcando i cieli tra Grecia e Albania puntando la sua rotonda fusoliera in direzione di Roma, dove sarebbe atterrato alle sette e venticinque: all’incirca dopo due ore.

    Giulio Agnello viaggiava su quel Boeing. Si era imbarcato il giorno prima a Kabul per tornare, e stavolta definitivamente. All’interno dell’aereo una vellutata penombra induceva la maggioranza dei passeggeri a dormire o sonnecchiare pigramente. Giulio invece aveva gli occhi aperti, spalancati sui suoi pensieri che sentiva brillare nella sua mente in un brulichio vorticoso che gli provocava piccole — forse anche piacevoli — punture di spilli. Grattava qua e là spezzoni della sua vita per capire bene quello che stava facendo e, soprattutto, capire dove stava tornando e perché aveva deciso di passare da Enna.

    La nostra vita scorre sopra due diversi piani temporali: uno è simile a un arabesco gassoso: lo psichiatra Eugène Minkowscki lo assimila all’attività, in cui tendiamo verso l’avvenire; l’altro è lineare e piatto: è il tempo dell’attesa che ci porta nella direzione opposta. Il primo si sottrae al nostro sguardo e al nostro controllo perché le vicende della vita procedono a scatti, che sfuggono a quello che Nietzche chiama «il grande tessuto e reticolo della causalità», e se non ci affidiamo alla divina provvidenza dobbiamo riconoscere un’autorità meritata al caso, che è — secondo una felice definizione di Alberto Manguel — un «eccellente bibliotecario», capace di resistere persino al colpo di dadi della poesia di Stéphane Mallarmé. I fatti che impegnano la nostra vita, che ci danno affanni, consolazioni, gioie, sono interpolazioni che intersecano la trama del nostro vissuto come un mazzo di carte ben mischiate da un ineffabile giocatore cui non interessa la vittoria né la sconfitta. I Greci distinguevano il chronos, il terribile gigante che divora la propria prole, che è il tempo cronologico, lineare, quantitativo, dal kairòs: il tempo cairologico, che si può tradurre come: occasione, opportunità, momento giusto. Il tempo della qualità. Lungo questa strada ci siamo lasciati dietro le parole destino, fato, fino ad arrivare — credo unica circostanza — a non provare troppo sgomento davanti alla parola caso, se non altro perché lo concepiamo più imprevedibile di Dio, e ce ne siamo fregati della malmostosa dignità del libero arbitrio.

    Ora Giulio seguiva la traccia lineare dei suoi pensieri quando essi hanno una sintassi chiara e repentina, quando ci accompagnano nei nostri viaggi e si rendono necessari come il nostro bagaglio o il nostro biglietto. Illuminano la mente, a volte, altre la rabbuiano, avanzando senza un senso apparente, come il sangue che si spande nelle arterie, nelle vene, nei vasi capillari, seguendo miliardi di percorsi diversi che una mano invisibile — Dio? Il caso? — ha tracciato. Riflettere sembra un’attività assimilabile all’attività onirica, con la differenza che nei sogni il tempo non esiste. È la nostra volontà che si sta affermando, siamo noi che agiamo. Giulio stava guardando i suoi pensieri. «I pensieri riempiono i vuoti?» si chiese. «Oppure li tormentano?»

    Fisico asciutto, magro, slanciato, quasi atletico nonostante i suoi sessantaquattro anni. La pelle ancora liscia e il viso ben squadrato gli davano l’aspetto di un adulto-ragazzino, come se la sua crescita si fosse fermata all’improvviso per una ragione sconosciuta, e la sua maturità dissolvesse in una forma — atipica e anormale — che sapeva ancora di acerba adolescenza: «Chi diventa giovane tardi resta giovane a lungo» dice Nietzsche nel suo Zarathustra, ed Erasmo da Rotterdam pensa che solo la Follia è in grado di «prolungare la giovinezza, altrimenti fuggevolissima, e di tenere lontana la molesta vecchiaia.» Forse per Giulio entrambe le definizioni potevano avere una certa validità. Sulla faccia spiccavano labbra sottili, ben proporzionate, che spesso Giulio stirava in un sorriso sfumato, impalpabile, accennato, che gli accendeva lo sguardo — vivo e caldo già di suo — non di spavalda ribalderia, ma di ironia sorniona, assegnandogli un’immagine di uomo aristocraticamente distaccato dalle vicende umane. Giulio dava forse l’idea di essere un uomo ordinario e comune, ma quando gli si accendeva — con furtiva pudicizia — quel sorriso, si intuiva che la sua banalità era una maschera auto difensiva, caduta la quale qualcosa di speciale si rivelava. Era tonico, reattivo, curioso. Amava l’ignoranza. La vecchia massima socratica — sapere di non sapere nulla — aveva fatto agli esseri umani quel dono: una poderosa resilienza che nutre da venticinque secoli la libido sciendi. «Ma temo che il terzo millennio ci stia regalando la consapevolezza che capiremo di non capire nulla» pensò. E a volte temeva di appartenere alla razza di chi si fa tante domande per il gusto di non azzardare mai una risposta. Era la mancanza di intelligenza che lo allarmava, contro di essa non esistono rimedi: «È come risalire un fiume di merda senza pagaia» scrive in Elegia americana J. D. Vance.

    Sofós, per Nietzsche, etimologicamente è parola legata al verbo latino sapĕre che significa aver sapore, assaggiare, gustare oltre che capire, avere saggezza. Il sapiens assaggia, prova, esperisce; organizza le idee, le assomma, le divide, le condisce per dargli consistenza e sapore. Perché il sapere è la carne del nostro spirito, ed è faticosa strada in salita che conduce al dolore dei dubbi, mai alla deforme certezza della saccenza che riduce la sapienza a bulimica ridondanza, inerte sazietà, banale escrescenza delle sicurezze, dei luoghi comuni e dei miserabili pregiudizi. «Se un uomo comincerà dalle certezze, terminerà nei dubbi, ma se si accontenterà di iniziare dai dubbi, terminerà in certezze» era il punto di vista sulla ricerca che aveva Francesco Bacone. Il sapere senza il sapore di inter-legere, leggere fra, leggere dentro è l’inconsistenza del flatus vocis, il sordo autoproclamarsi demiurgo di un mondo dogmatico, statico, secco, in cui le parole non nascono né mai possono crescere.

    Eppure si era sentito definire se non proprio uomo senza qualità, uomo senza troppe qualità. Fernanda Maltagliati, la titolare dell’agenzia fotografica per cui lavorava, glielo aveva detto con la franchezza rude delle donne che dirigono un’azienda dove ci sono troppi uomini. Fernanda era donna di intelligenza intuitiva, rara e acuta che regalava ai suoi interlocutori, stemperando il suo sguardo severo con un’ironia vibrante che solo poche volte mutava in sarcasmo canagliesco; da ragazzina diciassettenne, sbattuta in un ambiente di lavoro fatto di soli uomini, era riuscita ad emergere ed arrivare a fondare la più importante agenzia fotografica in Italia ed una delle più rispettate in Europa. Quando lui le aveva proposto di essere disponibile a recarsi nell’inferno dell’Afghanistan, Fernanda aveva compreso, e senza troppe parole, con la sua asciutta determinazione gli aveva concesso la missione. Tollerava persino le sue lunghe sparizioni in posti particolarmente pericolosi del mondo. Aveva imparato per prima che in quei lunghi mesi in cui di Giulio nessuno — neanche la sua famiglia — sapeva se fosse vivo o morto, se stesse lavorando a qualche importante progetto o se fosse prigioniero o ostaggio di una della mille milizie, gruppi terroristici, tribù composte da uomini miserabili devoti a stabilire le lordure con cui altri uomini possono vivere o devono morire, aveva imparato, dunque, che di quell’uomo senza troppe qualità doveva fidarsi, perché alla fine di quei lunghi mesi Giulio riappariva — ed era un gran sollievo anche per l’unità di crisi che lavorava quasi continuativamente per lui al Ministero degli Esteri — con tanto materiale fotografico e documentale raccolto nei posti dove il sangue del mondo scorre e imputridisce senza neanche bagnare la Storia, quella con la maiuscola. Capiva che Giulio stava scappando, che non rincorreva né sogni né carriera, che si nascondeva nella polvere delle strade del mondo con la forza e la determinazione di chi oppone alla vita una sorda — forse vana — resistenza passiva. Fernanda sapeva degli uomini e della loro vita. Adesso l’agenzia chiudeva. La donna glielo aveva anticipato qualche anno prima. Il web frantumava le distanze e riduceva i prezzi; la qualità era raramente apprezzata e ricercata. L’abbondanza di immagini fotografiche aveva reso quel che restava del fotogiornalismo una specie di mercato del bovino. Anche per questo non aveva fretta di tornare a Milano. Partecipare allo sgombero degli uffici della Maltagliati lo avrebbe fatto soffrire ancora di più.

    Tornare. Quella parola. Le parole — tutte — sono la magia di un suono che dentro custodisce la purezza cristallina, limpida, di sostanza ed essenza. Sono la sceneggiatura della vita di ogni uomo. Henry David Thoreau definisce l’emissione della parola come «il respiro delle labbra umane» scolpite «nello stesso fiato della vita.» Attorno ad ogni parola si raggruma la connaturata narrazione che facciamo di noi e che noi stessi riceviamo dalla rete relazionale che riusciamo ad allacciare: siamo consustanziali alle parole che diciamo e ascoltiamo. Giulio la sussurrò quasi sensibilmente la parola che gli si era formata ora nella sua memoria: nostos. Il ritorno, il viaggio per Itaca, la terra promessa che si nasconde o che forse nascondiamo lontano lontano, in un posto tanto lontano che — come si usa dire — più lontano non si riesce ad andare neanche immaginandolo: la memoria, la nostra memoria, l’immenso edificio del ricordo, come la definì nella Recherche il divino cantore di essa. Che evoca, in virtù di quella parola — nostos — il dolore della partenza e la labirintica epopea del ritorno; forse la memoria è un lungo viaggio che consuma solo partenze su partenze senza ritorno né approdo in un posto sicuro: senza rifugio. Di partenza in partenza, di meta in meta, e poi ancora, e poi ancora, e poi sempre. Scorre come un bislacco fiume di cui si conosce la sorgente ma si ignora in quale mare annega la sua corsa. La memoria evita il presente ingannatore e perfido perché ha cura del passato e aborre il futuro. Paul Auster la definisce «lo spazio in cui le cose accadono per la seconda volta»; Arthur Koestler scrive nel suo Dialogo con la morte: «C’è dentro di noi un curioso meccanismo che romanticizza il passato; il film delle esperienze passate viene colorato dalla memoria. È un procedimento molto primitivo e i colori sbavano l’uno sull’altro: è forse per questo che sono così fiabeschi.» Il pianto del tempo non annega i nostri ricordi nello spazio grigio della dimenticanza, ma li mantiene galleggianti in un nitore bianco che potrebbe assomigliare alla luce della maestosità e della potenza divine.

    Odisseo — con la bestemmia della guerra ancora cucita addosso — smette i panni di soldato, di stratega, per rientrare in quelli di un re di una piccola isola, di sposo e padre; eppure per realizzare il suo legittimo desiderio deve ricorrere alla sua forza, all’astuzia, alla fermezza, perché l’inverosimile, la magia, il fantastico e il portentoso continuano a tormentarlo: aut heros, aut nihil; la vertigine dell’eroe gli impedirà ancora per dieci anni il reintegro della sua memoria. L’eroe-Odisseo è distante dall’uomo-Odisseo; e distante — scrive Stefano Benni — è la condizione di ogni viaggio. Per Giulio il suo nostos, invece, era un volo cieco, temerario, un'assunzione di irresponsabile follia, forse di sciagurata generosità. Avrebbe fatto meglio a tornarsene a Milano, da Elena, riprendere a sentire i suoi ragazzi almeno due volte a settimana, andare a fare la spesa, curarsi della casa. Itaca, la sua Itaca, era in un posto troppo misterioso e inquietante; ancora nascosto tra le pieghe crude dei suoi ricordi che non avevano mai taciuto. Itaca era un topos della sua anima che non esisteva in nessun posto fisico, polvere perduta nei misteri dell’universo, Itaca era il tempo del suo eroismo a buon mercato, quello che si compra nella vertigine inebriante dei pochi anni della vita che si chiama gioventù, che ci si cuce addosso con la protervia illusoria di farla durare per sempre. Per non perderla, non perderla mai. Mai. E gli eroi muoiono. Muoiono giovani, cadendo rovinosamente dai cieli senza impostura della gloria sull’arida desolazione della grigia, deforme, gelida normalità. Solo ai poeti è riservata l’immane impresa di cantarne le gesta perché possano anche loro morire soli, poveri e dimenticati.

    L’aereo stava arrivando a Roma e sembrava in perfetto orario; ci sarebbe voluta ancora qualche ora di attesa per imbarcarsi sul volo per Catania, ma era tranquillo perché sperava di arrivare in Sicilia nel primo pomeriggio, forse intorno alle tre, in tempo per potersi sistemare nella vecchia casa dei suoi genitori che sua sorella Laura gli aveva già preparato; e poi guardare il groppo pesante, duro come pietra di antica cattedrale, che custodiva dentro da tanto tempo. Reso duro e grave da mille silenzi che come vapori avevano nascosto e custodito la paura di svelare una realtà laida, mostruosa. Stava tornando a Enna anziché a Milano da sua moglie che lo aspettava da quasi un anno. I suoi due figli erano all’estero, ma Elena avrebbe ancora aspettato, sapeva che Giulio dopo tanto tempo trascorso a perdersi nel mondo doveva tornare a Enna: nostos, era la parola che l’uomo le aveva detto al telefono l’ultima volta che si erano sentiti; nostos.

    Doveva farlo. Ogni volta che gli era toccato scegliere aveva fatto — consapevolmente, sciaguratamente — la scelta sbagliata. Aveva avuto sempre la pretesa di pensare che fosse questo il modo per continuare a sentirsi un piccolo, stupido eroe; gli dava la inebriante sensazione di sfuggire alla maledizione della normalità. Alla morte secca. Era in quel posto nascosto della Sicilia la sua Itaca, doveva andarci; era da Enna che doveva passare, poi sarebbe tornato a viverla a Milano quella vita così insipida che temeva tantissimo.

    Sorrise. O così gli parve. Inarcò la schiena dalla poltrona sperando di vedere il suo viso riflesso sul finestrino dell’aereo, ma senza riuscirci: la superficie del vetro era scura, riuscì soltanto a cogliere con la coda dell’occhio il suo vicino di viaggio alla sua sinistra che dormiva o faceva finta. Si sentiva un innocuo, debole, forse sciocco sorriso incollato sulle labbra. Desiderò fortemente specchiarsi in quel maledetto finestrino per vederselo dipinto sulla bocca. Amava sorridere perché pensava che il sorriso era il contrassegno della mitezza, e la mitezza era una qualità anch’essa poco normale, e perciò straordinaria, folle, eretica.

    Sorrise ancora una volta a quel pensiero, e ancora una volta si spostò in avanti per specchiarsi sulla superficie del vetro del finestrino; fece uno sforzo maggiore infastidendo il suo vicino di poltrona, stavolta quello di destra, senza riuscire a vedersi. «Maledette poltrone centrali», pensò. Ma stava continuando a sorridere. «Avessi avuto il posto vicino al finestrino!» Il suo vicino di sinistra si agitò nel sonno, o forse non gradiva i movimenti di Giulio. Forse era un giornalista, «O un cameraman di qualche televisione del nord Europa» considerò Giulio. «Svedese. O forse finlandese. Non certo un fotografo. I fotografi che viaggiano su un aereo che viene da Kabul hanno la faccia di chi butta il cuore oltre l’ostacolo. Ovverosia: un’espressione leggermente supponente.» Sorrise ancora mentre con la coda dell’occhio guardò l’altro suo vicino di poltrona, quello di destra: leggeva un libro, la debole luce della minuscola lampada dall’alto gli illuminava la scriminatura storta dei capelli grigi; il naso grosso, marcato fortemente da una pelle porosa e lucida strideva con i lineamenti delicati del viso. «Spagnolo», pensò Giulio. «Quasi certamente un inviato speciale. Magari di quelli che stanno nei grandi alberghi senza mai mettere il naso fuori e che sanno tutto». Riconobbe di essere stato ingiusto nella valutazione, ma gli piaceva fare questo gioco innocente. Sorrise ancora. Forse l’uomo alla sua destra se ne accorse, perché per un attimo sollevò gli occhi dal suo libro per guardarlo fuggevolmente e gli ricambiò rapidamente il sorriso. A Giulio il naso di quell’uomo parve ancora più lucido perché nel sollevare la testa, la luce della lampada da lettura lo aveva illuminato interamente. «Il naso è l’organo che più agevolmente esprime la stupidità.» Aveva letto questa frase nella Recherche e adesso gli veniva in mente osservando l’uomo. «Arabo, non spagnolo», pensò. «Forse è salito a Dubai, non mi pare di averlo visto a Kabul. Arabo magrebino, magari algerino. Mi piacerebbe sapere che libro sta leggendo.» Lasciò cadere per un istante i suoi pensieri, appoggiò le spalle allo schienale della poltrona, respirò profondamente come quando si deve prendere una decisione impegnativa e chiuse gli occhi. «Mi piacerebbe sapere perché sta leggendo proprio quel libro. E non credo che Proust avesse ragione a proposito del naso.»

    Guardò ancora verso il finestrino, stava cominciando ad albeggiare: smorta, grigia, una fioca luce — quasi poltiglia nebbiosa — ingoiava le ultime tenebre della notte. «La creazione del mondo», pensò immediatamente Giulio. E sorrise a questa metafora che a volte gli tornava in mente quando vedeva sorgere un nuovo giorno. «In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso» dice la Genesi. Ora Dio — affinché la potenza della sua opera si compia — deve vincere la tenebra che non ha forma e non ha grammatica per esistere. «E nacque dunque il Càos primissimo; e dopo la Terra dall’ampio seno» ribadisce Esiodo nella Teogonia. L’incipit della creazione è racchiuso dentro il miracoloso passaggio dal caos-tenebra al cosmo-luminoso, dove ogni cosa ha forma ed è regolata in numero, pondere et mensura, come quando i sacerdoti pitagorici — che vissero nel secolo di Buddha, di Confucio e di Lao-Tse — restituirono alla follia del mistero del numero l'assetto e la struttura del logos, che è parola, scienza, discorso, calcolo per espungere da una materia ancora caotica equilibrio, proporzione e ordine. Il cosmo è materia misteriosa ma non arcana; violabile perché la sua sacralità è pagana; è il tripudio di una luce che non rivela se stessa, ma voluttuose ipotesi di verità.

    «La creazione del mondo», pensò ancora una volta. E stavolta avrebbe voluto vedere apparire sul suo volto un ghigno di sarcastica autocommiserazione perché si ricordò di don Gnazio e di un tempo lontano, nel negozio di barbiere di suo padre, delle chiacchiere dei clienti che guardavano il mondo e lo spiegavano con sufficienza e anche con semplicità. Don Gnazio, però, era un tipo speciale, era stato in America trenta o quarant’anni, parlava un dialetto siciliano vecchio, e vecchio era davvero don Gnazio. La pelle raggrinzita del collo, le borse sotto gli occhi acquosi, la crosta delle rughe nel volto, le macchie trucide della vecchiezza nelle mani nodose, i denti posticci della dentiera che metteva in bell’evidenza quando parlava. Allargava a dismisura le vocali innestando nel dialetto siciliano l’inglese che aveva imparato in America; non diceva mai in italiano o yes in inglese, ma pronunciava un suono indistinto, grasso, reboante, sonoro e larghissimo, diceva: ieeeessi, e poi lo ripeteva subito dopo per dare forza e vitalità a quel suono che tutti ormai ritenevano più che un’espressione di assenso, un intercalare monocorde e monomaniacale: ieeeessi, ed ogni volta che glielo sentiva dire a Giulio scappava da ridere perché si aspettava di vedergli uscire dalla bocca una specie di monolite creato direttamente da quel suono sgraziato e buffo.

    Don Gnazio però era sempre vestito elegante. La sua vecchiezza era magicamente contenuta nella foggia dei suoi vestiti, nelle sue camicie sempre perfettamente stirate, bianche, fresche, persino nelle cravatte americane super colorate e mai abbinate al colore del vestito che aveva scelto di indossare. E poi don Gnazio portava sempre il cappello — forse un Panama o qualcosa che poteva assomigliargli. — Il cappello, la sua eleganza quasi da dandy, le cravatte assai improbabili, il suo linguaggio così obliquo, davano all’uomo una certa importanza. Ma a consacrargli la definitiva leadership nei confronti del resto dei clienti era Dio. Perché don Gnazio era testimone di Geova e doveva necessariamente surrogare i suoi discorsi con Dio, tanto che a Giulio — che aveva otto anni — sembrò sensato associare i testimoni di Geova a persone che ne parlavano sempre come se dovessero vendere un prodotto commerciale sulla cui bontà non si poteva e non si doveva discutere.

    Il padre di Giulio aveva una strategia semplice: quando un cliente esprimeva un’opinione — qualsiasi opinione — gli dava sempre ragione. Era un modo grossolano ma efficace per non contrariare mai il cliente; ma a don Gnazio aveva riservato l’etichetta di filosomo, che in siciliano ha un significato negativo: di persona particolarmente petulante, insistente e saccente; ma nel caso di don Gnazio quella specie di crasi tra la filosofia e l’essere umano restituiva una semiosi più positiva, dandogli un’autorevolezza che anche l’uditorio cui si rivolgeva era disposta a riconoscergli. Sicché, dopo essere stato sbarbato e servito, don Gnazio si sedeva e cominciava a concionare di qualsiasi argomento, ma sempre avendo le spalle ben coperte dal suo Dio infallibile che lo avrebbe meritoriamente supportato nelle argomentazioni e nelle tesi che andava dipanando alla sua assemblea.

    Un giorno se la prese con Yuri Gagarin: questo cosmonauta materialista, comunista, ateo, aveva detto di non aver visto nello spazio nessun dio. Un senza dio che pretende di localizzare l’essere perfettissimo in uno spazio ristrettissimo dell’universo! Dove può essere Dio? Don Gnazio non rispose, lasciò sapientemente la domanda in sospeso nell’aria come una vibrazione assassina, per lui la risposta era scontata; anche a Giulio parve scontato ripetersi mentalmente «in terra, in cielo ed in ogni luogo.»

    In ogni luogo. Giulio guardò il finestrino, la luce aumentava, l’aereo virò leggermente inclinandosi con eleganza e sicurezza e così si accorse del mare: erano sull’Adriatico. Se Dio fosse stato la fuori? Se Dio fosse stato una presenza leggera, soffice, appena un palpito, una vertigine di un istante infinitesimo? Anche un vento senza padrone, un fremito senza equivoci. Cosa c’era la fuori? Cosa c’era a ottomila metri sopra il mare Adriatico scintillante come uno specchio, lucido e tagliente come il vetro? Il silenzio vuoto e sordo; e Dio era il silenzio di quel silenzio, l’ombra di un’altra ombra, il vuoto che trafigge l’abisso. «La più alta lode di Dio sta nella negazione dell’ateo, che trova la Creazione tanto perfetta da poter fare a meno d’un creatore» scrive ancora Proust. Giulio amava Proust, trovava la sua scrittura docile, mai urgente; la paragonava ad una figura geometrica piana a due dimensioni, non a un solido con spigoli e curvature. «Proust credeva in Dio?» si chiese mentre un primo raggio di luce lacerava la penombra dell’aereo e lo colpiva in viso. Poi — succede quando i pensieri si rincorrono uno appresso all’altro, il cervello comincia ad aggrovigliare, mischiare, confondere la massa di idee che lo intersecano, la mente preferisce perdere il controllo di una materia già così misteriosa — mentre sentiva il lieve calore di quel primo barlume luminoso sul suo viso, si appisolò senza accorgersene: come se un temporale deponesse improvvisamente la sua ira furibonda per arrendersi alla calma placida di una giornata serena.

    2 - L'aereo si stava abbassando virando…

    L’aereo si stava abbassando virando leggermente verso est. Giulio emerse dal suo sonno; forse era stata la luce del sole — che adesso era alto nel cielo — a scardinare la porta di quella forma di torpore vigliacca e canaglia — più che un vero e proprio sonno — che lo aveva trascinato per qualche ora in uno stato di quasi non-esistenza. Il sonno quando non è inquisitore delle nostre paure diventa guardiano dei nostri pudori. Adesso era perfettamente sveglio e tonico, sentiva la mente pulita, i battiti del cuore regolari, lo sguardo soffice e sicuro. Una grande calma lo pervadeva: ebbe la sensazione — almeno in quel momento — di aver preso la decisione migliore, la più giusta. Non gli giravano più per la testa i pensieri: creazione del mondo, Itaca, nostos, appartenevano ai misteri della notte, erano mugugni tempestosi ormai senza impeto, molecole sparse in un limbo desolato.

    C’era il sole adesso; un altro giorno, un altro giorno in cui è lecito ricominciare a calibrare la propria vita in maniera diversa. Erano lame di luce che inondavano il pulviscolo del mondo; cadevano — ancora oblique — sulla superficie del mare che restituiva abbaglianti riflessi argentei, rendendo quel mare un brulicante cristallo che sembrava potesse proteggere il mondo e i suoi abitanti. Un soffio cosmico, potente, inarrestabile che celava vitalità ed energia.

    Gli venne ancora da sorridere; guardò fisso davanti a sé mentre con la coda dell’occhio teneva sotto controllo i suoi due vicini di poltrona. «Chissà» pensò, «se anche loro credono a un nuovo giorno come a una nuova vita», e nel pensarlo il sorriso gli si fece più evidente. «Solo un imbecille come me può pensare queste cose: appena sarò sceso da questo aereo, pof! via tutte ste belle cazzate e dentro nella cruda e dura realtà, cazzo!» La mente sarebbe stata meno libera, il cuore avrebbe accelerato il ritmo, lo sguardo si sarebbe velato di preoccupazione, non una qualunque, ma quella preoccupazione che non sapeva ancora come avrebbe affrontato.

    Nell’aereo cresceva il brusio tra i passeggeri; ricominciavano a parlare tra di loro. Anche il suo vicino di destra aveva chiuso il libro, mentre l’altro guardava — forse rapito dallo sfolgorante scintillio dell’Adriatico — fuori dal finestrino. «Sì, è vero» si disse Giulio, «sta ricominciando la vita anche qui dentro: sentono che l’aereo sta arrivando: come animali che stanno uscendo dal letargo …» Ispezionò con lo sguardo per un solo attimo ancora una volta i passeggeri che stavano nelle file davanti la sua, e poi concluse: «…adesso dopo aver scrutato il regno dei cieli, scendiamo nel mondo degli uomini. Dio non lo abbiamo visto, e in terra cosa resta?»

    Il mondo. Il mondo degli uomini. Forse era come un fondale di teatro davanti al quale maschere senza tempo recitavano con impegno totale la loro vicenda. Strappare la maschera non significava niente, perché sotto restava una codarda finzione. «Dissipare l’illusione», ha scritto Erasmo nell’Elogio della Follia, «significa togliere senso all’intero dramma. A tenere avvinti gli sguardi degli spettatori è proprio la finzione, il trucco. L’intera vita umana non è altro che uno spettacolo in cui chi con una maschera, chi con un’altra, ognuno recita la propria parte finché ad un cenno del capocomico, abbandona la scena. Costui, tuttavia, spesso lo fa recitare in parti diverse, in modo che chi prima si presentava come un re ammantato di porpora, compare poi nei cenci di un povero schiavo. Certo, son cose immaginarie; ma la commedia umana non consente altro svolgimento.» Dov’era don Gnazio? Cosa restava della sua commedia? Dov’era stata buttata la sua maschera? Era nell’alto dei cieli al cospetto della abbagliante luce del suo sapiente e scaltro capocomico? O era polvere seppellita sotto il freddo, pesante marmo del tempo che stritola persino la misericordia della memoria? Perché il tempo che non ha pietà della memoria è il tempo senza tempo, quello che ci ricorda che nel luna park della vita ci viene consentito di salire ogni giorno soltanto sulla giostra della morte. In quale teatro di posa stava scendendo Giulio? Quali maschere avrebbe incrociato? E, soprattutto, com’era fatta la sua maschera che non poteva vedere neanche riflessa nel finestrino di un aereo?

    Cosa c’era nel mondo lo aveva visto, lo aveva persino documentato con le fotografie e con gli articoli che a volte gli erano stati commissionati. Ma nel mondo dove stava tornando cosa resisteva? A Enna non metteva piedi da vent’anni, aveva dimenticato i volti delle persone che aveva visto ogni giorno e i posti della sua città che aveva frequentato: modellavano una specie di ordine che lui — o forse chiunque — aveva percepito come eterno, infrangibile e sacro. L’eterno presente nel migliore dei mondi possibili arrotolati nella frenesia della giovinezza; incartati per bene per rimanere celati. E poi svanire senza il riguardo di una spiegazione, perché spiegare quelle cose appartiene al regno della ragionevolezza, non alla vita e ai suoi ritmi che scivolano inesorabilmente sopra i dettagli della razionalità. «Da giovani ci inventiamo un futuro diverso per noi stessi; da vecchi un passato diverso per gli altri» afferma lo scrittore Julian Barnes. L’eterno presente è la coperta della stupidità dei vent’anni, e il migliore dei mondi possibili è la scusa banale di un filosofo che volle accorciare il confine tra il bene e il male fino a mischiarli, confonderli e attirarsi i puntuti sarcasmi del signor François-Marie Arouet che sbeffeggiò in un romanzetto la ridicola presunzione del suo principio di ragion sufficiente. Ci accorgiamo che l’ubriacatura della giovinezza è passata quando abbiamo ormai abbassato la guardia; ci restano degli arnesi che non abbiamo mai usato per capire il mondo, e allora abbiamo il compito — forse il dovere — di imparare tutto come se fossimo al principio di un’altra storia, un’altra vita. Solo che è sempre la nostra vita; non ha mai attraversato qualche confine misterioso, non ha mai superato un’improbabile muro divisorio, non si è mai ritrovata in un regno che non riconosce più la legge di gravità, o le regole di causa ed effetto, o la logica di un qualche sillogismo; la nostra vita è semplicemente trascorsa, anche se collocata in un irenico mondo morfinizzato, ma è trascorsa, il tempo ha eroso le fondamenta che sembravano dovessero sfidare l’ira del suo medesimo trascorrere.

    Si accorse che i suoi due vicini di poltrona stavano armeggiando con le cinture di sicurezza: la discesa su Roma stava iniziando, non aveva fatto caso all’annuncio del comandante, evidentemente lo aveva sentito senza ascoltarlo. Si agganciò la cintura. Lo aspettava la terra degli uomini, lo aspettava l’Italia e poi la Sicilia e poi Enna. E poi… «Cosa devo fare per prima cosa?» si chiese. Adesso cominciava ad avvertire una certa frenesia, un nervosismo involontario; ora era il tempo del fare, di operare scelte, agire. «Per prima cosa mando un whatsapp a Laura. Poi a Manfredi. Se riuscissi a prendere l’aereo delle otto e un quarto arriverei a Catania prima delle dieci. Poi devo controllare l’orario dei pullman per Enna… Be’, comunque c’è un altro aereo che parte alle nove. Bisogna vedere quanto tempo perdo in dogana e al ritiro bagagli.» Incrociò lo sguardo del suo vicino di destra, si sorrisero come se volessero salutarsi perché il loro viaggio era quasi alla fine, ma in realtà occorreva ancora quasi un’ora prima che l’aereo posasse le sue ruote sulla pista d’atterraggio. Si girò verso l’altro suo compagno, quasi volesse salutare anche lui con uno sguardo, ma costui guardava dal finestrino la terra con il suo paesaggio che diventava sempre più vicino. «E poi», pensò ancora, «devo darmi da fare per la pensione.» Sorrise apertamente, stavolta; mentre il soffio della vita gli fece incontrare casualmente ancora una volta lo sguardo del suo vicino di poltrona che aveva smesso di guardare dal finestrino: con un aperto sorriso gli stava tendendo la mano destra per stringere la sua e diceva: ―Good morning.― Il primo suono di parole che sentiva dopo ore e ore di ovattato silenzio. Ed era in Italia, e forse era un buon segno.

    ―Good morning, mister― rispose Giulio ricambiando la stretta di mano e accentuando ancora di più il sorriso. Nel mondo degli uomini riapparivano suoni, sorrisi, strette di mano, e la gentilezza di un compagno di viaggio che alla fine si è dichiarato un vicino e non un estraneo. Entrambi sembravano felici come una mattina al sole.

    L’aeroporto a Giulio sembrò di plastica. «Non-luogo», pensò mentre percorreva insieme agli altri viaggiatori i lunghi corridoi. «Uno spazio che sfugge all’identità e alla relazione per lasciarci solitudine e similitudine. Marc Augé ha avuto proprio un’intuizione geniale nell’inventare questa formula». C’era dappertutto odore di candeggina e di deodorante, l’intera struttura sembrava sotto formaldeide, sanificata, sterilizzata. Le luci rendevano più pallidi i volti delle persone, il chiacchiericcio di sottofondo che si sentiva sembrava il rumore di un ramo secco che si spezzava ripetutamente.

    Le operazioni di dogana e di ritiro bagagli durarono circa un’ora, poi andò al banco per fare il check-in per imbarcarsi sul volo delle nove per Catania. Quando ebbe finito si sedette, con il suo cellulare consultò il sito dei pullman per Enna da Catania: gli orari coincidevano magnificamente, all’una e mezza sarebbe arrivato al terminal-bus di Enna Alta. Era addirittura in anticipo sulla tabella di marcia che aveva ipotizzato e doveva aspettare meno di mezz’ora per la chiamata del volo. Sentì una aguzza apprensione trafiggerlo, eppure non era mai stato tentennante quando doveva prendere una decisione; tutt’al più si era lasciato possedere da un decisionismo insensato senza pesare le conseguenze che ne sarebbero derivate.

    Decise di mandare i messaggi a sua sorella e a Manfredi. «Alle 13:30 arrivo a Enna. Sono a Fiumicino. Fra pochissimo mi imbarco. Non chiamarmi perché sto spegnendo il telefono» scrisse a Laura. A Manfredi invece

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