Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Margherita e il futuro
Margherita e il futuro
Margherita e il futuro
E-book494 pagine7 ore

Margherita e il futuro

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In una contemporaneità anche troppo prosaica che affonda le sue radici nei consueti traffici tra il Vaticano e l’organo politico dell’Urbe accadono alcuni eventi che sfuggono alle possibilità di comprensione del Professor Dino Rota, eminente studioso della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il ritrovamento di antichissimi rotoli scritti in una lingua incomprensibile e senza precedenti. La scoperta tra il materiale in corso di trattazione per l’informatizzazione della Biblioteca di un dischetto che sotto le vesti grafiche di un famoso successo di un cantante americano nasconde una sorta di stele di Rosetta comprendente tra le lingue a confronto anche la misteriosa lingua dei rotoli. Il ricupero di uno strano fossile nelle acque antistanti la costa occidentale del Marocco, squassata da un violento sisma e spezzata in più punti. Ne scaturisce una catena di efferati fatti di sangue, apparentemente collegati a questi eventi, che lascia trasparire ciò che si cela dietro di essi e che li collega al passato e ad una verità terribile e nascosta.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2019
ISBN9788832560794
Margherita e il futuro

Correlato a Margherita e il futuro

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Margherita e il futuro

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Margherita e il futuro - Debenedetti A. G.

    Debenedetti A. G.

    Margherita e il futuro

    UUID: b6fcadda-548e-11e9-9985-bb9721ed696d

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Quando in alto il cielo non aveva ancora un nome

    E la Terra, in basso, non era ancora stata chiamata con il suo nome,

    Quando nessuno degli dei era ancora manifesto,

    Nessuno aveva un nome e i loro destini erano incerti.

    Allora, in mezzo a loro, presero forma gli Dei.

    Enûma Elish, 1-2, 7-9.

    I primi passi

    Gli Uomini che uscirono non furono quelli che erano entrati. I cristalli morti, nelle loro culle segrete, rimasero ad aspettare, sognando.

    Si fecero strada tra quelli che non erano riusciti ad entrare e che attendevano all'esterno interrogandosi l’un l’altro con grugniti e mugolii e si radunarono sulla sponda delle acque che arrivavano a lambire i loro piedi con piccole onde. Si mescolarono ai fratelli di Faroq e a tutti gli altri che avevano lasciato le loro dimore e si erano ricongiunti a loro.

    Si guardarono.

    Il capo tozzo e piatto, i denti aguzzi, le spalle forti, le mani che toccavano quasi il terreno, i grandi piedi coperti da una fitta peluria. Studiarono le differenze e le trovarono negli inguini irsuti e nelle mammelle pendenti da cui piccole bocche affamate succhiavano il loro nutrimento.

    Cercarono gli occhi e si frugarono reciprocamente nell'anima. Si riconobbero.

    Gli altri Uomini, quelli che erano stati costretti a rimanere all'esterno, si avvicinarono a loro circospetti annusando rumorosamente l’aria come se percepissero nuove e incomprensibili differenze. Brandivano grossi bastoni ma non osarono avvicinarsi oltre. Stretti gli uni agli altri, rimasero ad osservarli grugnendo.

    Dal limitare del bosco sbucarono nuove figure che si avvicinarono miti ed esitanti, caracollando con un’andatura oscillante ed incerta. Erano i Gereti. Parevano incuriositi e attenti. Non timorosi. Gli altri Uomini, distratti dall'inatteso arrivo, si rivolsero ringhiando verso di loro. Li attaccarono con urla furenti e i denti e i bastoni ebbero rapidamente ragione della curiosità e della cautela. Rimasero a terra straziati dalla rabbia e dalla fame degli aggressori che ora strappavano la loro carne, se la contendevano, se ne cibavano. Alcuni riuscirono a fuggire e si rifugiarono tra gli alberi.

    Il sangue colava sui petti irsuti dai menti sfuggenti che si protendevano verso quegli Uomini che sentivano ora così strani e diversi come a volerli dissuadere dall'avvicinarsi alle prede.

    La foresta fremette per un vento improvviso ed un remoto cupo mormorio calò sulle fronde ora illuminate da bagliori lontani. Oltre la selva, come sorgendo dagli alberi, si alzò verso il cielo una immensa colonna di fuoco che illuminò il cielo che si stava oscurando. Tutti fuggirono verso la foresta portando con sé quanto poterono del loro pasto interrotto.

    Poi la colonna di fuoco parve esaurirsi, come ripiegandosi su sé stessa, fino a scomparire dietro gli alberi.

    Calò il silenzio rotto soltanto dal mormorio delle onde e dallo stormire lieve delle fronde.

    Rumah fuggì tra gli alberi e raggiunse i Gereti che erano riusciti a trovare un rifugio nel profondo della foresta. Si inginocchiò vicino ad una creatura che piangeva i suoi figli morti nell'assalto. Poco lontano, un piccolo si aggirava sperduto. Aveva perso la madre e non trovava orecchie disponibili per il suo dolore. Lo prese in braccio e se lo strinse al petto. Il piccolo, rinfrancato, nascose il volto nel suo lungo vello e si attaccò alle sue mammelle.

    «Faroq?»

    «Si, Padre.»

    «Comunica ai fratelli che stanno attendendo, che si distribuiscano verso occidente, lungo la fascia mediana e a nord delle grandi acque. Ogni Comandante controllerà e deciderà le posizioni.»

    «Padre, ho comunicato il vostro messaggio. Sono partiti.»

    «Bene, allora. Ora parlerò loro.» Faroq si accucciò di fronte a lui. Ad un suo cenno, gli altri Uomini lo imitarono.

    «Figli miei che mi ascoltate dalle vostre culle celesti. Ora incomincerete il vostro viaggio. I vostri Comandanti regoleranno il vostro cammino. La meta è scolpita nei cuori, nulla potrà venire a distogliervi dai vostri obiettivi. In ogni momento io sarò con voi. Mi sentirete al vostro fianco, fino a quando i mille rivoli torneranno ad essere un unico fiume maestoso, potente e invincibile, che aprirà la roccia e nella ferita profonda andrà a raccogliere le chiavi del cielo.»

    Il gabbiano di Essaouira

    Capitolo primo

    Il vento soffiava rabbioso ormai da lunghi giorni e le onde dell’oceano si precipitavano contro le rocce nere di Essaouira come enormi cetacei impazziti. Ad ogni assalto, pareva che tentassero di raggiungere un’altezza maggiore come se, un passo alla volta, volessero arrivare fino alla sommità dei bastioni aggrappati più in alto sull'aspra scogliera così da stringerli in un mortale abbraccio finale.

    Le viuzze della medina erano buie e deserte. Pareva che nessuno avesse voglia di iniziare un giorno così tempestoso ed oppresso da cattivi presagi. Anche il sole si faceva negare così che i suoi primi e deboli raggi non avevano la forza di vincere le nubi di schiuma e vapore che, sospinte dall'impeto incessante del vento, coprivano le mura fortificate, le torri e gli antichi tetti, come una coltre umida e fredda. La burrasca scaricava lungo tutta la costa la sua rabbia atlantica, da Agadir a Essaouira, da Al-Jadidah ad Asilah, per morire poi, più a Nord, nel vasto ventre che racchiudeva il frutto più prezioso: la porta che schiudeva l’orizzonte delle dolci acque mediterranee.

    Lui conosceva bene quelle acque e quei venti. Quando era giovane, le sue ali vigorose lo avevano portato attraverso le azzurre distese fino alle isole che giacevano nel letto del sole calante. Nulla lo poteva fermare, non i venti contrari, non le montagne d’acqua alzate dall'Aliseo incessante; quelli erano ostacoli insormontabili solo per coloro che avevano avuto in sorte dalla loro natura matrigna il destino di strisciare sulla terra e di affogare nel mare. Lui invece scivolava nel vento e il vento lo sorreggeva, gli riempiva il cuore con il sogno delle mete più lontane e gli donava il coraggio per raggiungerle. I suoi orizzonti erano senza confini e lui giocava a dilatarli a dismisura arrampicandosi sempre più in alto nel cielo, oltre le nubi della pioggia, oltre le nebbie del buon tempo, oltre i piccoli batuffoli che annunciavano la tempesta del domani.

    Il passare del tempo poi, aveva reso le sue ali più pesanti, sempre più pesanti. I suoi orizzonti avevano iniziato a ridursi, prima dai monti alle isole, poi dai colli alla costa, infine dai villaggi aggrappati alle rocce fino alla prima fila di onde che ora correvano impazzite ad infrangersi sulla tagliente lama della scogliera.

    Gli era sembrato che il guizzante pesce argenteo si fosse fatto sempre più veloce fino a divenire quasi imprendibile. Così il suo stomaco era stato costretto a scendere a compromessi ogni giorno più umilianti. Fortunatamente il cervello funzionava ancora bene e ciò gli aveva permesso di organizzarsi traendo vantaggio dal fatto che la sua vita, ormai, si sviluppava a stretto contatto con il bipede che strisciava sulla terra e affogava nel mare.

    Le sue mattine iniziavano alle prime luci dell’alba. Insieme ad altri vecchi gabbiani si appostava sotto le finestre delle casupole avvinghiate alle rocce. Aveva appreso che quelle di Asilah davano i frutti migliori. Alle prime luci, nelle case berbere, si provvedeva allo smaltimento dei rifiuti. Questo consisteva nell'aprire la finestra affacciata sulle rocce e nel vuotare il secchio affidando al vento il successivo trattamento degli avanzi di cibo e scarti di verdure. E qui entravano in azione loro e compivano vere acrobazie di ardimento all'inseguimento di una testa di pesce o di una buccia di cocomero.

    Purtroppo la modernità aveva colpito anche loro con la sua maledetta lebbra e così, di giorno in giorno, era diventato sempre più difficile discernere ciò che poteva essere mangiato dalla spaventosa quantità di plastica, carta, vetro e alluminio che veniva scaraventato nel vento insieme al loro pranzo del mattino. Asilah ancora si salvava grazie alle sue ridotte dimensioni di piccolo borgo ma Essaouira, ormai conquistata da un travolgente ed ingordo turismo, non era più praticabile, almeno per la fase mattinale. Si salvava invece per un altro aspetto che, in controtendenza con il problema dei rifiuti, migliorava di giorno in giorno e rendeva la vita ancora sopportabile per le loro vecchie ali.

    Non sapeva per quale ragione, ma si sarebbe detto che la popolazione bipede andava aumentando in modo considerevole in particolari periodi dell’anno e in specifiche ore del giorno. Essi sembravano anche di una specie diversa rispetto alla consueta specie stanziale.

    Infatti, coloro che passeggiavano sugli antichi bastioni avevano sviluppato una grande attenzione per i loro stanchi svolazzi e facevano a gara nel buttare loro qualcosa da mangiare. Certo non erano avanzi di pesce ma bisognava accontentarsi. Come gesto di considerazione, i gabbiani facevano a gara nel lordare le stupide teste con le loro feci ma questo non li turbava, anzi, sembrava che si divertissero molto. Scorrazzavano ridendo al grido:

    «Bonheur! Bonheur!» Non c’era da stupirsi poi, se un tale insulso essere era stato colpito dalla madre di tutti i voli con la peggiore delle maledizioni: la privazione delle ali.

    La mattinata di quel giorno tempestoso non era stata affatto soddisfacente. Il vento era troppo forte perché le finestre si potessero aprire per permettere di espletare l’incombenza ecologica mattinale senza che tutto ritornasse indietro schiacciato sul volto e sulle vesti dell’improvvida donna di casa, consigliando così di rimandare al domani l’assolvimento di tale importante responsabilità. Lo stomaco del gabbiano, tuttavia, non era sensibile alla burrasca e pertanto reclamava la sua parte. Si diresse sconfortato verso sud sperando, ma invano, che il vento gli concedesse una qualche possibilità.

    Sul far del mezzodì si ritrovò a volteggiare sui bastioni di Essaouira. Scoprì con rammarico che anche lì il vento flagellava la costa senza alcun ritegno costringendo nel chiuso di una qualche bettola fumosa anche il bipede più coraggioso. Ebbe un moto di rabbia verso quella giornata tempestosa e verso chi gliela aveva mandata e schizzò verso l’alto, sempre più su, fino a sfiorare le nuvole basse e lì rimase, immobile rispetto al suolo, con le ali frementi nel turbine del vento a significare la sua forza, capace di resistere a tutta quella furia anzi, capace di utilizzarla per un volo che non avrebbe avuto mai fine.

    Fu proprio allora che tutto si scatenò.

    Prima fu come se il silenzio fosse sceso sulle sue ali che ora sembrarono immobili in un cielo attonito per l’atterrita attesa. Poi il tremendo boato che lo colpì come respiro potente che sconvolse le nubi, piegò le sue ali e lo scaraventò verso terra in una incontrollabile picchiata. Infine tutto prese vita, le rocce nere, gli antichi bastioni del Forte, le mura delle misere case, addossate le une alle altre, tagliate solo dalle strette stradine della medina. Tutto iniziò a contorcersi e oscillare, alzarsi e sprofondare. Si aprirono voragini che inghiottirono tutto ciò che le circondava e lunghe fenditure come ferite di coltello separarono la striscia di sabbia bianca che si stendeva verso nord dalle rocce nere ed i Bastioni. Si spalancò il grande ventre della costa che, ora, offeso e violato, ricevette senza più protezione, l’assalto e la rabbia dei violenti marosi che si infilarono nelle nuove cavità con inusitata ferocia come se, dopo una attesa infinita, finalmente potessero riappropriarsi dei tesori che erano stati loro nascosti.

    Arrestò la picchiata, con fatica, appena sopra le mura. Riuscì a riguadagnare una quota più confortevole e distese le ali per prendere il vento e mantenersi immobile sopra quello che subito gli sembrò un paesaggio nuovo e terribile, fatto di ruderi e massi sconvolti.

    Rivolse il suo sguardo verso il basso. La costa si era abbassata, ora le onde arrivavano fino quasi al parapetto e gli spruzzi e la schiuma coprivano le torri ed i tetti. Notò che immediatamente prima che le onde si rovesciassero sulle rocce, la superfice dell’acqua scendeva ben oltre il normale livello scoprendo nelle radici della costa, una nascosta intimità nera di molluschi e di alghe, ora lacerata ed aperta in grandi caverne e grotte tenebrose. Il mare si precipitava all’interno con violenza e poi si ritraeva strappando tutto ciò che trovava e trascinando al largo i nuovi tesori.

    Inclinò le ali e scese in picchiata.

    Forse quella giornata maledetta si sarebbe potuta ancora salvare.

    Il Tenente di vascello Abou Farid era molto contrariato. La sua dolce seconda moglie, quella notte, gli si era rifiutata adducendo come motivazione, ovviamente pretestuosa, il fatto che avessero già quattro figli e che, secondo lei, il ventre della prima moglie secco, arido e inospitale come i sassi del deserto, non lo autorizzava a pensare che lei potesse fare le sue veci nelle procreazioni. Glielo aveva detto mille volte. Ripudia quella sventurata donna e trovatene un’altra, così potrò almeno dormire tranquilla una notte su due. Quella era una possibilità che Abou Farid non poteva proprio prendere in considerazione.

    La prima moglie, Fatimah, era stata il grande amore della sua vita. Come avrebbe potuto lasciarla? E poi sarebbe stato contro i suoi sbandierati principi di uomo moderno e progressista, e che diamine. Il fatto che avesse due mogli non autorizzava nessuno a credere che fosse antico o retrogrado. Era stata solo una decisione presa per rispetto del nonno che di mogli ne aveva quattro e che gli aveva fatto da padre.

    Suo padre era morto in uno scontro tra l’esercito e i ribelli Sahraui quando egli era ancora nel ventre di sua madre. Essa si era poi risposata con un puzzolente pescatore di Casablanca e così era cresciuto con i nonni che lo avevano amorevolmente accolto ed autorevolmente educato. Aveva sì perso una madre ma, in compenso, ne aveva trovate addirittura quattro. Aveva cercato di ripagarli con il costante impegno negli studi fino alla decisione di entrare in Marina che il nonno aveva benedetto. Aveva fatto i suoi studi a Dieppe con la Marine Nationale.

    Al suo rientro, giovane Guardiamarina, trovò che il nonno gli aveva già trovato una moglie speciale. E che fosse veramente speciale se ne accorse subito appena la vide. La bellezza di Fatimah lo fulminò in un istante e mise il suo cuore a ferro e fuoco. Purtroppo il malvagio sortilegio di un qualche malevole Ginn non volle che il ventre di Fatimah producesse frutti e così il nonno gli aveva trovato la giovane Salma, bella come il sole, profumata come le erbe del deserto in primavera. Di discendenza Tuareg, portò nella sua famiglia le perle della sua cultura, libertà, certo, coraggio, certo, strenua sopportazione delle fatiche, certo, attaccamento alla famiglia, certo, ma anche un radicato sentire prodotto dal sistema di matriarcato in vigore presso quelle genti. E qui furono dolori. Vennero comunque i figli, quattro, per ora, o almeno così sperava. Temeva che il fatto che essi fossero conseguenza, sempre, di un’umile e dimessa richiesta, potesse produrre, nel tempo, frutti amari. Aveva affidato tutti i suoi guai a Dio e rinnovava la supplica ogni venerdì, quando andava alla Moschea, ancora insieme al vecchio nonno che su quella consuetudine non transigeva.

    Si affacciò alla finestra. Sull'edificio della Capitaneria, una bassa costruzione ad un piano che si affacciava sul molo a cui era ormeggiata la sua motovedetta, al-Qamar, bianca proprio come la luna e suo fiore all'occhiello, volava una nube quasi impenetrabile di schiuma e polvere che frustava le casupole basse ed andava a perdersi nel deserto. La motovedetta sembrava un montone impazzito che saltava e si scuoteva come cercando di liberarsi per fuggire lontano. Dalla sua posizione non riusciva a vedere i piccoli pescherecci che erano ormeggiati più in giù, verso la radice del molo.

    La bufera stava imperversando da molti giorni, ormai. Sperava che qualche pescatore non facesse la pazzia di uscire vagheggiando una assai improbabile pesca fortunata. C’era, purtroppo sempre quella possibilità. Le famiglie dei pescatori, come quelle di ogni altro figlio di Dio, avevano la brutta abitudine di mangiare ogni giorno, con la pioggia e con il sole, con la tempesta e il sereno.

    Si alzò dalla sua scrivania e raggiunse la sala operativa.

    «Salim, Salim, dove diavolo ti sei cacciato?» Salim, da sempre il suo braccio destro, fece capolino da dietro una tenda, tenendo tra due dita, con circospezione, una piccola coppa di tè certamente bollente.

    «Eccomi Comandante, comandi!»

    «E’ mai possibile che tu stia sempre ingurgitando qualche cosa? Voglio sapere, subito, quale sia la situazione dei pescherecci nel porto. Non vorrei facessero qualche sciocchezza. Per quattro acciughe sono capaci di tutto. Voglio sperare anche che teniate sotto controllo gli ormeggi della motovedetta. Non sarebbe la prima volta che una mareggiata, insieme all'incuria di fannulloni come voi, sfasciasse una vedetta in porto.» Salim, colto per l’ennesima volta in fragrante, capì subito che, per il suo capo, quella non doveva essere una giornata favorevole. In altre parole sua moglie gli si era nuovamente negata. Per cui decise di assumere subito un basso profilo ed adottare una configurazione conservativa.

    «Comandante, non si preoccupi. Tutto sotto controllo. Mi viene riferito che tutti i pescatori sono calmi come agnellini e gli ormeggi tengono egregiamente.» Abou Farid incrociò le braccia, appoggiò il mento su una mano ed assunse un’aria mesta e desolata che, per chi lo conosceva, non voleva dire niente di buono.

    «Eh già, già, già. Vedi, caro Salim, il problema è uno solo. E tu ti chiederai quale possa essere questo problema. Te lo dirò io; il problema è che tu sei un cane maledetto!» A quelle parole, come ad un segnale convenuto, tutti coloro che lo poterono fare se la diedero a gambe. In altre parole, nella sala operativa, non rimasero che loro due. Salim si preparò a quello che sarebbe seguito con santa rassegnazione, unicamente forte della certezza che, anche quella volta, la procella sarebbe ad un certo punto finita. Abou Farid proseguì con la voce che, ad ogni parola, aumentava di un tono:

    «Non me ne frega niente di quello che ti dicono. Quando ti faccio domande voglio che tu mi riferisca quello che tu » e gli piantò il dito nel petto che parve un punteruolo, «hai visto con i tuoi sudici e stupidi occhi. Hai capito ora?» Per sottolineare l’urgenza della domanda scaraventò il pugno sul tavolo.

    Produsse un rombo spaventoso, squassò le porte, mandò in frantumi i vetri ed aprì il soffitto che si fendette come un foglio di carta prima di precipitare sul tavolo sotto il quale il prudente Salim si era rapidamente rifugiato. Le mura si sgretolarono risparmiando miracolosamente Abou Farid che rimase immobile a guardare attonito il cielo circondato da una distesa di rovine. Tentò di raggiungere l’uscita ma cadde rovinosamente a causa dei sobbalzi del pavimento. Fu così che si trovò rannicchiato sotto il tavolo stretto a Salim che pregava ululando come un cane del deserto. Vide che la faccia di Salim era ridotta una maschera di terra su cui si facevano strada due lunghi rivoli di incontrollabili lacrime. Rivolse il pensiero a Dio. Se quella doveva essere la sua ora, avrebbe ben saputo accoglierla con dignità. Aveva sempre pensato che si può anche non saper vivere ma è assolutamente necessario saper almeno morire.

    Il rovinoso terremoto aveva buttato completamente a terra le fragili strutture organizzative statali del Marocco. Il giovane re aveva da qualche tempo deciso una coraggiosa politica di riforme e riorganizzazione ma il processo, appena avviato, si era subito presentato di ardua soluzione. Il disastro avrebbe certo reso ogni cosa più difficile. Il numero delle vittime saliva ogni giorno ed i crolli continuavano, provocati dalle scosse di assestamento che si abbattevano sulla povera popolazione come le scudisciato sulla schiena del condannato. La solidarietà internazionale non aveva lesinato interventi così che, anche se nel dolore e nella rovina totale, il povero paese tentava di resistere allo sconforto e di conservare un barlume di ordine ed efficienza organizzativa. Ogni elemento dello stato cercava di fare la sua parte pur ricadendo, ovviamente, il maggior impegno sulle Forze Armate che avevano messo a disposizione dell’emergenza la totalità delle sue forze.

    Tutta l’area colpita dal sisma era stata immediatamente invasa da un nugolo di giornalisti, provenienti da tutto il mondo, alla ricerca di immagini ed aneddoti raccapriccianti da propinare ai propri lettori in modo che la massaia frustrata del Minnesota potesse spremere una lacrimuccia sul cammello di peluche che faceva capolino dalle macerie e il di lei marito sbevazzone potesse esibirsi in qualche sagace considerazione tipo il fatto è che sono case tenute insieme con la merda mentre in cuor suo aggiungeva poco male, sono tutti terroristi in meno .

    L’area di Essaouira, in particolare, quella più martoriata dalle scosse che continuavano senza sosta, brulicava anche di inviati dei maggiori network televisivi che avevano realizzato in un batter d’occhio ponti radio via satellite. Non potevano perdersi, in tempo reale, ogni eventuale ritrovamento strappalacrime.

    Il giorno successivo al sisma, in tarda mattina, quanto restava dei bastioni delle antiche mura era invaso da giornalisti richiamati dalle indiscrezioni che davano per certo l’imminente ritrovamento di corpi sotto i muri crollati di un alberghetto frequentato, per lo più, da giovani turisti europei ed americani che erano convenuti ad Essaouira richiamati dal concerto di una Star della musica rock egiziana che si sarebbe dovuta esibire proprio la sera del finimondo.

    Alfred Franklin Lo Cascio, per gli amici Freddy, inviato del Globe di Minneapolis, sentiva che quella era la sua grande occasione. Sarebbe stato lui a scattare le foto più raccapriccianti e a trovare le notizie più sconvolgenti. Dopo lunghi anni passati a tirare la carretta nella sua mesta città, aveva, per la prima volta, ricevuto la grazia di essere scelto come inviato sul luogo di un disastro di risonanza mondiale. Ad essere sinceri, non erano state le sue qualità professionali a suggerire al Grande Capo l’idea di mandare proprio lui. Aveva tratto vantaggio da un insieme di concause favorevoli, ancorché marginali, vale a dire la totale indisponibilità degli inviati titolari. Il primo giaceva in un letto di dolore con un femore rotto, fortunato effetto del calcio di un cavallo scontroso e poco incline alla socializzazione; il secondo, denunciato dalla moglie per ingiurie e percosse, era libero su cauzione e a disposizione dell’autorità giudiziaria, senz’altro calunnie, ovviamente, ma tant’è; il terzo, il suo amico Billy Joe Wilson, in preda ad un maligno attacco di orchite di non meglio specificata provenienza, non riusciva, almeno per il momento, a camminare altro che con un lento incedere claudicante a gambe larghe accompagnato da un continuo lamento. Fortunatamente era riuscito a convincere sua moglie che quello era un malanno che si prendeva come il raffreddore.

    Ecco perché il grande Capo lo aveva fatto chiamare e con voce tonante gli aveva detto:

    «Freddy, questa volta mando te. C’è proprio bisogno di un professionista della tua razza. Fatti valere.» Poi, mentre Freddy se ne stava andando commosso e grato, aveva abbaiato:

    «Ovviamente se mi combini qualche cazzata ti prendo a calci in culo e ti butto in mezzo alla strada.» Il suo capo aveva sempre voglia di scherzare.

    Fu così che quella mattina anche lui era corso sul luogo dell’imminente annunciato ritrovamento. Mentre tutti si spintonavano per essere i primi, lui, relegato al margine della calca e rassegnato ad essere l’ultimo, voltò le spalle alle rovine e rivolse il suo sguardo verso il mare. La bufera era ormai finita ma la maestosa onda morta dell’oceano continuava a fracassare la costa con spallate poderose che facevano fremere quanto restava dei bastioni. La sua attenzione fu attratta da un nugolo di gabbiani che volteggiava intorno a qualcosa che galleggiava a pelo d’acqua. Volavano in circolo riempiendo il cielo con i loro richiami poi, apparentemente a turno, scendevano in picchiata, strappavano qualcosa con il becco e subito tornavano in cielo, come sospinti e sollecitati dai sopraggiungenti. Guardò più attentamente e, quando il relitto fu colpito da un nuovo maroso che lo fece ruotare su un lato, gli parve di vedere emergere un braccio che tracciò nell'aria un semicerchio fino a scomparire nuovamente sott'acqua.

    Il cuore gli balzò nel petto. Controllò la massa dei giornalisti urlanti per accertarsi che nessuno avesse lo sguardo rivolto al mare ed incominciò a scattare fotografie grato al destino che, finalmente, gli avrebbe regalato lo spazio che aveva sempre meritato e di cui non aveva mai goduto.

    Il destino, però, aveva altri piani. Infatti il primo avvistamento della mensa dei gabbiani era avvenuto alle prime luci dell’alba quando una sentinella della marina, posta a sorveglianza delle rovine, si era accorta dell’oggetto alla deriva. Aveva provveduto a segnalare il fatto al Comando della Capitaneria.

    Il Comandante Abou Farid, dopo una notte insonne passata a tentare di riorganizzare il suo Comando, un tempo suo orgoglio e motivo di vita ed ora ridotto a macerie e rovine, era finalmente riuscito a mettersi in contatto con la sua famiglia. Dio aveva voluto risparmiargli altri dolori. Aveva così stabilito che tutti si trasferissero presso un fratello del nonno, che abitava in un paesino dell’interno, la cui casa non aveva sofferto danni ed aveva aggiunto:

    «Ora dimenticatevi di me. Non lascerò la base fino a che non avrò ritrovato tutti i miei uomini che ancora mancano.» E pensava a Salim che ancora non era emerso dal cumulo di detriti. Quando gli arrivò la comunicazione dell’avvistamento di quello che sembrava un corpo al largo dei bastioni, chiamò Abdul e gli disse:

    «Dobbiamo uscire in mare. Prima che tu apra bocca ti chiarisco che non ho chiesto se possiamo uscire in mare ma ho ordinato di preparare la vedetta per il mare. Fra trenta minuti voglio mollare gli ormeggi. Partiremo con gli uomini disponibili. Lasceremo solo due marinai che continueranno le ricerche dei dispersi. Dovrebbero anche arrivare le ruspe e bisogna fornire loro le indicazioni su dove debbano condurre le ricerche. »

    Fu così che quando Freddy stava assaporando la sua esclusiva, la vedetta Al Qamar doppiò il capo e rollando da far paura iniziò l’avvicinamento a quel nugolo di gabbiani. Subito gli altri giornalisti si resero conto che, per il momento, the action era alle loro spalle e puntarono i famelici obbiettivi verso la vedetta.

    Abou Farid scostò bruscamente il timoniere, prese il suo posto e condusse un lento e circospetto avvicinamento. I gabbiani si alzarono in volo e rimasero a volteggiare intorno, palesemente disturbati dal fatto che si venisse a turbare il loro pasto. La vedetta si fermò sopravvento al relitto, traversata al vento, in modo che la sua spinta la facesse scarrocciare mantenendola a contatto dell’oggetto del desiderio dei gabbiani. Non capì di cosa si potesse trattare. Pareva una statua di circa due metri di altezza di fattezze vagamente umane anche se l’azione del mare e dei gabbiani doveva aver provocato danni gravi e tali da rendere difficile l’identificazione. Con una gaffa tennero l’oggetto vicino alla fiancata. A fatica riuscirono ad imbragarla e la issarono a bordo con la gruetta di poppa. La stesero in coperta. Abou Farid dispose che fosse coperta con un telo e fece lentamente rotta verso il porto.

    I giornalisti avevano i crampi alle dita per le fotografie scattate. Le televisioni satellitari avevano ripreso tutte le fasi del ricupero in un continuo vociare di esclamazioni e domande.

    «Ma che cazzo è quella roba? Un cadavere, certo un cadavere.»

    «Bravo tu, coglione. Ma di cosa? Un asino forse?»

    «Sì, certo. Un asino con le braccia. Proprio come te.»

    Relegato in un angolo, Freddy, inascoltato, ripeteva:

    «L’ho visto prima io. L’ho visto prima io. E’ mio, l’ho visto prima io.»

    Il vecchio gabbiano fu l’ultimo a lasciare l’oggetto galleggiante. Si alzò in volo disegnando lente volute nel cielo terso continuando ad osservare con occhio mesto il suo tesoro che si allontanava, Quando la vedetta doppiò il frangiflutti e scomparve alla sua vista, si alzò in alto, sempre più in alto, fino a scomparire nel bagliore del sole.

    Abou Farid riuscì ad ormeggiare al Qamar non senza difficoltà. La risacca era ancora molto forte e i cavi di ormeggio si tendevano come corde di violino. Come Dio volle riuscirono infine a passare a terra la passerella. Abou Farid rimase a bordo da solo. Andò in coperta e si sedette vicino all'oggetto ancora coperto. Sciolse i legacci e lo scoprì lentamente.

    Non aveva mai visto niente di simile. Non fu la sua figura deforme e, per tanti aspetti ripugnante, a colpirlo. In altre occasioni aveva visto pesci di orrido aspetto, in modo particolare quando emergevano dall'abisso dopo una esercitazione con le bombe di profondità al largo di Brest. Quello che lo colpì fu quel che di umano che traspariva dall'insieme, senza sapere esattamente se fosse nelle lunghe braccia o nelle gambe corte e muscolose, ripiegate sotto il corpo, con grandi ginocchia prominenti, o nel cranio lungo e appuntito da cui le orbite vuote sembravano guardarlo con un muto rimprovero. Tastò la consistenza di quello che sembrava essere il petto. Era duro e secco come uno stoccafisso e color del cuoio, appena ammorbidito dalla lunga immersione nel mare. Di questo ammorbidimento avevano abbondantemente approfittato i gabbiani ed i pesci della scogliera.

    Coprì quel corpo misterioso e mise una sentinella di guardia affinché qualche curioso non approfittasse della confusione per andare a sbirciare sotto il telo.

    Andò nella saletta di fortuna adibita a comando e chiese di essere messo in comunicazione con il Museo di Storia naturale di Rabat. Non sapeva che significato dare a quello straordinario ritrovamento. Pensò a lungo e poi decise che era senz'altro un altro segno di sventura di quei giorni maledetti.

    Vennero a chiamarlo. Era stato trovato Salim. Uscì di slancio e corse verso il luogo dove un tempo si trovava la sala operativa. Inciampò nei cumuli di detriti che crollavano sotto il suo peso rendendo difficile il passo. Poi vide il gruppetto dei suoi uomini, ritti, a capo chino, intorno ed una piccola ruspa che aveva effettuato lo scavo. Si scostarono per farlo passare. Dalle macerie emergeva Salim con tutto il petto, le gambe ancora strette nella morsa delle pietre, le mani sul cuore, la testa piegata all'indietro, il volto coperto di polvere, le guance ancora rigate dalle ultime lacrime. Si inginocchiò vicino a lui e rimase ad osservare quel volto che, la fronte aggrottata, ora lo fissava con occhi senza vita, sbarrati, attoniti, mesti. L’espressione di quel volto gli fece provare un grande smarrimento. Aveva appena visto un’espressione simile su un volto nascosto da un telo, sulla coperta di Al Qamar ancora bagnata dalle onde del mare. Stese la mano tremante e gli chiuse gli occhi.

    Rabat era stata risparmiata dal sisma. Il Direttore del museo, Professor Abdallah Abou Farad Al Qassim, era impegnato nell'organizzazione di un piccolo gruppo di tecnici che sarebbero partiti il giorno dopo per Essaouira, per verificare sul posto i danni subiti dagli edifici di valore artistico. Ricevette la telefonata di Abou Farid nel suo ufficio che brulicava dei suoi collaboratori e dei componenti della missione per Essaouira. Menò un fendente sul tavolo per far cessare il baccano e le voci che si incrociavano senza alcun ritegno. Tutti ammutolirono. Ascoltò in silenzio.

    «Bene. Arrivo domani.» Terminò la conversazione e rimase in silenzio, pensoso. Tutti lo guardarono stupiti, senza osar avanzare una domanda diretta.

    «E allora? Cos'è quell'aria da pesci morti? Pensavate di andare a perder tempo ad Essaouira lontano dai miei vigili occhi, non è vero? Ebbene vi siete sbagliati di grosso. Domani verrò anch'io e posso assicurarvi che non sarà una gita di piacere. Per nessuno.»

    La notte era calda e umida. L’assenza di energia elettrica riempiva l’aria del brusio continuo dei generatori. L’oscurità era tinta da riflessi rossastri. Erano i fuochi che la povera gente aveva acceso per illuminare i rifugi di fortuna dove avevano cercato un riparo, anche se precario e provvisorio. Di cucinare, non se ne parlava proprio. E cosa avrebbero mai potuto cucinare? Per fortuna erano arrivate migliaia di razioni di emergenza dell’amico americano. Poco importa che, sul retro di ogni scatola fossero stampate date che spaziavano dal 1945 al 1951. Voleva soltanto dire che si trattava di generi di qualità superiore e poi, era il pensiero che contava, non è forse vero?

    I resti della Base della Capitaneria erano immersi nell'oscurità. L’unica luce che appariva nella nube di polvere era quella che illuminava le ruspe il cui lavoro non pareva interrompersi mai. Verso il mare, oltre il molo ora deserto, brillavano le deboli luci di Al Qamar che danzavano tristemente. Sulla poppa, si intravvedeva il rosso della brace di una sigaretta che la sentinella si stava fumando di nascosto.

    Si udì un sommesso richiamo. La sentinella si alzò di scatto, buttò il mozzicone in mare e si rivolse verso l’oscurità al di là della banchina.

    «’Ali, ‘Ali, sei tu?» Dalla oscurità giunse un sussurro:

    «Si, si. Sono io.»

    «C’e anche lui?»

    «Si. C’è anche lui. Dimmi quando possiamo venire.» La sentinella si aggrappò alla passerella che era stata tirata a bordo e la fece scorrere verso poppa fino a che arrivò ad appoggiarsi sulla banchina.

    «Ora!» Due furtive ombre scivolarono fuori dall’oscurità e salirono a bordo.

    Freddy se ne stava in disparte sotto la tenda adibita a luogo di ritrovo per i giornalisti. Non intendeva partecipare alle discussioni sull’oggetto misterioso ripescato quella mattina. Si sentiva derubato. Quello avrebbe dovuto essere il suo scoop ed invece era finito in pasto a quei cani affamati. Non partecipava alle discussioni ma ascoltava. Aveva così appreso che le immagini, fino a quel momento inviate via satellite, non erano servite a chiarire nulla. Tutto quello che si intravvedeva era uno scheletrico braccio di colore rossastro. La Capitaneria, poi, aveva coperto tutto con un impenetrabile riserbo e non vi era stato alcun modo di convincere il Comando a permettere neppure una fotografia.

    I responsabili delle varie testate continuavano a riempire d’improperi gli inviati, dopo aver chiaramente indicato loro il luogo dove il materiale fino ad allora mandato dovesse essere accuratamente riposto. Il Capo di Freddy era parso particolarmente determinato e preciso. Dopo aver anch’egli specificatamente individuato il luogo, aveva aggiunto:

    «Brutto coglione, fottuto scansa fatica, pensi che ti abbia mandato in Marocco per fare i bagni? Se non ti dai una mossa puoi prenotarti, già da subito, un posto letto tra i mendicanti che dormono sotto i cartoni alla stazione. Mi sono spiegato?» Il suo Capo era sempre chiaro e diretto nelle sue considerazioni. Non voleva mai lasciare nell’incertezza i fedeli collaboratori.

    Tracannò una birra tiepida. Sussultò sentendosi battere sulla spalla. Si voltò. Un uomo lo stava guardando. Gli fece cenno di seguirlo. Freddy accartocciò il bicchiere di plastica e, nel dubbio, lo seguì. Uscirono nella notte e girarono intorno alla tenda. Si fermarono nella penombra.

    «Che cosa vuoi da me? Non voglio droga e le puttane sono tutte malate.» L’uomo scosse il capo e sussurrò:

    «Non volevo disturbarti. Avevo pensato che tu fossi interessato a quello che è stato trovato in mare. Se non ti interessa non importa. Troverò qualcun altro.» Fece per andarsene. Freddy, cui un vivido lampo aveva rischiarato la mente, gli si attaccò al braccio:

    «No, no, che dici. Non intendevo offerti. Certo che sono interessato. Bakshis, capito? Bakshis.» Per l’occasione aveva anche spolverato le sue vaste conoscenze delle lingue orientali, per ora limitate a quella parola sicuramente pronunciata male, ma senz’altro suscettibili di ulteriori sviluppi. L’uomo si fermò come controvoglia.

    «Bene. Se ti interessa e se puoi pagare posso farti fare tutte le fotografie che vuoi a quella cosa. Decidi subito o me ne vado.» E gli chiese una cifra spropositata.

    Freddy fece un rapido calcolo mentale. Non aveva tempo di consultarsi con il suo capo e la cifra richiesta era esattamente tutto il denaro che aveva portato con sé. Sarebbe rimasto con zero dollari. Ma se Dio si fosse messo una mano sulla coscienza, di dollari in poco tempo ne avrebbe avuti, e come! Aveva deciso. Avrebbe fatto il salto mortale senza rete.

    «Accetto. Quando vuoi.» L’uomo assentì con un largo sorriso:

    «Aspettami alle tre, questa notte, dietro la tenda dei giornalisti. Porta i soldi.» E sparì nell'oscurità. Freddy rimase un attimo immobile, come attonito, la testa piena di stelle. Poi si affrettò verso l’albergo. Doveva ricuperare tutti i suoi dollari senza perdere un minuto. Si sarebbe fatto trovare pronto all'appuntamento.

    Quando Freddy e la sua guida ebbero salito la passerella, la sentinella fece loro segno di tacere e li guidò in coperta. Il movimento della vedetta gli fece subito venire la nausea. Decise che, quella volta, non avrebbe permesso alla sua naupatia cronica di mettergli i bastoni tra le ruote. Davanti a lui, nascosto sotto un telo biancastro, c’era tutto il suo futuro. Le rivincite di una vita.

    La sentinella alzò il telo e lo tenne teso tra loro e la banchina in modo da nasconderli agli occhi di chi potesse guardare nella loro direzione. Freddy neppure vide cosa fosse quell'oggetto che avevano svelato. Tutto quello che fece fu di scattare fotografie. Le scattò in serie, senza sosta, da destra a sinistra, da sinistra a destra, dall'alto in basso e dal basso in alto. Si fermò solo quando la memoria della sua macchina gli comunicò che aveva esaurito le millecinquecento foto disponibili. Si sentiva stravolto e completamente sballato. Quello era stato certo l’orgasmo della sua vita.

    La sentinella gli fece cenno che era ora di andare. Si voltò e si diresse verso la passerella con la sua guida. Non degnò neppure di uno sguardo quello che era stato l’oggetto del suo desiderio. Già si vedeva alla premiazione del Premio Pulitzer. Non aveva tempo da perdere in cazzate.

    L’esimio Professor Abdallah Abou Farad Al Qassim non poteva credere ai suoi occhi.

    Il viaggio da Rabat non era stato certo agevole. Non parliamo poi dell’albergo di Essaouira. Ma poteva poi essere veramente chiamato Albergo? Va bene il terremoto ma per un’autorità mondiale come lui una soluzione si sarebbe certo dovuta trovare. E poi, la supponenza di quello zotico militare! Non aveva mai potuto sopportare i militari. Un uomo della sua cultura non poteva perdere il suo tempo con chi del randello aveva, nei secoli, fatto la sua guida e il suo vincastro. Ora però davanti a quella meraviglia del creato aveva dimenticato i disagi sofferti, la guida e il vincastro.

    Non sapeva che cosa fosse. Era certo un fossile che proveniva dalla notte dei tempi. Ci avrebbe pensato poi con calma, quando, a Rabat, avrebbe passato su di lui ogni attimo del suo tempo fino a che il velo si fosse squarciato e il suo, già molto caro, reperto si fosse manifestato nella sua identità e nella sua provenienza. Ora era assolutamente necessario ed urgente pensare alla sua conservazione. Guardò con malcelato disgusto il Comandante:

    «Il reperto deve immediatamente essere conservato in un frigorifero. Intanto provvederò a far venire da Rabat un furgone refrigerato per il trasporto:

    «Il Professore avrà certo notato che in zona si è scatenato un violento sisma. Temo che non sarà possibile reperire un frigorifero di idonee dimensioni. In aggiunta a ciò c’è un secondo elemento da considerare.»

    «E quale sarebbe di grazia?» Abu Farid scosse il capo sconfortato:

    «Energia elettrica.» il Professore

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1