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Le ragioni dell'altra
Le ragioni dell'altra
Le ragioni dell'altra
E-book325 pagine4 ore

Le ragioni dell'altra

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Info su questo ebook

"Le ragioni dell'altra", un'opera di Riccardo Rossi
LinguaItaliano
Data di uscita14 ago 2023
ISBN9791221414837
Le ragioni dell'altra

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    Anteprima del libro

    Le ragioni dell'altra - Riccardo Rossi

    Capitolo 1

    Non c'è nulla nella realtà che sia distinguibile dal sogno

    e non c'è cosa nei sogni che non sia gemella della realtà.

    Il commissario Diego Nardini cercava una posizione con cura, poi, senza mai accontentarsi del risultato, si muoveva cercando una posizione più adatta, una sfumatura, un colore fino ad allora inesplorato. Ma era tutto inutile.

    Avvolto dal buio più deciso cercava di ricostruire ogni dettaglio della stanza, con uno zelo tale che ogni nuovo particolare sembrava illuminarsi di luce propria, staccandosi dall'oscurità per evidenziarsi. Nella sua mente ogni misura diventava dapprima probabile, poi certa, mano a mano che le approssimazioni successive correggevano i dettagli e gli angoli tra le linee degli oggetti. La stanza, infine, si disegnò con una precisione tale da apparire simile a un'immagine fotografica, un ologramma che, era convinto, si sovrapponeva perfettamente alla realtà, senza errori.

    Per provare a se stesso la propria capacità di ricostruire una scena si alzò e cominciò a percorrere a piedi nudi qualche passo nel buio, assaporando la sensazione del tappeto, poi quella più fresca del parquet, proprio là, dove se lo sarebbe aspettato.

    Il contatto improvviso e inatteso tra una delle dita dei piedi e lo spigolo del comò, che solo delle forze sovrannaturali potevano aver trasposto, fece esplodere in mille pezzi e senza alcun rumore, la ricostruzione mentale. Anzi, al posto della deflagrazione tuonò il dolore solido e feroce che, in un tempo infinitesimale, si era già reso insopportabile.

    Moby, la cagnetta della padrona di casa, che aveva deciso, in autonomia, di dormire accanto a lui, alzò la testa e aprì gli occhi in fretta, come fosse in grado di scrutare nel buio, valutò la situazione in un attimo, poi riappoggiò il muso sulle zampe anteriori, ben conscia che non c'erano pericoli né per il suo amico né per se stessa, e ritornò a sonnecchiare.

    Il commissario trascorse i secondi successivi componendo frasi che sarebbero considerate blasfeme dalle religioni più importanti della terra, ma si limitò a trattenerle nella mente, archiviandole, senza bisogno di pronunciarle, nella stanza delle cose utili per un futuro possibile.

    Una volta ristabilita la pace, accettò la presenza dell'insonnia che lo accompagnava come un'amica del cuore e si decise di servirsi della luce rivelatrice dell'elettricità. Cercò a tastoni il letto, poi raggiunse il comodino, quindi l'interruttore. La lampadina brillò sospendendo il sogno, ridisegnò di realtà la stanza e corresse inesorabile ogni dubbio residuo del suo disegno.

    Diego si spostò con uno scatto verso la finestra, sollevò le tapparelle e si accorse che una debole luminosità poteva sostituire il chiarore bruciante della lampadina. Tornò verso il comodino, spense la luce e attese che gli occhi si abituassero all'eterogeneo miscuglio di lune, stelle e lampade al sodio altrettanto lontane.

    Il disegno dell'intorno apparve diverso; come se la stanza, d'un tratto, avesse recuperato colori e dimensioni inattese. Anche il silenzio gli sembrò differente, come se l'apertura del confine tra la camera e il resto dell'universo avesse sciolto un legame, attivando una connessione dove transitavano rapidi messaggi prima inascoltati.

    Recuperò la poltrona, la cui presenza era tradita dal riverbero luminoso che si era impadronito anche dell'angolo in cui era nascosta, la spostò vicino alla finestra, socchiuse le ante a vetri e si accomodò, cercando di limitare il più possibile il rumore del suo stesso respiro e tentando di presentire qualcosa di quei messaggi criptati che lo stavano attraversando.

    Cominciò a muovere lo sguardo cercando un punto dove focalizzare l’attenzione, ma il buio era ancora dominante. Il solo chiarore delle stelle non era sufficiente per disegnare qualcosa, e quello delle luci stradali, così giallo e irreale, sembrava voler confondere piuttosto che evidenziare. Così la mente si limitò allora a immaginare, ricercando particolari che al momento gli erano negati. Ricordò, e ridipinse a modo suo, il fabbricato dell’autorimessa e la vernice del portone, con il legno appassito e bisognoso di cure. Poco più in là la pianta grassa, un’agave di più di vent’anni, attendeva il sole ristoratore e frattanto sognava il deserto racchiuso nel suo patrimonio genetico. La ghiaia, tondeggiante, sparsa sul cortile, sembrava sussurrare al passaggio di qualcuno, qualcosa di più impreciso iniziava a manifestarsi.

    Giunse un sussurro, come una cantilena, il gioco di una bimba. Ma lontano, troppo. Stava quasi per respingere l’aggancio con quel mondo impossibile, giudicandolo irrilevante, insipido, poi ricordò che: nulla può mai essere irrilevante, ma è sempre necessaria una prova che avvalori l'ipotesi, l'indizio. Così decise di seguire quella traccia. Puntò lo sguardo nella direzione da cui sembrava provenire il suono cercando di spingere lontano il senso dell’udito. Era il suo inviato speciale, un infiltrato con una missione semplice ma importante: raccogliere informazioni.

    Per concentrarsi meglio socchiuse gli occhi e non si accorse nemmeno che il viaggio era già iniziato.

    ***

    Lui chiuse come poté le ante della finestra, cercando di porre tra sé e il gelo un ostacolo qualsiasi. L'inverno però, ricco di un'esperienza antica, sapeva come penetrare le sue difese e sfruttò ogni fessura, ogni spiraglio, tra i vetri non più integri, per riuscire a raggiungerlo. Così decise di abbandonare la sua piccola battaglia e lasciare campo libero al nemico. Sciolse il sacco a pelo sul pavimento che poco prima aveva accuratamente sgombrato dalla polvere, dai calcinacci e dalle tracce residue dei topi. Vi si infilò con grazia, immaginando quella stanza dentro una nuova luce, poi socchiuse gli occhi e lasciò che il sogno disegnasse il resto.

    Mio padre era così. Un sognatore caparbio, dotato della capacità di imparare cose e costruire idee che nessuno, nel mondo che aveva appena abbandonato, gli aveva insegnato. Era predestinato a una vita diversa: futuro direttore dell'azienda di famiglia. Un lavoro a lui adeguato, una vita intensa e rispettabile, non certo intrisa di avventure, come quella che si apprestava a percorrere.

    La scelta, difficile, ma per lui necessaria, aveva frantumato qualsiasi rapporto con la famiglia e mentre il nonno tentava di dimenticare il suo nome e il suo volto, la nonna, in silenzio, evocava spiriti buoni e cercava rimedi che solo nei suoi mondi onirici riscuotevano il successo desiderato.

    Allevato in ambienti nobili, ma anche a stretto contatto con la saggezza della gente semplice, aveva imparato ad imparare, a non sottovalutare le proprie capacità e a riflettere sempre prima di cercare di portare a compimento un progetto. Per iniziare una nuova vita, aveva scelto un'abitazione posta in un angolo sperduto della regione, vicina al bosco e già lontana dal paese. Un luogo quasi abbandonato anche dai ricordi degli uomini.

    Iniziò il suo nuovo percorso ripulendo con cura tutta la casa e solo alla fine di quel primo contatto si accorse di quanto lei avesse bisogno del suo aiuto per sopravvivere. Si accucciò sul pavimento della stanza e cominciò a guardarla con occhi più razionali, studiando ogni angolo e riflettendo sulle molte rughe che la facevano apparire una signora anziana che sembrava non aver mai conosciuto una gioventù spensierata. Si rese conto fino in fondo di quanto lavoro sarebbe stato necessario, solo quando ebbe rivisitato tutte le stanze. Uscì, passeggiò attorno all'edificio e lo guardò da lontano, per riuscire a coglierne ogni minimo dettaglio.

    Studiò il tetto e le travi sporgenti, i marciapiedi e i muri, l'intonaco scrostato e a tratti ammuffito, il rubinetto dell'acqua, i fili della corrente elettrica, la canna fumaria e il camino, immaginandone un fumo sincero salire verso il cielo. Entrò di nuovo, si avvicinò al caminetto e provò ad accendere un pezzo di carta, cercando di trasmettere il fuoco a qualche bastoncino accatastato. Il fumo però si rifiutò di prendere la strada a lui assegnata e, spinto da forze giocose e invisibili, esplorò invece curioso la stanza, cercando nuove strade per raggiungere il cielo.

    Sconfitto, mio padre uscì tossendo e si sedette fuori su di un sasso. Guardando lontano, prese nota con la mente di ogni cosa accaduta per disegnare una fiaba che, un giorno, mi avrebbe raccontato. Non c'erano donne nella sua vita, ma lui ne attendeva paziente l'arrivo del quale, nell'intimo, era certo.

    Così, nell'attesa che qualcuna giungesse ad accompagnare i suoi passi, cominciò a riparare le ferite della casa con i pochi e semplici attrezzi che aveva trovato in un deposito. Poi, essendo necessari materiali e mezzi più consistenti, si decise ad andare in paese, per cercare un lavoro da cui trarre le risorse necessarie per continuare le riparazioni.

    A San Volfango, una delle frazioni più piccole del Comune, c'era una falegnameria. Il capannone era posto sul fianco della montagna, lungo la strada principale. Di fronte si trovava la vecchia casa con il bar al piano terra. Sia il bar che la falegnameria erano gestiti dalla stessa famiglia. L'attività artigianale era sufficiente per il fabbisogno di tutto il Comune e oltre. L'azienda era condotta da Mario, figlio di Giuseppe, da lui ereditata per tradizione ed era la fonte del sostentamento principale. Il bar, invece, era un'attività secondaria, quasi una velleità, ora che la gente se ne stava andando via da quel luogo così bello e selvaggio. Il falegname, un uomo magro, ma forte e deciso e soprattutto di poche parole, si accorse di lui senza quasi averlo visto. L'atto di individuare l'arrivo di un cliente della falegnameria o del bar e immaginarne da subito le esigenze, faceva parte della sua sensibilità. Poteva essere qualcuno del luogo e allora poteva desiderare qualche manufatto in legno o una riparazione. Oppure qualcuno da fuori, in quel caso magari voleva solo qualcosa da bere e non aveva trovato nessuno al bar. Allora gli avrebbe proposto un caffè fatto con la moka perché la macchina grande, quella per i caffè espresso, era spenta, come al solito. Non valeva la pena tenerla accesa tutto il giorno per due o tre caffè. Oppure poteva essere qualcuno in cerca solo di un buon bicchiere di vino. Mario l’avrebbe indovinato solo dalla prima occhiata, tanta era l'esperienza. Ma quella volta, non sarebbe stato così facile. L'uomo, curato, dall'aria aristocratica, ma in abiti trasandati da lavoro, aveva un aspetto insolito. Non riusciva a collocarlo in una landa conosciuta e questo lo incuriosì. Non troppo però. La timidezza e la riservatezza, che gli erano proprie, non gli permettevano di azzardarsi ad approfondire. All'occhiata investigativa seguì quindi una voluta indifferenza e proseguì a lavorare quasi ignorandolo.

    - Salve - esordì quindi l'ospite dalla porta aperta della falegnameria

    - ho bisogno di lavorare e non chiedo molto, hai qualcosa da darmi da fare?

    - Cosa sai fare? - chiese senza preamboli il falegname, senza fermarsi dal levigare un pezzo di legno che sembrava dover completare una finestra appoggiata sul bancone.

    - Un po' di tutto, ma non ho molta esperienza.

    - Chi dice che sa fare un po' di tutto dice che non sa fare niente. E chi dice che non ha esperienza dice che non ha mai lavorato. - sbottò il falegname sempre seguitando a darsi da fare - Sei sicuro che vuoi lavorare e che non chiedi molto? Io non posso assumere nessuno, ma se vuoi darmi una mano, qualche ora ogni tanto, per me va bene. Dove abiti?

    - Ho comprato una casa nel bosco, sopra Crai, devo rimetterla in ordine.

    - Quella dei Trusgnach?

    - Si, credo di si...

    - Ce ne hai di lavoro allora. Bon, dammi una mano che tagliamo quella tavola laggiù. Hai sentito gli spari ieri l'altro?

    - Si, li ho sentiti, ho pensato che fossero bracconieri....

    - Di bracconieri qui ce ne sono, ma di solito non si fanno sentire. Quelli erano gli uomini di Tito, militari. C'è spesso qualcuno che circola sul confine e a loro non va molto a genio. Un'altra cosa. - proseguì il falegname - Immagino che avrai fame. Finito il lavoro vieni a cena da me così discutiamo un po'. Dovrai imparare anche a usare la motosega se vuoi lavorare. Ma magari prima vorrai farti una doccia, puoi usare quella del capannone se vuoi...

    Capitolo 2

    L'acqua è in ogni dove, perfino nei pensieri.

    L'acqua scendeva calda e rassicurante, accarezzava prima i capelli, poi scendeva solleticandogli il viso, infine percorreva il corpo con la delicatezza delle mani di un'amante, ma con una certa distanza professionale, come se l'approccio sessuale non fosse di sua competenza.

    «Ho sete», pensò Diego. «Probabilmente dovrei asciugarmi e andare a prendere un bicchiere d’acqua. Ma non ho ancora voglia di smettere.» Seguitò quindi, con un attacco di pigrizia, a gustarsi il morbido abbraccio della doccia calda.

    Alla fine si decise a chiudere il rubinetto e a fare qualche passo in direzione della finestra. Gli scuri erano ancora aperti. Se li era dimenticati, come al solito. Se fosse stata una mattina come tante altre, aprendoli, il sole del mattino gli avrebbe trafitto gli occhi risvegliandolo in fretta e negandogli quei pochi attimi di tranquillità in più che avrebbe desiderato. Attimi che, in una giornata come quella, avrebbero potuto racchiudere anche un sogno. «Già, un sogno - disse fra sé e sé - I sogni a volte si fanno e si dimenticano senza ragione. Meccanicamente… Chissà se anche le macchine evolute pensano, sognano…»

    Senza un motivo apparente, i pensieri tornarono verso la notte. Cercò di recuperare qualcosa che gli sembrava sfuggire come sabbia tra le dita. Guardò il cielo e notò che qualcosa mancava.

    «Notte senza luna - concluse - Nelle notti senza l’una - rifletteva - l’orologio passa direttamente dalla mezzanotte alle due e un’ora si perde. Chissà dove va a finire. Se qualcuno riuscisse a trovare tutte le ore perse potrebbe farsi un’intera vita di tempo perso.»

    Stava per decidere che non potevano esistere persone con una vita perduta, poi si ricordò dei perdigiorno, i quali, per definizione, dovevano perdere l’intera giornata per mantenere vera tale definizione.

    Quindi le ore smarrite esistono e qualcuno riesce perfino a trovarle e a utilizzarle in modo proficuo. Per perdere un’intera vita appunto.

    «Groucho penserebbe proprio in questo modo - si disse - inoltre non si limiterebbe a pensarlo come faccio io, ma finirebbe con l’esplicitarlo a tutti con un tono sontuoso, come se stesse esprimendo grandi parole di saggezza. Non come me, che mi limito a utilizzare queste follie per fuggire dalla pazzia che mi sta inseguendo. Come dire: combatti il nemico con le sue stesse armi. Pazzia contro pazzia. E Groucho in questo è un maestro.»

    Groucho era un agente della sua squadra. Una persona, a vederla, semplice, composta, in apparenza simile a tanti altri piedipiatti presenti sul mercato. Sguardo attento, per non sembrare perso, portamento rigido, vestiario scontato. Nel senso che derivava da diversi magazzini in saldo. Lo stipendio da bobby italiano, infatti, non è proprio quello che ti permette di vivere in una casa tua, con una famiglia, un cane, una macchina decente per i viaggi e per la città e un hobby da coltivare.

    Così Giuseppe Spangaro, in arte Groucho, aveva solo la casa, naturalmente in affitto, visto che quella di Ampezzo dove era nato e vissuto per molto tempo, non si poteva spostare e anche se si fosse potuto, non avrebbe avuto a disposizione il terreno per appoggiarla, così come diceva lui.

    Riguardo alla famiglia, diceva che le friulane non sopportano i cjargnei - i carnici come lui, e che le donne di altre provenienze, comprese le russe o le filippine, non avrebbero compreso la sua profonda filosofia, e lo avrebbero sposato solo per il permesso di soggiorno. Così aveva trasformato il salotto della sua casa in una specie di ufficio, cucina, camera, stanza degli hobby e tutto il resto. Considerato che era l’unica stanza della casa, a parte il bagno, e visto anche che quest’ultimo non era abbastanza spazioso.

    Nel suo studio-letto-cucina-pranzo Groucho, quando non era in ufficio o in missione, trascorreva quasi tutto il suo tempo. Inoltre, per hobby, scriveva puttanate. Diceva che prima o poi avrebbe pubblicato un importante volume sulla Teoria della propagazione delle puttanate, una materia che, a suo dire, avrebbe finito perfino per essere trattata da una cattedra dell’università. Cattedra che qualche ateneo prima o poi gli avrebbe senz'altro assegnato.

    «Chissà perché - seguitava con il pensiero il commissario - le puttanate scorrono così velocemente. Viaggiano sopra ogni cosa propagandosi a volte con una velocità che sembra davvero superiore a quella della luce. Mentre le cose più profonde: le idee, i concetti, sembrano invece viaggiare su strade accidentate e pericolose, al punto da disperderle in fretta e furia.

    Ancora una volta gli scienziati si devono essere sbagliati. - sosteneva - Esiste qualcos'altro che viaggia più veloce dei 300.000 chilometri al secondo della luce, sono proprio le puttanate.»

    Tra i suoi pensieri si ripropose qualche battuta di Alto gradimento, una trasmissione storica del mondo della radio degli anni ’70. Ripescò, tra i suoi ricordi confusi, un tratto di un'intervista che segnalava che quel programma avrebbe potuto chiamarsi Musica e puttanate. Il perbenismo nazionale, o la censura bigotta di allora, di certo, non lo avrebbero mai permesso.

    E così, le vere protagoniste della trasmissione, condotta, con sapienza magistrale, da Boncompagni, Arbore, Marenco, Bracardi e altri, avevano iniziato a diffondersi via etere. Le puttanate sembravano aggiungere alla velocità delle onde radio anche la velocità della mente e del pensiero. Sembrava riuscissero a unire, in barba a qualsiasi legge scientifica, parametri così diversi come la luce e il pensiero. Le puttanate di quella trasmissione avevano permesso diversi processi di figliazione, spalancando porte rimaste chiuse da anni, aprendo orizzonti imprevedibili e rendendo concetti scientifici perfettamente inutili.

    Repliche quotidiane improprie dell' Alto Gradimento di allora, si diffondevano soprattutto a scuola, in classe, tra gli studenti di un istituto per geometri. In mezzo al denso e serio volume di scienza delle costruzioni di Giuseppe Spangaro, si trovavano appunti di battute ancora calde. In un ambiente così fertile le puttanate si intrufolavano, si confondevano con le teorie, si mescolavano al resto, introducendo una nuova enorme fonte di energia che non aspettava altro che di essere liberata tramite il riso, l’ilarità.

    Durante le lezioni, un riso trattenuto, timido, si trasformava presto in una risata persa o sguaiata che se ne fregava perfino delle minacce del prof. e che rendeva sopportabile perfino l'inevitabile 3 sul registro. «Tanto sono i miei che hanno voluto farmi fare il geometra. Se era per me avrei fatto il becchino. Quello sì che si fa un sacco di soldi, mica il geometra… Ma ci sono scuole da necroforo? Boh, dovrò chiedere a qualcuno. Magari vado a chiedere informazioni a Berto Bara… quello sì che si fa i soldi. C’ha una macchina che costa più di un appartamento…»

    In quell’epoca Internet era ancora qualcosa di impossibile perfino da immaginare e le informazioni erano reperibili soltanto dai libri. Libri pesanti come l’enciclopedia, che faceva bella mostra di sé, quasi intonsa, sullo scaffale di Giuseppe. Lì dentro tra l’altro, a riprova della sua utilità relativa, non c’erano affatto informazioni sul mestiere di necroforo. C’erano solo concetti, descrizioni sommarie, mancava il modo di toccarle, le cose, di mangiarle, di ascoltarne il rumore o di sentirne il profumo «Come si fa a comprendere la vita vera studiando un’enciclopedia?» Si chiedeva Giuseppe.

    Nonostante il sospirato 40 strappato all’esame di matura e il seguito lavorativo presso uno studio di architettura «non ti preoccupare se non ti danno quasi niente, Beppino - diceva la zia - vedrai che fra due anni ti iscrivi al Collegio dei Geometri e poi ti metti da solo e se sei bravo i soldi li fai!», Giuseppe non scelse mai la strada della libera professione e nemmeno quella del necroforo.

    Forse avrebbe trovato un lavoro qualsiasi vicino a casa, e la sua vita si sarebbe sistemata. Ma a settembre di qualche anno prima, il seguito del terremoto del maggio ’76, aveva cancellato molte case della Carnia e con loro quella di Beppino, che pur non essendo crollata, aveva subito lesioni così profonde da ripercuotersi anche nel cuore, nella mente e nel portafoglio dei suoi. Avevano infatti dovuto chiedere un cospicuo mutuo, per aggiungere al contributo regionale il finanziamento necessario a ristrutturarla e a renderla antisismica.

    Fu forse per quello che i genitori di Groucho, che allora frequentava già l’istituto per geometri, insistettero nel volerlo vedere un professionista delle costruzioni, nonostante le sue continue perplessità sull’argomento e sul futuro della sua vita. In realtà Groucho non aveva quasi mai visto un morto e la professione di necroforo non gli avrebbe funzionato granché, ma era comunque uno sfogo della fantasia, una fuga dalla realtà, un'illusione che stava subendo senza comprenderla a fondo, anzi per niente. Era insomma uno dei modi che usava per difendersi dalla depressione infinita che aveva già colpito sua madre e che temeva potesse insinuarsi anche in lui.

    - Qualcuno dice che è ereditaria, sai Beppino, ma tu non lasciarti coinvolgere. Vai per la tua strada senza pensarci, e poi studia, che studiare fa bene, serve anche per quella. Se hai la mente impegnata, quel brutto male non riesce a prenderti.

    Le parole della zia di Udine, ormai anziana, che si era presa cura di lui durante i lunghi anni delle superiori e che, soprattutto, aveva anche sempre avuto la tenacia necessaria per farlo studiare, anche quando proprio non ne aveva voglia, lo avevano portato fino al diploma, ma al di là di quello, da buona carnica, non voleva andare.

    - Ora è tutto a carico tuo - gli diceva, devi farcela da solo. Inizia a lavorare, anche se prendi poco. Un letto qui ce l’hai, ma solo quello, e solo fino a quando non trovi un lavoro pagato decentemente. Poi ti trovi una casa vera, magari una donna, ma no terone senò ti giavi i budiei¹, e poi prenditi la tua vita, uno scopo e se vuoi anche un figlio. A me basta di vederti a posto, non occorre che mi ripaghi del lavoro che ho fatto su di te.

    Quel lavoro, che lei aveva fatto su di lui, non era ben definito nella mente di Beppino, ma non era il caso di farglielo notare, pena una delle sue sfuriate universali, che, a parere di Groucho, nel caso Dio avesse deciso di far iniziare l’Apocalisse, avrebbe sicuramente considerato come possibile inizio.

    Il seguito della vita di Spangaro, dopo l’esame, non era molto chiaro al commissario. Che cosa lo avesse spinto a seguire la scuola di Polizia e ad arruolarsi, restava oscuro. Avrebbe potuto scegliere di fare il servizio di leva come pompiere, visto che il terremoto gli aveva fornito anche questa possibilità. Invece lui, con uno sbalzo mentale non prevedibile, aveva segnalato l’interesse per la polizia e qualcosa aveva fatto in modo che la sua domanda fosse presa in seria considerazione. O forse era il destino che aveva scelto di fargli uno scherzo, visto il suo totale disinteresse per le cose serie e normali, che insisteva a deridere e a ridisegnare a suo modo in ogni istante della vita, dopo la segregazione della zia e della scuola.

    Nonostante tutto, Groucho era un buon poliziotto, capace di individuare dettagli, di scegliere il giusto punto di vista, di far coincidere parti in apparenza scollegate. A volte, facendo buon uso della caparbietà tipica della sua terra, riusciva dove altri fallivano. Però non ammetteva compagni, amici o altre forme di collaborazione. Era una mente vagante che si poteva usare solo da sola. Non faceva uso di confronti, idee, seguiva il suo fiuto e la sua linea di pensiero, piegandosi solo agli ordini dei suoi superiori e nemmeno in modo assoluto. Soltanto a fatica aveva accettato la presenza e poi l’amicizia, di Marini, il suo compagno. Sarebbe stato proprio per quel suo strano modo di vedere e di vivere, che non avrebbe mai raggiunto il limite massimo possibile della carriera. Nemmeno le donne riuscivano a raggiungerlo. Nonostante il suo fisico niente male, così come talvolta qualche ragazza di strada, durante le brevi soste nelle sale d'attesa speciali del commissariato, usava definire la sua persona, sembrava che ci fossero barriere insormontabili tra lui e l'altro sesso.

    ___________________

    ¹ - Ma non del sud altrimenti ti strappo le interiora.

    Capitolo 3

    Ci sono viaggi così piccoli che si sciolgono come neve tardiva

    Eppure lasciano segni indelebili nelle linee della vita

    Moby seguì il commissario fino alla porta di casa, poi nel momento stesso in cui lui l'aprì, lo precedette con una rapidità inattesa, quasi come per verificare di persona che, all'esterno, non ci fossero pericoli per il suo amico del cuore. Lui la seguì sorridendo, guardandola con affetto, mentre il muso di lei e la lingua penzoloni ricambiavano lo sguardo e il sentimento. Cominciò subito ad annusare l'aria lungo il perimetro del cortile, limitandosi ad un abbaio sommesso, quasi sussurrato, allo scopo di saluto. La mano di Diego la gratificò con una carezza, poi guadagnò il cammino.

    Il cielo era ancora buio pesto, le luci della strada, spente per una ragione sconosciuta, permettevano che un insolito percorso dell'occhio riuscisse a raggiungere

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