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Dancing with the Lion: L’inizio
Dancing with the Lion: L’inizio
Dancing with the Lion: L’inizio
E-book421 pagine5 ore

Dancing with the Lion: L’inizio

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Info su questo ebook

Due ragazzi, un legame eroico, la nascita del più grande figlio della Grecia.
Prima di essere conosciuto come Alessandro Magno è semplicemente il figlio adolescente del re macedone. Potrebbe vivere nel lusso, e invece in quanto principe deve essere il migliore e imparare più velocemente dei suoi coetanei, affrontando i problemi senza alcun aiuto. Uno di questi problemi riguarda i sentimenti sempre più complicati che prova per il suo nuovo compagno, Efestione.
Quando entrambi vanno a studiare dal filosofo Aristotele, la loro relazione nascente diventa ancora più difficile da gestire. La forza, la competizione e lo status definiscono il destino di ciascuno nel loro mondo, un mondo che sembra riservare poco spazio per la tenerezza che sta crescendo tra i due.
Da Alessandro ci si aspetta che comandi, non che desideri il calore dell’amicizia con un suo pari. In un regno in cui la scaltra madre e la sorella sono considerate inferiori per il loro sesso e il suo amore per Efestione potrebbe essere visto come sottomissione a un ragazzo più grande, il principe vorrebbe essere semplicemente umano quando tutti, tranne Efestione, vogliono solo che sia un re.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ago 2023
ISBN9791220705622
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    Anteprima del libro

    Dancing with the Lion - Jeanne Reames

    1

    FUGA

    Suo padre doveva aver già ricevuto il suo messaggio. Se anche lo avesse voluto, ormai non si tornava più indietro.

    Togliendosi il cappello da sole, Hephaistion si fece largo tra la folla mattutina, seguito dal cavallo. Era partito all’alba con nient’altro che il suo stallone, una sacca per i vestiti e gli oggetti personali, l’armatura e i segugi. Lo stomaco gli ricordò con un brontolio che sarebbe stato meglio se si fosse portato anche la colazione.

    La gente affollava le strette strade della capitale: uomini che lavoravano, schiavi che facevano commissioni e branchi di ragazzini chiassosi che facevano rotolare cerchi e fuggire i piccioni. Le donne si dirigevano alle fontane pubbliche con vasi in equilibrio sulla testa, mentre qua e là un cane sedeva in attesa del suo padrone. Una capra sfuggita al proprietario si era arrampicata su un carro per sgranocchiare un fico dalle ampie foglie. In alto, il sole mediterraneo batteva impietoso come il giudizio di Zeus. Era il periodo dell’anno in cui gli eserciti marciavano e i pastori tosavano le pecore.

    La strada principale si snodava fino al palazzo reale arroccato in cima a una akropolis fortificata, la città alta. L’akropolis di Pella sorgeva più su un dosso nella pianura che su una vera e propria collina, ma il palazzo di Philippos non aveva bisogno di una posizione elevata per risultare imponente. Hephaistion aveva sentito dire che quello era l’edificio più grande di tutta l’Hellas. Forse era così. Le colonne del portico si innalzavano come pini sbiancati verso un cielo di marmo in sgargianti tonalità di lapislazzuli e vermiglio, e una Vittoria in foglia d’oro sormontava l’ingresso monumentale. Hephaistion si fermò ad ammirarla a bocca spalancata. L’ultima volta che aveva visitato Pella, qualche anno prima, quel luogo era incompiuto, accovacciato sulla collina come le ossa di un grande leviatano spiaggiato.

    Qualcuno dietro di lui brontolò perché gli aveva sbarrato la strada, poi lo spinse via. Imbarazzato, il ragazzo si guardò intorno alla ricerca di un posto dove legare lo stallone prima di presentarsi al re. Avrebbe potuto alloggiare il cavallo nella casa di famiglia, ma non aveva intenzione di andarci. Il cugino di sua madre lo avrebbe riportato in disgrazia da suo padre, come un marmocchio inseguito da una balia invece che un giovane che avrebbe compiuto sedici anni in autunno. Avrebbe dovuto essere nominato paggio due anni prima; era ampiamente tempo di porvi rimedio. Aveva un voto da mantenere e uno da fare. Poi tutto sarebbe stato risolto.

    Suo padre non poteva costringerlo a rimangiarsi un giuramento al re.

    Alexandros entrò nella stanza privata del re e trovò suo padre che progettava una strategia di battaglia in un grande vassoio di sabbia con un pennello e piccole statuette militari. Diversi ufficiali lo guardavano.

    Quando lo vide, suo padre gli fece cenno di avvicinarsi e gli offrì uno sgabello. «Siediti.»

    Obbedì, mentre Philippos si accomodava di fronte a lui su una sedia con i braccioli. «Stai diventando abbastanza grande per essere affidato a un filosofo,» disse il re. Le sopracciglia di Alexandros si sollevarono. Avrebbe avuto un’educazione di tipo ateniese, dunque?

    E la voleva?

    «I tempi cambiano,» aggiunse suo padre. «Data la politica attuale, non oso mandarti a sud, quindi ho scelto un uomo disposto a venire qui.»

    «Chi?»

    «Aristoteles di Stageira.»

    «Non ne ho mai sentito parlare.»

    «Alcuni dicono che sia stato il miglior allievo di Platon, anche se non il suo successore. L’ho conosciuto da ragazzo; suo padre era medico di mio padre. L’hai incontrato qualche anno fa, anche se probabilmente non lo ricorderai. Passò da Pella mentre si recava in Asia dopo la morte di Platon.»

    Ecco spiegata la scelta. Ma le implicazioni erano enormi. Suo padre non avrebbe sprecato tempo e denaro in ulteriori studi a meno che non stesse formando un erede, e non solo un figlio. Essere principe non significava necessariamente che Alexandros sarebbe diventato re.

    Il titolo poteva passare a qualsiasi maschio reale della dinastia degli Argeádai, e il suo principale rivale era sempre stato il cugino Amyntas, figlio del fratello maggiore di suo padre, che era stato re prima di Philippos. Quando quel fratello era morto sul campo di battaglia, Amyntas era stato spodestato in favore dello zio già adulto. Popolo guerriero, i macedoni volevano un re guerriero. Il più forte.

    Alexandros aveva perso il conto delle volte in cui Amyntas lo aveva picchiato per ricordargli chi fosse il più forte.

    Tuttavia, un re poteva indicare il suo successore preferito e, a quanto pareva, Philippos aveva deciso di puntare su Alexandros. Un lento ribollire di eccitazione gli si sprigionò sotto il diaframma. Per tutta la vita, sua madre aveva insistito che le Moirai lo avevano scelto per un grande destino. Le dee del fato, cui persino Zeus si inchinava. A volte era scettico riguardo a quelle affermazioni, aveva paura di crederci; poi arrivava un momento come quello, uno strattone al filo della sua vita che lo rendeva momentaneamente visibile come la scia di una lumaca quando viene colpita dal sole. Scintillante. Non avrebbe fallito. Non poteva.

    Per non lasciar trasparire l’euforia, chiese: «Che cosa insegna Aristoteles?»

    «Puoi leggere la lettera che mi ha inviato. Sto facendo restaurare la vecchia villa sopra Mieza. Studierai lì, lontano dal trambusto della corte.»

    E lontano da mia madre, aggiunse mentalmente Alexandros, le labbra strette mentre fissava il vassoio. Era appoggiato su un enorme tavolo che occupava metà della stanza. Quando gli era permesso soleva guardare suo padre provare le tattiche, e a volte si intrufolava nel buio per giocare con le sue idee. Un giorno, un mese prima, aveva trovato una mossa di risposta in attesa, così aveva controbattuto. La mattina dopo, aveva trovato una contromossa a cui aveva ribattuto ancora. Quella gara improvvisata era andata avanti per giorni, finché alla fine suo padre aveva trionfato.

    Philippos continuò: «Vuole dei compagni di scuola per te. Dice che i discorsi aguzzano la mente, o qualcosa del genere. Ne ho scelti alcuni.» Fece un elenco di nomi, tutti figli o fratelli di uomini importanti. Alexandros gemette tra sé quando fu incluso Kassandros, figlio del reggente. Ma un’assenza lo incuriosì.

    «Non ci sarà mio cugino?»

    «Vuoi davvero che venga anche Amyntas?»

    «O Zeu, no!»

    Philippos ridacchiò. «Come immaginavo. Chi altro vorresti?»

    «Ptolemaios.»

    Per un attimo suo padre sembrò sul punto di opporsi, ma Alexandros sfoggiò la sua migliore faccia innocente. «Molto bene,» acconsentì alla fine il re, e annotò il nome di Ptolemaios sulla tavoletta di cera vicina. «Poi?»

    «Erigyios.» Da bambino Erigyios aveva studiato con lui sotto la supervisione dello zio di sua madre, Leonidas, un uomo severo che amava troppo l’addestramento spartano e che i ragazzi avevano soprannominato il Tiranno. Alexandros nominò altri due compagni mentre il padre prendeva appunti, poi Philippos alzò lo sguardo.

    «Tutto qui?» Si aspettava che suo padre avesse stilato una lista più lunga. Aperto ed estroverso, non riusciva a capire la propensione all’isolamento del figlio, cosa che gli rinfacciava spesso.

    «Quando arriverà Aristoteles?» chiese Alexandros per distogliere l’attenzione dai suoi difetti.

    «Non prima di qualche mese. Sta sistemando i suoi affari a Mytilene.»

    Alexandros aprì la bocca per chiedere di più, ma Eumenes, il nuovo giovane segretario ellenico di suo padre, apparve sulla porta, con qualcuno alle spalle, seminascosto nell’ombra. «Philippos, mio re. Perdona l’interruzione, ma è appena arrivato il… il figlio minore di Amyntor. Chiede udienza.»

    L’intera stanza si zittì quando la figura a stento visibile superò Eumenes per entrare nella stanza privata del re.

    Alto e snello, si muoveva con una grazia che aveva poco dell’andatura dinoccolata di ogni adolescente; si fermò quindi a osservare re e ufficiali con interesse e distacco. Ad Alexandros ricordava i gatti di stalla che volevano essere accarezzati ma non si abbassavano a implorare. La barba accuratamente tagliata lo faceva sembrare più vecchio di quella che Alexandros sapeva essere la sua età, ma la delicatezza dei lineamenti era quasi acerba: un marmo di Prassitele piuttosto che un uomo. I capelli, tuttavia, attirarono l’attenzione del principe. Li portava lunghi in un’acconciatura da ragazzo, o come si usava fare ad Athenai: la parte anteriore era tagliata e bloccata da una fascia sulla fronte, mentre dietro scendevano fino a metà schiena come un fiume nero.

    Quindi quello era Hephaistion Amyntoros. Philippos si alzò. «Cosa ci fai a Pella?»

    «Ho saputo che mi hai mandato a chiamare per unirmi ai paggi.» La precisione nella dizione era quella di qualcuno nato e cresciuto per le vie di Athenai, non nella valle del fiume Axios.

    «Amyntor non aveva detto che ti avrebbe tenuto a casa per lavorare alla fattoria? Qualcosa a proposito della perdita dei suoi bravi figli a causa delle mie dannate guerre?» In piedi sullo sfondo o stravaccati sulle sedie, gli ufficiali di Philippos sorridevano.

    Hephaistion no. «Quella era la sua decisione.» Parlò con tono privo di enfasi, così il re e gli altri presenti impiegarono un attimo a cogliere il significato di ciò che aveva detto.

    «La sua decisione?» ripeté il re. «Chi ha deciso di mandarti qui, allora, ragazzo?»

    «Io.»

    «Hai deciso tu di venire qui?»

    «Sì, mio re.»

    «Oimoi!» Philippos si girò di spalle, ma Alexandros poté vedere che era contento. Una vecchia volpe. Quello metteva Amyntor proprio dove Philippos lo voleva, e il re non aveva intenzione di mandare a casa Hephaistion, ma nemmeno di farlo sapere al ragazzo. «Cosa pensi che dirà tuo padre, eh?»

    Hephaistion non sembrava preoccupato. «Non lo so, mio re.»

    «Beh, io sì.» Philippos si voltò. «Invierà un messaggero entro mezzogiorno, maledicendo le mie ossa e chiedendo che ti spedisca a casa. Cosa devo dirgli?»

    «Che è stata una mia scelta. Non mi hai costretto tu a venire. Volevo unirmi ai paggi e sono venuto.»

    Gli ufficiali di Philippos borbottarono per quell’insolenza, ma Alexandros decise che sarebbe stato interessante essere un paggio, con Hephaistion in giro.

    Il principe non lo era ancora, ma da quando l’estate prima aveva lasciato la tutela dello zio materno visitava spesso i loro alloggi e non vedeva l’ora che giungesse il suo quattordicesimo compleanno, quando avrebbe potuto unirsi alle loro fila. Non ancora tredicenne, portava i capelli in una treccia da bambino.

    Suo padre incoraggiava quelle visite, definendole un bene per il figlio troppo interessato allo studio, anche se sua madre disapprovava. Pensava che non si addicesse alla sua posizione e che il principe dovesse essere esonerato dal ricoprire quel ruolo, così come i principi più importanti di Sparta evitavano l’addestramento brutale dei ragazzi. Era uno dei tanti motivi di attrito tra i suoi genitori. I loro litigi lo facevano sentire stanco e teso, come uno straccio tirato tra due cani.

    Philippos stava in piedi con le braccia incrociate e squadrava Hephaistion come se stesse acquistando uno dei tanto ambiti cavalli da guerra di Amyntor, e non ne stesse invece valutando il figlio stesso. «Perché hai disobbedito a tuo padre per venire qui? Come faccio a sapere che a me offrirai maggiore lealtà?»

    «Voglio uccidere gli illirici.»

    La risposta fu rapida e intensa, e il re annuì come un maestro di scuola con un allievo particolarmente dotato. «Ma al momento non sono in guerra con nessun regno illirico.»

    «No, mio re.»

    «Con un po’ di fortuna, anche loro resteranno nelle loro tane di montagna per un bel po’ di tempo.»

    «Forse.» Hephaistion aveva uno sguardo duro, di quelli che trapassavano gli uomini e li spingevano a distogliere il viso. Philippos non lo fece. «Sei in debito con me,» aggiunse Hephaistion, con voce decisa ma con le ginocchia che tremavano. «Sei in debito con Agathon

    Un profondo silenzio calò sulla sala, ma Philippos si limitò a fare un altro cenno e a sciogliere le braccia. «Va bene, avrai la tua occasione con gli illirici, ragazzo. Sei assegnato alla squadra Delta. Domani hanno il turno di servizio del pomeriggio; questo dovrebbe permetterti di ambientarti e di orientarti. Porta il tuo cavallo alle scuderie e presentalo al maestro di equitazione. Il tempo libero è a tua disposizione, tranne che per i pasti e le esercitazioni. Come paggio, sei sotto il mio comando e anche sotto la mia disciplina – non dimenticarlo – ma Kleitos Melas sarà il tuo istruttore. Sarà felicissimo di avere un altro figlio di Amyntor a cui badare.» Quell’affermazione grondava sarcasmo. «Koinos Polemokratous è il primo paggio. Ti aggiornerà su mensa, esercitazioni e posti letto. Spero che tu abbia viaggiato leggero, perché avrai solo una cassa per i vestiti.»

    Hephaistion, conscio di aver vinto quella discussione, rimase in piedi con una posa rilassata, apparentemente ignaro del fatto che l’assegnazione alla Delta era un po’ uno scherzo nei suoi confronti, una sottile punizione da parte del re. Philippos era sempre così.

    Quella era la squadra di Kassandros.

    Quando stabilì che il padre aveva finito, Alexandros uscì da una porta sul retro. Avrebbe dovuto parlare con sua madre di quel filosofo. Tuttavia, mentre si dirigeva verso lo scalone principale della parte pubblica del palazzo, suo cugino Leonnatos lo intercettò sul pianerottolo.

    Alexandros non era sicuro che Leonnatos gli piacesse. Suo cugino sapeva essere invadente, ma accettava anche la presenza di Alexandros tra i paggi senza il risentimento o la condiscendenza che ci si sarebbe aspettati. Alexandros aveva difficoltà a condannare quella disposizione d’animo. Con Leonnatos c’era il suo vecchio amico Erigyios, e anche lo zoppo Harpalos, figlio del principe di Elimeia, uno dei distretti settentrionali.

    «Che cosa sai?» chiese Leonnatos.

    «Cosa so di cosa?» ribatté Alexandros.

    «Cosa sai di Hephaistion?» Leonnatos gli parlava come se fosse ottuso.

    «È scappato di casa.» Alexandros non era del tutto sicuro di cosa stessero parlando. «Però mio padre non lo rimanderà da suo padre.» Non disse nulla della dichiarazione di Hephaistion di voler uccidere gli illirici. Sembrava una questione delicata e profonda, e Leonnatos, che non era né l’una né l’altra cosa, non avrebbe capito. Alexandros ritenne di aver detto abbastanza per soddisfare la loro curiosità.

    Funzionò. Scesero le scale e uscirono dall’ingresso principale del palazzo. Alexandros decise che sua madre poteva aspettare e li seguì, sperando che agli altri non dispiacesse. In effetti non sembravano affatto badare alla sua presenza, come se fosse un cagnolino.

    Attraversando il gymnasion, il parco ben curato dietro il complesso del palazzo, scorsero alcuni paggi che facevano ginnastica e li chiamarono per salutarli. Gli altri risposero con dei cenni. «Philippos non lo manderà a casa!» disse Leonnatos. «Cosa farà Amyntor?»

    «Invierà un reclamo a mio padre, chiedendo che gli restituisca Hephaistion,» rispose Alexandros, sperando di avvalorare la sua presenza con la pura e semplice abbondanza di informazioni.

    Ma Leonnatos non lo lasciò nemmeno finire: «Forse Amyntor richiamerà il reggimento di cavalleria di Europos! Per il cane d’Egitto, potremmo avere una vera e propria faida qui.»

    Con il fiato corto per lo sforzo di tenere il passo, Harpalos aggiunse: «Non essere sciocco. Succederà solo che Amyntor… spedirà al re… una lettera in cui gli dirà… di rimandare a casa Hephaistion.»

    Che era quello che Alexandros aveva appena detto. Strinse le labbra e si chiese se fosse diventato trasparente.

    Harpalos stava ancora parlando. «Il re dirà ad Amyntor… Affronta la questione… con tuo figlio… non con me… È venuto di sua spontanea volontà … E la cosa finirà lì… Amyntor è combattivo… Non è stupido.»

    Nessuno rallentò per lo zoppo Harpalos; avevano tutti imparato che non serviva.

    Sempre cercando di farsi notare, Alexandros sbottò: «Mio padre lo ha assegnato alla squadra Delta.»

    Stavolta il suo stratagemma ebbe successo. Gli altri tre si fermarono e scoppiarono a ridere. «Ai!» gridò Harpalos. «Il re lo ha messo… con Kassandros.» Battendosi una mano sul cuore, barcollò come per un colpo mortale, facendo ululare ancora di più dal ridere Leonnatos ed Erigyios. Poi ripresero a camminare. Alexandros dovette affrettarsi per raggiungerli.

    Arrivati al dormitorio dei paggi lo trovarono deserto. I ragazzi non in servizio erano a cavallo, a caccia o nel gymnasion. Si trattava di un edificio lungo, a un solo piano, con due file di brande che si affacciavano su un corridoio centrale. Ogni branda aveva una cassapanca sotto, uno scaffale sopra e ganci a muro per appendere le armature. Alexandros si sedette su una di quelle vuote e si appoggiò alla parete di mattoni intonacati.

    «In realtà,» riprese Harpalos, buttandosi sul suo letto, «non sono sicuro se sia più da compatire Hephaistion o Kassandros. Philippos potrebbe averlo messo al suo posto: con i lacchè, gli egoisti e i pavoni.»

    «Conosci Hephaistion?» chiese Erigyios.

    «Più o meno. Amyntor alleva i migliori cavalli di tutta la Makedonia, ma tu non puoi saperlo.» Erigyios soffriva per il suo essere straniero. «I miei cugini conoscevano i fratelli di Hephaistion, quindi l’ho incontrato. Non è come il resto della sua famiglia. Ha il naso così infilato nel culo che riesce a sentire solo la sua merda.»

    «Forse è timido.» A Erigyios piaceva dare agli altri il beneficio del dubbio.

    «Non è timido.» Harpalos si alzò a sedere. «È taciturno. Non si sa mai cosa stia pensando. Il suo bisnonno veniva da Athenai e presume che questo significhi qualcosa.»

    Hephaistion scelse quel momento per entrare dalla porta e Alexandros si chiese quanto avesse sentito. Portava con sé una panoplia di armi, una grossa borsa e una più piccola che tintinnava di attrezzi da cucina. Due cani lo seguivano, ma sembrava che non avesse un servitore, il che era sensato. Come paggio, per un po’ di tempo avrebbe dovuto badare a se stesso, oltre che alle esigenze del re. «Uno di voi è Koinos?»

    Nel sentire la sua voce, Leonnatos guardò verso di lui, poi scoppiò a ridere. Dovevano essere i capelli. Hephaistion si voltò con un’eleganza fuori dal comune e lo fissò finché ogni traccia di ilarità non sparì dalla bocca di Leonnatos.

    «C’è Koinos?» ripeté.

    Rispose Erigyios. «Koinos è al gymnasion, credo. Vieni, ti mostro la tua branda.» Guidò Hephaistion lungo il corridoio fino a un posto vuoto nella zona centrale. Parlavano a voce troppo bassa per capire cosa stavano dicendo.

    Leonnatos si accarezzò i capelli e sbatté le ciglia.

    «Smettila! Ti vede,» lo rimproverò Alexandros.

    «E allora?»

    Risalendo il corridoio, Erigyios guardò Leonnatos accigliato. «Andiamo.» Quindi si rivolse a Hephaistion: «La cena viene servita al tramonto; puoi portare il tuo piatto dove vuoi, ma la maggior parte di noi mangia qui. Sei il benvenuto se vuoi unirti a un gruppo.»

    Hephaistion alzò lo sguardo, lo ringraziò, poi tornò a disfare i bagagli.

    «Vedi cosa intendevo?» fece notare Harpalos mentre uscivano dal dormitorio. «Tacitur…»

    «Beh, di sicuro non l’hai fatto sentire il benvenuto,» lo interruppe Erigyios.

    Non appena gli altri si allontanarono, Hephaistion si tolse la fascia di cuoio dalla fronte e con le dita raccolse i riccioli oliati per intrecciarli in un’unica coda lungo la schiena, come li portava quasi sempre. Sfilò la tunica di lino e la sostituì con una vecchia di lana non tinta.

    Per andare dal re aveva indossato i suoi abiti migliori, ma invece di fare buona impressione era passato per imbecille. Si disse che non aveva importanza, che ci era abituato. Eppure non riusciva a toglierselo dalla testa.

    Tuttavia, aveva fatto un giuramento e avrebbe preferito fare la figura del cretino piuttosto che essere uno spergiuro.

    Alexandros associava certi odori alle stanze di sua madre: erbe secche, incenso, cera d’api, lana nuova e, proprio come in quel momento, cibo. Aguzzò la vista nella penombra della sera per raggiungere il tavolo che la servitù aveva imbandito con seppie all’aglio, lattuga, fichi, formaggio saporito e pane.

    Fece per sgraffignare un fico secco e lei gli schiaffeggiò la mano. «Aspetta la libagione.»

    Con un sorriso, Alexandros si infilò il frutto in bocca e le diede dei baci appiccicosi in segno di saluto.

    Una serie di candele illuminava il tavolo da pranzo, un’oasi di giallo in mezzo all’ombra grigia. Sua madre, Myrtalē, appariva minuta alla loro luce, con i capelli chiari e splendenti appuntati in riccioli sulla testa in un’acconciatura che aggiungeva quattro dita alla sua altezza. Dopo aver fatto una libagione agli dèi, lo fece accomodare per servirlo lei stessa.

    Era troppo grande per sedere a tavola con le fanciulle e i bambini, ma troppo giovane per cenare con suo padre e i Compagni, tranne che in occasioni speciali. A volte andava nel dormitorio dei paggi, ma perlopiù mangiava con sua madre e a volte con sua sorella Kleopatra, che aveva quasi dodici anni. Quella sera Kleopatra doveva occuparsi dei bambini, e segretamente ne era felice. Amava le rare occasioni in cui poteva avere la madre tutta per sé, quando lei poteva intrattenerlo con interminabili racconti di divinità ed eroi. Aveva sentito per la prima volta Hómēros stando seduto sulle sue ginocchia. «Sei nato dalla stirpe di Akhilleus,» gli aveva detto. «Non dimenticarlo mai!»

    Da suo padre aveva ereditato il sangue di Herakles e quindi dell’immortale Zeus, ma sua madre lo faceva discendere dal fiero Akhilleus. Pensava che fosse l’onore più grande. «Herakles era stupido,» affermava sempre. «Un grosso bruto ignorante. Akhilleus era bello, forte e un grande combattente con la lancia.»

    Una volta, Alexandros aveva chiesto perché Akhilleus avesse legato il corpo del valoroso Hektor dietro il suo carro per trascinarlo nella polvere. Lei aveva risposto: «Zitto! Hektor ha ucciso colui che amava. La vendetta è dolce. Un giorno capirai.» Alexandros si era risentito delle sue parole. Con il tempo aveva compreso, ma lui non avrebbe mai mancato di rispetto al corpo di un valido nemico. Gli sembrava poco regale. Non l’aveva detto a sua madre.

    Dopo avergli servito una generosa porzione di seppie, la donna si sedette di fronte a lui per chiedergli della sua giornata. Lo faceva sentire importante. In quella sala non era mai troppo giovane o troppo precoce.

    «Allora,» disse, «oggi è arrivato il figlio minore di Amyntor.»

    «Davvero? Non pensavo che Amyntor avesse intenzione di mandarlo.»

    «Infatti non l’aveva. È scappato. Mio padre ha deciso di farlo restare, ma lo ha assegnato alla squadra Delta: quella con Kassandros. Harpalos non è sicuro di chi ne uscirà peggio. Immagino che Hephaistion sia…» Cercò la parola più sicura. «… insolito.»

    Sua madre prese un fico. «A quel moccioso starebbe bene vedersela con qualcuno che lo rimetta al suo posto.»

    «Hephaistion?»

    «Kassandros. Non conosco Hephaistion. Ho incontrato il padre solo poche volte. È originario di Pydna, ha sposato una reale peone, una lontana cugina del loro re, Patraios.»

    Alexandros archiviò l’informazione. «Leonnatos si aspetta una grande faida con Amyntor.» Personalmente non lo credeva, ma voleva conoscere la sua opinione.

    La donna scosse la testa. «Tuo padre non si abbassa alle faide. Piuttosto spedirebbe a casa il ragazzo.» Se a volte lei e il re si scontravano sulla corretta educazione del principe o sulle libertà che le spettavano in quanto regina, quando si trattava di politica tendevano a concordare. «Il ragazzo non è necessario come garanzia per il padre. Amyntor ha meno ambizioni di una vongola.»

    Alexandros, con la bocca piena di vino diluito, se lo fece andare di traverso e lo sputacchiò verso sua madre, che trattenne il fiato. «Oimoi! Darò vita a una nuova moda a macchie viola.» Asciugandosi invano le macchie violacee che le costellavano il vestito, Myrtalē sorrise con affettuosa tolleranza. «Allora, raccontami il resto della tua giornata.»

    «Mio padre mi ha trovato un filosofo.» Si fissò le mani e le girò per esaminare le unghie rosicchiate. Infine alzò lo sguardo.

    Il mento di sua madre era sollevato, le narici dilatate. «Perché non sono stata consultata?»

    «Il re voleva che il precettore venisse qui. Non vuole mandarmi ad Athenai – lo ritiene troppo pericoloso – quindi sta facendo sistemare la vecchia villa di Mieza. È lì che studieremo. Verranno anche alcuni dei paggi. Il precettore si chiama Aristoteles di Stageira; ha studiato sotto Platon. Il padre, Nikomakhos, faceva il medico per mio nonno, quindi mio padre lo frequentava quando erano ragazzi.» Spiegò quei dettagli come se un numero sufficiente di parole potesse placare il vulcano.

    Myrtalē abbassò il capo e si appoggiò allo schienale. «So chi è Aristoteles. Filosofo, certo, ma anche spia di Philippos alla corte del tiranno Hermias; non è lontano da Troia. Sta facendo un accordo per dare a tuo padre una testa di ponte verso l’Asia. Le cose non devono andare bene e Aristoteles aveva bisogno di andarsene.»

    Una spia? Nessuno ne aveva parlato con Alexandros, ma lui non dubitava di quell’affermazione. Pochi a corte sapevano più di Myrtalē, e non necessariamente perché il re le faceva confidenze.

    La donna si alzò e prese ad aggirarsi per la stanza. «Quel cane dagli occhi neri!» Spazzò il tavolo con un braccio, distruggendo i porta incenso e un flacone di profumo mentre lui si rannicchiava sul divano, facendosi piccolo piccolo. L’odore di violette, mirra e lillà si mischiò con quello delle seppie e dell’aglio, facendogli rivoltare lo stomaco. Il pavimento era disseminato di cocci. «Non può portarti via da me in questo modo. La tua educazione è anche un mio dovere.»

    Alexandros si tirò i capelli. Non osava dirle che voleva andare, che aveva bisogno di andare; a palazzo gli sembrava di ristagnare. Per lei invece si trattava solo dell’ennesima tattica di Philippos nella loro guerra per il figlio. «Può farlo e lo farà,» le disse a bassa voce. «Ti prego, non opporti. Se la prenderà con me.»

    Non era del tutto vero, ma Alexandros aveva le sue armi, e a volte era abbastanza disperato da usarle.

    Le spalle della regina si afflosciarono come quelle di un lottatore sconfitto. «Vai.»

    2

    INCONTRO

    Al tramonto, Hephaistion osservò i ragazzi che rientravano per la cena nel dormitorio dei paggi e che, notando un nuovo membro, lo scrutavano di sottecchi. Alcuni si avvicinarono per chiedergli il nome, come cani che fiutavano un nuovo territorio. Il patronimico Amyntoros spaventava i più, anche in quel corpo di parenti di Compagni, figli dell’élite ricca e possidente. Era sempre stato così, e Hephaistion era arrivato a considerare il nome di suo padre come un incantesimo. Quando sceglieva di sfoggiarlo, si assicurava un servizio rapido o un posto comodo nelle scuderie. Quando non lo usava, era uguale a qualsiasi altro mortale.

    Le brandine servivano come divani per la cena e presto si formarono gruppetti su e giù per il dormitorio, illuminati da lampade e torce fumanti. Gli schiavi reali, traci e illirici presi nelle guerre di Philippos portavano vassoi di formaggio, olive e cipolle bollite, ciotole di farinata e pane d’orzo con cui pulire i piatti. Hephaistion non era apertamente incluso in alcun gruppo, ma al tempo stesso non ne era nemmeno isolato, così si accostò al suo divano. Con oltre un centinaio di paggi a Pella, le cene erano caotiche, piene di vanterie su tutto, dalla battaglia, alla caccia, all’amore.

    Un ragazzo colossale sul divano accanto a quello di Hephaistion si chinò per indicarlo con il pane. «Sei nella mia squadra.» Parlò in dialetto regionale macedone. «Sono Aeropos Amphoterou. Dicono che sei nella Delta.» Hephaistion annuì e Aeropos proseguì: «Sei un atleta?»

    «Corro con i cavalli,» rispose Hephaistion, anche lui in macedone.

    «Non fai la lotta?»

    «No.»

    «Io lotto. Pankration

    «Oh.» Era ovvio per chiunque avesse gli occhi.

    «Davvero non fai lotta libera?»

    «Non se posso evitarlo.»

    Il sarcasmo sembrò confondere Aeropos; che avesse preso troppe botte in testa nell’arena? Il loro scambio, tuttavia, aveva attirato l’attenzione di un bel ragazzo dai capelli scuri e corti. Se Aeropos mancava di acutezza, Hephaistion sospettava che l’altro ne avesse da vendere, ma c’era qualcosa di strano in lui, come la luce del sole sulla neve che poteva accecare chi la fissasse troppo a lungo. Sedeva ben dritto sul suo divano, il che significava che doveva ancora uccidere il suo cinghiale e guadagnarsi il diritto di stendersi. Metà dei paggi doveva ancora mangiare; Hephaistion non era tra loro. «Lotta?» rise l’altro ragazzo. «Pensi che rischierebbe quel bel faccino nell’arena?»

    «Lascialo stare, Sandros. È il suo primo giorno.»

    «Stavo solo cercando di sottrarlo alle tue domande insensate e banali.» Gli occhi di Sandros cercarono quelli di Hephaistion, che però non parlò. Forse infastidito dal silenzio, o forse incuriosito, Sandros diede una pacca alla branda come per invitare un cane a sedersi. Incerto se accettare o meno, alla fine Hephaistion fece il giro per prendere posto. Non sapeva chi fosse quel Sandros e dubitava che lo conoscesse, ma la curiosità lo spingeva ad approfondire la questione. Intuendo che c’era qualcosa sotto, il resto della cerchia interruppe la conversazione per osservare.

    Passando una mano sulla schiena di Hephaistion, Sandros strinse la folta treccia. «O kalēBellezza. «Perché legare questi capelli?» Sfilò il legaccio e i capelli ricaddero sciolti sulle spalle di Hephaistion; se ne premette una ciocca sulle labbra in un gesto di beffarda devozione. «Che splendidi capelli, fini come la seta.»

    Hephaistion, con la pelle che formicolava, sopportò senza muoversi, come un bambino che mettesse alla prova il suo coraggio maneggiando scorpioni. Nato sotto il segno dello Scorpione, sapeva come pungere.

    Poi Sandros gli sfiorò il profilo dello zigomo. «Le tue ciglia fanno impallidire quelle di mia sorella, o kalē. Ma questa barba! Rovina l’effetto. La tieni per grattare le labbra degli amanti in cerca di baci? O per dimostrare la tua virilità a chi insegue le tue dolci cosce?»

    Sempre in dialetto, Hephaistion chiese: «Giochi d’azzardo, Sandros?»

    La carezza ai suoi capelli si trasformò in uno strattone. «Il mio nome è Kassandros. Kassandros Antipatrou.»

    Ah, il figlio del reggente. Hephaistion si guardò intorno. Il silenzio aveva un modo tutto suo di catturare l’attenzione, e ora avevano un bel pubblico. «Giochi d’azzardo?» chiese ancora, aggiungendo: «Kassandros

    Ritenendo che gli spettasse, Kassandros sorrise mentre giocherellava con i capelli di Hephaistion. «Ogni tanto. Ti va una partita a kottabos?» Il kottabos era un gioco da corteggiamento in cui si lanciavano residui di vino a un bersaglio, e la posta in gioco di solito erano i baci.

    «Pensavo a qualcos’altro.» Hephaistion si allontanò per frugare nella cassapanca sotto la branda, recuperando una piccola borsa e una tavola. La sistemò al centro del cerchio e vi svuotò sopra il sacchetto: tre gusci di noce e una ghianda. Venne accolto da risatine. Il gioco dei gusci era un vecchio trucco noto a tutti i prestigiatori, da Skythia a Rhodēs.

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