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L'Aquila di Kos
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E-book108 pagine1 ora

L'Aquila di Kos

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Fantasy - romanzo breve (71 pagine) - Un viaggio avventuroso dalla reggia di Kos sino al profondo degli Inferi, e infine al cielo stellato, per compiere il destino di re Merope e del giovane Ippocrate, il primo medico.


Da quando Etemea è morta, è come se lo fosse anche Merope. Il Re di Kos si sta consumando in  un’apatia a cui solo il vino sembra dare sollievo. Gli dèi gli appaiono lontani, il mondo senza senso: non gli interessa che un misterioso pitocco lo trascini alla ricerca di un’aquila, né che un efebo di nome Ippocrate abbia strane visioni e si affanni per capirne gli umori, le emozioni che lo divorano dentro… . Ciò che Merope non sa, o forse non vuole sapere, è che gli dèi non sono così lontani, il mare mormora segreti e il fato lo attende sul monte. Un viaggio sull’isola di Kos che è una sfida duplice, sia eroica che filosofica, all’inesausto mito greco. Tra templi e litorali, caverne e fonti, le prodezze di Merope e la saggezza del primo medico si intrecciano tra loro, sotto lo sguardo attento degli dèi.


Francesco Battaglia è laureato in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Milano. Stregato dalla mitologia classica, dal medioevo e dal fantastico, vive al servizio della parola narrata. Sulle ali della letteratura, come un cavaliere errante, scrive e vaga per i licei da supplente ramingo. J.R.R. Tolkien, Edgar Allan Poe e Giovanni Pascoli sono i suoi tre grandi maestri. Storie di Nigmàr (Irda, 2016) è il suo romanzo di esordio. Nel 2019 ha pubblicato Esperide. L’eroe dello scudo (Watson) e la raccolta poetica Ceneri scarlatte (Kanaga). È attivo anche sul web, dove collabora con L’insolenza di R2-D2 dedicando articoli a Star Wars.

LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2021
ISBN9788825416671
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    Anteprima del libro

    L'Aquila di Kos - Francesco Battaglia

    Teocrito

    Prefazione a cura dell’autore

    Quando Alessandro Iascy mi ha proposto di romanzare un mito per la collana Costellazioni di Heroic Fantasy Italia, ho accettato a cuore aperto.

    Nei miei anni da supplente al liceo mi è capitato spesso di parlare dei Greci, della loro storia e dei poemi omerici: un privilegio fatale, vista la mia predilezione per i classici. Perfino oggi, mentre scrivo queste righe, mi preparo a introdurre l’epica a una schiera di adolescenti impavidi nonostante le fatiche della didattica a distanza.

    Non ho mai dimenticato il mio primo incontro con Omero: avevo undici anni, mia madre mi regalò un’edizione illustrata dell’Iliade e dell’Odissea, un tesoro che custodisco tuttora.

    Non ho mai smesso di chiedermi come i Greci siano riusciti, e riescano ancora, a esercitare sui posteri un influsso tanto potente.

    Freud e Jung hanno scavato gli abissi del mito per sondare quelli della psiche.

    Nei suoi Poemi conviviali, Giovanni Pascoli ha scritto versi indimenticabili per demistificarli, solo per scoprirsene più innamorato di prima. Nei Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese li ha interrogati di persona alla ricerca di verità sanguinose, divine. Ho tenuto questi due libri con me, mentre scrivevo L’aquila di Kos. Sono stati le mie Muse.

    Il romanzo che avrei scritto, mi sono detto, doveva essere godibile. Ricco di prodezze da Sword&Sorcery. Ma non solo. Volevo che fosse anche filosofico, sia apollineo che dionisiaco. Che dietro le gesta di Merope si intuisse l’enigma, il dramma dell’esistenza umana. Nessuno riuscì a narrarlo meglio dei Greci, a illuminarlo mantenendolo oscuro: dopo i Greci, non si è potuto fare altro che inseguire i Greci. Li ho rincorsi anch’io, nel mio piccolo, consapevole delle difficoltà di ricostruire un luogo, un tempo e un mondo senza esserci stato.

    L’isola di Kos, le sue poleis principali: Kos, Antimachia e Kefalos. I suoi templi più famosi, dedicati a Eracle e Asclepio. I litorali, i paesaggi e la fonte Vourina. Il platano di Ippocrate. Ho studiato e incrociato i miti del luogo e i luoghi del mito; aperto varchi tra passato e futuro. Sognato a ritroso, con nostalgia.

    Benché si tratti di un romanzo breve, scrivere L’aquila di Kos ha richiesto molto tempo. La mia fonte diretta, il De astronomia di Igino (II-16, testo e trad. a fine libro), riservava al mito in questione pochi rapidi cenni. La contaminazione con quello di Orfeo ed Euridice è stata irresistibile.

    Il resto è frutto di studio, documentazione e ricamo.

    Fin da subito ho sentito la necessità di avvicinare il Re di Kos, cupo e scostante, a qualcuno che lo sostenesse nel viaggio: Ippocrate, l’altro grande volto dell’isola. Ho voluto immaginarlo da fanciullo, mentre prende atto della sua vocazione. Non si tratta di una semplice comparsa: la teoria dei quattro umori è parte integrante della storia, cardine narrativo e filosofico.

    Ho intrecciato il fato di Merope a quello di Ippocrate: l’aquila e il platano, il mito e la storia. Due mete diverse, una strada comune. La scelta di questa commistione mi ha portato a disporre gli eventi su un asse temporale sfalsato, in cui periodo arcaico e classico si incrociano come in un sogno. Ho eletto consapevolmente i poemi omerici a sostrato culturale comune: che si scavi a ritroso o a posteriori, non si può parlare di Grecia, di Eroi, senza fare i conti con Achille e Odisseo.

    Insieme a Merope e Ippocrate, a dirla tutta, viaggia anche un misterioso pitocco. Di lui, però, è bene non parlare…

    Francesco Battaglia

    Gennaio 2021

    Capitolo uno

    Vino Purpureo

    Merope sedeva assorto sul suo trono di Re. La coppa, colma di vino granato, esalava un profumo di rose e salvia. La bevve in un fiato, contemplò il calice vuoto. Un efebo riccioluto attinse dal cratere per rabboccarglielo. Merope lo lasciò fare, fece scorrere lo sguardo sul convivio.

    I commensali affollavano da ore l’ampio salone, bevendo e mangiando in allegria, tra fiumi di vino, pane biondo e mense fumanti di carne.

    – Gli dèi ti benedicano! – augurò uno di loro, alzando la coppa e libando in suo onore.

    – Lunga vita a Merope, il più ospitale dei sovrani! – proclamò un altro, intonando un coro garrulo a cui si unirono in molti, servitù compresa.

    Merope sospirò. In quei giorni ad Atene si festeggiavano le Anthesterie. E così a Kos, sua isola e regno, perché anche lì era primavera: si scoperchiavano i dogli affumicati e si saggiava il vino. Il respiro dell’Egeo li sfiorava dall’orizzonte purpureo, ma Merope non era felice. Quella, per lui, era la più crudele delle stagioni.

    Padre, prendimi! – cinguettò nel frastuono un fanciullo di pochi anni, attaccandosi a lui con le manine. L’uomo abbozzò un sorriso, sollevò il figlioletto e se lo mise sulle ginocchia.

    Eumelo! – gridò la nutrice, correndo in direzione del trono. – Non disturbare tuo padre.

    – Non importa – la zittì Merope, facendole cenno di attendere. Accarezzò il fanciullo e lo guardò a lungo, in silenzio, passandogli una mano tra i capelli ramati. C’era così tanto, in lui, di Etemea…

    – Padre… perché facciamo come gli Ateniesi? – chiese Eumelo, curioso. Merope sorrise.

    – Perché in passato a uno dei nostri antenati capitò una cosa molto strana. Ti ho mai raccontato di Re Euripilo, figlio di Poseidone?

    Il fanciullo scosse il capo.

    – Tempo fa, durante la guerra di Troia, trovò una cassa ben nascosta e la aprì. Neanche immagini cosa conteneva.

    Il fanciullo pendeva dalle sue labbra.

    – Un’effigie, cioè il simbolo sacro di un dio, forgiata da Efesto in persona. Ma era un simbolo segreto, perché raffigurava un dio ancora sconosciuto. Ed Euripilo, che non poteva capirlo, lo vide e impazzì.

    – Per sempre? – bisbigliò Eumelo con un filo di voce. Merope scosse il capo e sorrise ancora.

    – Solo finché il dio dell’ebbrezza non si rivelò agli uomini. Si presentò come Dioniso e donò a tutti quella stessa pazzia. E la storia finì bene.

    – Ci sono anche storie che finiscono male?

    Merope annuì, cupo. Si perse con lo sguardo tra i lineamenti del fanciullo, così simili a quelli della madre. Etemea. Rincorse i ricordi e li ritrovò, ancora intatti, in una ninfa dagli occhi liquidi e le chiome ramate, mosse da Zefiro. Rivide le membra d’avorio che Eros, dolce tiranno, gli aveva scolpito dentro, mentre l’amava tra le erbe, i fiori e gli scogli battuti dal mare.

    Risentì il fiato di Thanatos, la morte. Il dardo sibilante di Artemide.

    – Le più importanti – rispose il sovrano a denti stretti. – Quando un dio si avvicina a un mortale, segue sempre una cosa crudele. Non sono nostri amici. Non lo saranno mai.

    Baciò il figlio sulla fronte e lo riaffidò alla nutrice. La donna e il fanciullo si allontanarono. Merope si rigirò il calice decorato tra le mani. Anche lui, come il suo avo, stava uscendo di senno? Pensò a Eracle, consumato da Lyssa,

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