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Dancing with the Lion: L'ascesa
Dancing with the Lion: L'ascesa
Dancing with the Lion: L'ascesa
E-book412 pagine5 ore

Dancing with the Lion: L'ascesa

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Info su questo ebook

Dopo aver concluso gli studi, Alexandros viene eletto reggente di Makedon mentre suo padre è impegnato in una campagna militare.  Il nuovo ruolo di autorità lo riempie d’orgoglio, poiché è ciò per cui è nato, ma al tempo stesso crea attrito con sua madre e Hephaistion.
La tensione tra Alexandros e il re cresce, così come quella tra Makedon e le città-stato della Grecia meridionale. Al suono dei tamburi di guerra, il re e il principe litigano durante la marcia che li porterà a incontrare in battaglia gli altri greci. Come se non bastasse, suo padre vuole che Alexandros generi un erede e ritiene che debba trovarsi un’amante, idea a cui Alexandros si oppone
Dopo aver pacificato il sud, gli scontri in famiglia permangono. L’ostilità tra Alexandros e suo padre esplode durante i festeggiamenti per l’ultimo matrimonio del re; il principe si vede costretto ad andarsene nel cuore della notte con la madre e Hephaistion.
I rigori dell’esilio mettono a dura prova i rapporti, ma la sfida più grande, quella per il trono, deve ancora arrivare: un duello di potere tra il giovane cucciolo talentuoso e il vecchio leone.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ago 2023
ISBN9791220706070
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    Anteprima del libro

    Dancing with the Lion - Jeanne Reames

    1

    REGGENTE

    Icapelli arricciati dall’umidità rivelavano che Alexandros si era appena fatto il bagno, e Philippos scosse il capo. Sarebbe mai riuscito a comprendere suo figlio? Potevano esserci Artaxerxes e l’intero esercito persiano seduti sulle scale del palazzo, e Alexandros avrebbe perso tempo a lavarsi prima di occuparsene. Ma a prescindere da quelle peculiarità, il ragazzo era diventato un buon soldato. Non c’erano più stati incidenti come quella notte in Thrakē due anni prima. L’esercito ormai lo chiamava il leoncino di Philippos.

    Era anche forte. Non alto, ma robusto, con il petto ampio, le spalle larghe e cosce tornite che rivelavano le ore passate a cavallo. Era cresciuto lentamente e aveva evitato la fase dinoccolata e goffa che affliggeva tanti adolescenti. E soprattutto non stava ingobbito. Sapeva cogliere di sorpresa le persone arrivando loro alle spalle e guardandoli dall’alto in basso. Da lontano, la sua posa, il carisma e la voce profonda lo facevano apparire imponente.

    «Ho sentito che ieri sei tornato da Thrakē,» disse Alexandros. «Quanto ti fermerai?»

    «Non a lungo. Sono venuto a prendere rinforzi; tra due giorni marceremo per il Khersonesos.» Spinse indietro una sedia e invitò il figlio a sedersi con un lieve cipiglio. «Questa campagna è interminabile.» Senza dubbio il ragazzo si stava preparando per l’adunata, o addirittura sperava che la recente convocazione da Mieza fosse intesa a comunicargli la promozione a comandante di un intero squadrone di duecento cavalli. Philippos lo riteneva pronto, ma aveva solo sedici anni e gli uomini non lo avrebbero accettato. Ovviamente il giovane era troppo temerario per capirlo. Il re in ogni caso aveva una soluzione migliore che avrebbe soddisfatto entrambi. Gettò un anello al figlio. «Pensi di poterlo tenere d’occhio mentre sono via?»

    Alexandros riconobbe l’anello e spalancò gli occhi. «Il tuo sigillo

    «Sì.»

    «Perché me lo stai dando?»

    «Di solito perché un re dà il sigillo a qualcuno?»

    «Per farlo reggente, ma…» Il viso di Alexandros era un capolavoro di espressioni contrastanti; non avrebbe mai ingannato un nemico. «Mi stai nominando… io sono il… ma Antipatros…»

    «Antipatros rimarrà con te per consigliarti, ed Eumenes con lui. Sei un buon comandante e un discreto soldato, ma non un amministratore. Non ancora. Quella capacità arriva con l’esperienza, e penso che sia tempo che tu ne faccia.» Prese uno stilo dal tavolo e se lo rigirò in mano. «Ascolta i tuoi consiglieri, impara a gestire la tesoreria, a giudicare un caso, e controlla tua madre. Soprattutto, mantieni aperte le linee dei rifornimenti. Questo non è un gioco. Al minimo sbaglio tornerò indietro e Antipatros avrà il sigillo. Hai capito?»

    «Sì, mio re.» Alexandros era così stupito da scordarsi di irritarsi per la frecciatina a Olympias.

    «Bravo ragazzo.» Philippos si lisciò la barba. «Brami una promozione; non pensare che non lo sappia.» A quelle parole, Alexandros fece un gran sorriso. «Dimostrami di essere in grado di gestire gli affari qui e ti darò da guidare duecento cavalieri in battaglia. Forse addirittura trecento.» Lo Squadrone Reale. In quanto principe, una volta abbastanza grande sarebbe stato suo. Il re si alzò. «Hai qualcosa da dire?»

    Non si aspettava nulla, così si meravigliò quando il figlio sussurrò: «Grazie, Pappá.»

    Il ragazzo lo chiamava di rado così; di solito era solo pater, padre, e Philippos solo in quel momento si accorse di quanto gli fosse mancato. Poi rise di se stesso. Sei un povero vecchio sentimentale. Ma ciò non mutò la profondità delle sue emozioni.

    «Ora non diventarmi spocchioso,» disse, perché non sapeva come esprimere Sono orgoglioso di te. Per una volta, Alexandros doveva aver riconosciuto il reale significato delle sue affermazioni invece che dedurne altri, e sorrise. Philippos ricambiò, poi gli fece cenno di avvicinarsi. «Lascia che ti mostri i miei piani. È bene che tu li conosca.» Appoggiò con noncuranza una mano sulla spalla del figlio. Alexandros non si ritrasse.

    Quando Alexandros se ne andò non riuscì a trattenere un certo brio nel passo; il primo istinto fu di trovare subito Hephaistion, ma si diresse invece da sua madre. Lei si sarebbe risentita se Hephaistion l’avesse saputo per primo. Il fatto che l’amico non le piacesse sembrava ad Alexandros un indiretto rifiuto personale e lo costringeva a nasconderle alcune cose, non perché se ne vergognasse, ma perché lei non voleva capire e lui non ci teneva a discutere.

    Era seduta in cortile, con un abaco e alcune tavolette di cera sparse attorno a sé. Quando la raggiunse, lei stava prendendo appunti e borbottava della legna ricavata dal taglio estivo e di semi da piantare in autunno. Sollevò un dito a indicargli di non interromperla.

    Kleopatra era in ginocchio sul portico alle sue spalle, le mani sprofondate in un catino per la tintura. La lunga treccia le era scesa sulla spalla e la punta era immersa nell’acqua rosso scuro. Alexandros la scostò per lei e gliela legò dietro la testa. «Kleo, sei un disastro,» disse con affetto. La amava di un amore semplice, non complicato. Si sedette al suo fianco, e lei gli schioccò un bacio sulla guancia.

    Lì accanto, due serve cardavano e filavano, e nella stanza d’angolo altre stavano tessendo. Dalla cucina giungeva il chiacchiericcio dei cuochi, che mal si sposava con il gorgoglio della fontana e il mormorio delle voci femminili. Il sole calante dipingeva lunghe ombre e sfumava il mondo di verde dorato. Dopo una pausa, come se avessero trattenuto il fiato, le cicale iniziarono il loro canto serale.

    Dopo aver finito con i calcoli, sua madre posò la tavoletta e lo guardò. Alexandros si alzò senza dire nulla e le mise sotto il naso la mano con il sigillo. Lei si accigliò, la scacciò, poi si bloccò a fissarla e l’afferrò per vedere meglio. «Aleko!» Balzò in piedi e gli gettò le braccia al collo.

    Il suo viso si infiammò nonostante fosse tanto fiero di sé. «Madre!»

    Kleopatra aveva abbandonato la tintura, e lui roteò gli occhi al sorrisetto che nascose dietro il palmo.

    Myrtalē lo spinse via e gli baciò le guance. «Sono tanto orgogliosa di te! Sai cosa significhi tutto questo. Da ora tutti ti vedranno come il suo erede.» Lo abbracciò di nuovo e lui ricambiò. «Questo è ciò per cui ho lavorato tanto a lungo, nonostante l’opposizione di Amyntas e Arrhidaios.» Lo scostò e lo fissò in volto. «Ce l’abbiamo fatta, Alexandros!»

    Al plurale?

    Il piacere che aveva provato si raffreddò all’istante. Era stato lui a uccidere il cinghiale a soli dodici anni; lui aveva combattuto in prima linea; lui aveva impressionato suo padre al punto da diventare il più giovane ufficiale tra i Compagni. Lei cosa aveva a che fare con tutto ciò? Si era recato lì per sfoggiare il suo successo, non perché gliene sottraesse il merito.

    Ma cosa poteva dire? Era stata lei a portarlo in grembo per nove mesi, senza mai fargli dimenticare quanto fosse stata difficile la gravidanza. Sempre lei a dargli Helanikē come balia e Leonidas come tutore. Né Arrhidaios né Amyntas avevano avuto una balia di nobili natali o un principe dei Molossi come insegnante.

    «Madre,» disse facendo un passo indietro. «Per favore.» Il suo tocco all’improvviso lo infastidiva.

    Lei rise e gli tirò l’orecchio. «Ah, i giovanotti! Un attimo prima ti si rannicchiano in braccio come bimbi, e quello dopo sono diventati spinosi come istrici.» Tornò a sedersi e si strinse le braccia attorno al corpo per l’eccitazione. Stava pianificando qualcosa; Alexandros conosceva bene quello sguardo, gli occhi blu puntati al cielo, verso qualcosa che lui non poteva vedere.

    Kleopatra venne ad abbracciarlo, badando a non macchiarlo con le mani gocciolanti. Rispetto alla manifestazione di entusiasmo di sua madre, la stretta di sua sorella appariva più sincera. Sua madre era concentrata solo su se stessa, mentre Kleopatra su di lui. Il confronto lo turbò, come se stesse vedendo Myrtalē da una grande altezza, e lei gli sembrasse piccola e insignificante.

    «Cosa c’è?» gli chiese la donna. «Hai una faccia strana.»

    Non sapeva come spiegarsi, così spostò lo sguardo verso il cortile. «Niente.»

    «Non è vero. Ti conosco troppo bene. Perché menti?»

    Tornò a fissarla e la vide accigliata. Kleopatra era tornata al suo lavoro, silenziosa e dimenticata. Avrebbe voluto distaccarsi con altrettanta facilità, ma aveva imparato altre strategie. Con un sospiro plateale disse alla madre: «Dici sempre che mento quando non è vero.»

    Lei abbassò lo sguardo, e il sole creò un alone dorato sulle trecce bionde. Era graziosa come un pallido eliantemo. Il senso di colpa lo spinse a fare pace, ma poi la donna disse: «Non parli più con me.»

    Alexandros strinse i pugni. «Parlo, ma tu non mi ascolti.»

    «Io non ti ascolto? Ti ascolto da tutta la vita! E non osare rivolgerti a me con quel tono, ragazzino!»

    «Allora non parlarmi come se avessi sei anni. Ora sono un uomo.»

    Sgranò gli occhi. «Un uomo? Sei il ragazzo di Hephaistion. Puoi anche indossare il sigillo, ma mi chiedo chi di voi due si siederà sul trono. Potresti stargli in braccio, ti piacerebbe, no?»

    «Madre!» Si sentiva la testa leggera e il petto contratto dall’umiliazione. «Questi non sono affari tuoi.»

    «Oh, penso siano affari di tutta la Makedonia se il suo principe lascia che un altro uomo lo comandi.»

    Fece un passo avanti, furibondo, fino a incomberle sopra. «Ma se lo fa una donna invece va bene? È ciò che vorresti, no? Maledetta Furia…» Sollevò il pugno, e lei si ritrasse.

    Il principe si bloccò, sconvolto. Ma cosa stava facendo?

    «Avanti, colpiscimi.» Nonostante si tenesse a distanza non sembrava spaventata. «Chiamami una Furia, e scatena su di me tale ira.»

    Ma lui non era suo padre, e non l’avrebbe lasciata vincere tanto facilmente. «Smettila di cercare di mettermi contro Hephaistion.» Girò sui tacchi e si allontanò a grandi passi. Raggiunse un magazzino al piano inferiore, vi si barricò e si rannicchiò con le ginocchia al petto e il capo chino.

    Lei alternava momenti in cui lo teneva legato a sé e altri in cui lo allontanava. Prima lo lodava, poi lo umiliava. Quell’atteggiamento gli lacerava il cuore e non la capiva, né capiva cosa volesse da lui. Come poteva diventare qualcuno se lei era sempre alle sue spalle a ricordargli quanto aveva fatto per lui? Gli aveva dato la vita, i migliori insegnanti, lo aveva persino innalzato sopra i suoi rivali grazie a una discendenza doppiamente regale. Come se, senza di lei, Alexandros non fosse nulla.

    Era vero? Da solo non avrebbe raggiunto nulla? Suo padre da una parte, sua madre dall’altra. Non c’era niente che potesse chiamare suo merito? Si portò il pugno alla bocca e si morse l’indice finché non provò dolore e lui smise di tremare. Poi scostò il pugno e lo scrutò incuriosito, come se fosse un bizzarro pesce abissale. Il segno dei denti marchiava la nocca e il dito si stava gonfiando. Scosse distratto il capo e uscì dal magazzino.

    Ad aspettarlo fuori trovò Kleopatra.

    «Che c’è?» le chiese suo fratello appena la vide, ma in quella domanda lei lesse più sorpresa che rimprovero.

    «Davvero tu e Hephaistion siete…?» Lasciò sfumare le parole nella speranza che lui negasse.

    «Amanti?» sbottò. «Sì.»

    Kleopatra distolse il viso per nascondere la delusione, ma non era stupita. Durante le lezioni di geometria aveva colto che tra i due ci fosse qualcosa di profondo. Aveva solo scelto di ignorare l’ovvio. Hephaistion era innamorato di suo fratello, non di lei. E razionalmente sapeva anche che suo padre non l’avrebbe mai fatta sposare con il figlio di Amyntor in ogni caso; non era una persona abbastanza importante.

    Ma non c’era niente di razionale nelle cotte, e la disillusione le si depositò nello stomaco come una palla di impasto non lievitato.

    Lottò contro il tremore del labbro. «Sai cosa diranno,» lo ammonì, perché si sentiva meschina nonostante non volesse esserlo, ed era arrabbiata con lui per come aveva trattato la loro madre.

    «Ho già sentito tutto. Ma Akhilleus era l’amato di Patroklos.»

    «A loro non importa, Aleko. Devono vederti regnare da solo. Mostra loro di esserne in grado e non ti faranno altri commenti. Nostra madre intendeva solo questo.»

    «Sai che non è vero.» Digrignò rabbioso i denti. «Lei vuole prendersi il merito di tutto, come se… come se fossi una sua propaggine. E ce l’ha con Hephaistion perché lo amo. Lei non è più al primo posto, per me.»

    «Ma tu lo sei ancora per lei. Io no, né lo sarò mai.»

    L’espressione di Alexandros si fece severa. «Ti vuole bene, Kleo. E anche a Thessalonikē.»

    «Lo so. Ma non le garantiamo niente.» Kleopatra comprendeva cosa significasse essere la reale consorte. Un giorno lei stessa avrebbe avuto figli e figlie, e anche per lei il maschio sarebbe venuto al primo posto, per forza di cose. Avrebbe solo desiderato che la madre lo rendesse meno palese. «Dipendiamo tutte da te.» Inclinò il capo e cercò di vedere la situazione dal suo punto di vista. «Per te dev’essere un fardello gravoso.»

    «Per cui sono nato.»

    «Vorresti mai che non fosse così?»

    «Per essere una ragazza sei molto filosofica.»

    Sollevò irritata le sopracciglia. «Cosa sarebbe, un complimento, un insulto o un modo per evitare la domanda?»

    «Un po’ tutte e tre le cose, forse.» Fece qualche passo indietro, poi si fermò. «Mi hai fatto pensare, e non solo reagire. Quindi sì, sei filosofica, ed è un complimento. Sei la più saggia di tutti noi, e non solo nostra madre ti vuole bene, sorella mia. Anche io.» E se ne andò.

    Era pur sempre un modo per non risponderle, ma almeno era stato gentile.

    Dopo una settimana, Hephaistion fu certo che Alexandros lo stesse evitando. La gran parte dell’esercito e tutti i loro amici erano andati in guerra con Philippos, ma lui era rimasto a Pella per Alexandros, pensando scioccamente di essere desiderato, salvo poi scoprire di non avere nulla da fare. Il principe era troppo occupato, o fingeva di esserlo, per passare del tempo con lui, così trascorreva le giornate a vagare per la città con i suoi segugi, o a frequentare Kleopatra per parlare di matematica, in compagnia di una vecchia serva o di Thessalonikē per decoro. In quei giorni vedeva più le sorelle di Alexandros che Alexandros stesso. Kleopatra era piacevole, ma non era lei che voleva.

    Il suo rapporto con Alexandros era mutevole come la luna. A volte l’affetto del principe era un animale selvatico che andava domato; altre era un cucciolo troppo bramoso di attenzioni. Hephaistion aveva imparato a leggere le fluttuazioni emotive del ragazzo e a comportarsi di conseguenza. Ma Alexandros non lo aveva mai ignorato.

    Stavano insieme da un anno, un tempo molto lungo per dei ragazzi della loro età. Leonnatos era al suo secondo amante dopo Perdikkas, e Derdas ne aveva avuti sette. Hephaistion avrebbe potuto avere un ragazzo diverso a ogni luna se lo avesse desiderato; nel gymnasion, in molti sospiravano al suo passaggio. Ma il suo interesse era costante. Voleva solo Alexandros. Ma se il principe non l’avesse più voluto? Lasciato solo in preda ai suoi dubbi, Hephaistion era teso, tormentato dall’incertezza che gli si gonfiava dentro come lievito. Non riusciva a mangiare né a dormire. Alla fine, stufo di sopportare, aveva deciso di affrontare la questione.

    Il pomeriggio era uggioso; la nebbia copriva le colline e offuscava la luce, rendendo scivolose le pietre delle strade e opprimendo anche l’anima. Hephaistion entrò nel megaron dove Alexandros teneva corte. Percorse il peristilio sul perimetro e finse di studiare gli scudi decorativi appesi alle pareti. Erano stati conquistati durante diverse battaglie di Philippos, un bel promemoria per gli ambasciatori in visita: dietro le offerte diplomatiche del re si celavano delle sarissai. Alexandros sedeva su una sedia davanti al trono del padre ed era intento ad ascoltare dispute legali. Se si era accorto dell’ingresso di Hephaistion non ne diede cenno.

    Ti aspettavi forse che lo facesse? si chiese sarcastico Hephaistion.

    Il caso di cui il principe si stava occupando era un classico: una questione minore gonfiata in maniera sproporzionata; il nodo del problema era soffocato da strati e strati di patetiche recriminazioni. Hephaistion aveva spesso fatto da mediatore tra dispute fraterne e aveva imparato presto come riconoscere le implicazioni sommerse. In quel caso, le due parti in lotta parlavano di pecore rubate e pascoli invasi. Alexandros ascoltò, tamburellando sulle labbra con le nocche della mano sinistra, l’espressione intenta. La sua attenzione veniva data in maniera integrale, e bruciava come una torcia. Avrebbe potuto incenerire un uomo con il fuoco del suo sguardo.

    Mentre accusa e difesa finivano con le loro dichiarazioni, si appoggiò allo schienale e incrociò le caviglie con aria molto infastidita. Indicò quello che aveva rubato la pecora e disse: «Restituiscigli l’ariete, Lakio.»

    «Non può!» esclamò l’altro, Sarpedon. «Quel figlio di una capra l’ha macellato

    «O Zeu! Perché non lo hai detto subito?» Con un gran sospiro, il principe indicò l’altro imputato. «Allora risarciscilo per la sua perdita.»

    Alexandros non aveva colto il cuore della contesa. Hephaistion si spostò al margine della folla per farsi strada verso la prima fila. Il movimento attirò lo sguardo di Alexandros, e Hephaistion indicò la porta con un cenno del mento, quindi se ne andò. Dopo qualche istante, il principe lo raggiunse davanti all’alcova dei segretari accanto alla scalinata.

    «Cosa vuoi?» Alexandros stava ben piantato a terra con i pugni sui fianchi. L’occhio destro appariva nero, in brutale contrasto con l’altro, azzurro intenso.

    Hephaistion si appoggiò alla balaustra di legno e parlò a bassa voce per non farsi sentire dagli uomini alle scrivanie. «Chiedere a Lakio di risarcire Sarpedon risolve la questione per il momento, ma torneranno nel giro di un mese per un’altra pecora, o una vacca o qualcosa di altrettanto sciocco.»

    «Taci, Amyntoros. Non ho chiesto il tuo parere.»

    Hephaistion lo fissò. Ma cosa gli prendeva. «Stai facendo uno sbaglio, Aleko.»

    «E allora dimmi cosa faresti tu.»

    Si scostò dalla balaustra. Se Alexandros fosse stato più alto sarebbero stati naso a naso. «Pensa, d’accordo? Non si tratta di una pecora, ma del fatto che un tempo il campo di Lakio apparteneva alla famiglia di Sarpedon. Vai a chiedere quanto spesso le greggi di Sarpedon hanno vagato oltre la recinzione di due cubiti verso il pascolo di Lakio.»

    «Come fai a sapere certe cose?» Ma Alexandros non dubitò che fossero vere. Tra i vari usi triviali che faceva di Hephaistion c’era la raccolta di voci di palazzo. I ragazzi definivano Harpalos un pettegolo, ma Hephaistion conosceva più scandali di quanti Harpalos avrebbe mai potuto sospettare; semplicemente non li sbandierava davanti a tutti. Harpalos li raccoglieva perché gli permettevano di avere attenzioni; Hephaistion perché odiava farsi cogliere alla sprovvista.

    In quel momento si limitò a scrollare le spalle e Alexandros se ne andò con un profondo cipiglio. Hephaistion attraversò l’atrio per ascoltare ciò che accadeva nella grande sala. Dopo poco sentì Alexandros chiedere agli uomini ciò che lui stesso gli aveva suggerito. E quelle parole lo fecero sorridere.

    Saltò fuori la storia di una faida che durava da quattro generazioni, e Alexandros costrinse i due a trovare un accordo. In cambio di una parte della lana ricavata, le pecore di Sarpedon avrebbero potuto pascolare con il bestiame di Lakio. Una soluzione semplice, ma nessuno dei due si sarebbe abbassato a proporla. Hephaistion sentì Lakio dire: «Ma è una questione di principio!» e rise piano tra sé. No, non era affatto una questione di principio.

    «Non farmi mai più una cosa del genere.» Alexandros spinse via la tenda che separava la stanza da bagno privata dalla sua camera da letto. Hephaistion alzò lo sguardo da dov’era seduto nella vasca di terracotta. Il principe lo raggiunse e prese una spugna per lavargli la schiena.

    «Lakio e Sarpedon sono soddisfatti?» chiese.

    «Chiudi il becco.»

    «Sto solo cercando di badare alle necessità del mio reggente.»

    «Stai cercando di ficcanasare.»

    «Ma hai ascoltato il mio consiglio.»

    «Avevi ragione, peoskephalas.» Testa di cazzo.

    «E non ti va giù, vero?» Hephaistion si voltò per guardare l’amico. Alexandros non rispose e fece un passo indietro. «Aleko, cosa ti tormenta?»

    «Niente.»

    «Stronzate!» Si alzò e afferrò un telo per asciugarsi il petto, poi se lo gettò in spalla prima di rivestirsi. Alexandros spinse la vasca verso lo scarico e lasciò sgorgare l’acqua dentro il tubo che l’avrebbe portata sotto il palazzo. Vuotare la vasca era un lavoro da schiavo, ma Alexandros preferiva occuparsene di persona che mandare a chiamare qualcuno. Per lui la privacy era importante, così come lo era per Hephaistion. I loro amici li ritenevano strani.

    Alexandros si girò e si appoggiò alla vasca. «Senti, porto il sigillo. Devo dimostrare di esserne degno, cosa che non posso fare se tutti pensano che ci sia tu seduto sul trono.»

    «Per i Gemelli!» Per un istante Hephaistion fu troppo irritato per continuare. Si arrotolò l’asciugamano attorno ai fianchi. Vivere con Alexandros era come costruire una casa sulle pendici di un vulcano: il terreno era incredibilmente fertile, ma le eruzioni erano devastanti. «Non voglio il tuo dannato trono. Non tutti lo desiderano. Alcuni di noi hanno ambizioni da persona normale: buona terra, buoni cavalli, buon raccolto. E così oggi ti ho dato un consiglio. E allora? Sei stato tu a spingerli all’accordo. Io non ho la tua pazienza.»

    Con cura maniacale, Alexandros sistemò le spugne e i barattoli d’olio sul tavolo. «Stai evitando il punto cruciale di proposito. Sono il principe reggente, non il tuo ragazzo.»

    Hephaistion, folgorato, lasciò cadere il telo. «Cosa

    «Non posso far vedere che mi manipoli.» Alexandros parlò rivolto alla finestra chiusa. Dalle fessure delle imposte filtravano lame di luce.

    Hephaistion si rivestì in silenzio. Se anche avesse avuto le parole, non sarebbe riuscito a pronunciarle, con quel nodo che gli serrava la gola. Indossò il mantello e uscì. Camminò a lungo, per tutta la notte. Il mattino successivo fece i bagagli, sellò Brephas e partì per Europos.

    Occupato prima nella sala delle udienze, poi con i dispacci nella stanza privata di suo padre, Alexandros rimase sconvolto quando scoprì che Hephaistion aveva lasciato Pella. Scrisse di suo pugno una lettera per non rivelarne il contenuto ai segretari. Ci vollero sette tentativi su cera per redigerla correttamente, per spiegare, rimproverare, scherzare come intendeva, prima di imprimerla sul papiro. Hephaistion era permaloso. Ma dovevano risolvere la faccenda una volta per tutte.

    Alexandros fece inviare la lettera prima di cena e la risposta arrivò all’alba, portata da uno stallone baio. Eumenes bussò alla porta della stanza privata del re dove Alexandros stava ricevendo le notizie mattutine dal fronte e ascoltando i consiglieri su faccende di sicurezza. «C’è qui Hephaistion.» Il disgusto gli venava il tono. «Chiede di dirti che ti attende nel megaron a tua discrezione.»

    Parole che si era aspettato. Alexandros sorrise nonostante tutto e rimpianse di non essere stato presente per ascoltare la replica di Eumenes. «Ti ringrazio.» Il segretario sparì.

    Alexandros fece attendere Hephaistion fino alla fine della breve riunione, poi prese una via secondaria ed entrò nella grande sala da un ingresso laterale. Con le braccia incrociate e ingobbito, Hephaistion era in piedi al centro della stanza, rivolto al trono, con le borse gettate ai piedi sulle piastrelle bianche e nere. Alexandros si prese un istante per ammirarlo, poi sussurrò: «Hephaistion.» Fu una soddisfazione vederlo trasalire. Si era di certo aspettato che il principe facesse uno dei suoi ingressi in grande stile.

    Alexandros indicò la porta socchiusa dietro di sé; l’amico prese i bagagli e si lasciò condurre nel magazzino che conteneva la biblioteca di Euripides. L’istinto aveva guidato la scelta di Alexandros, e quando si trattava di Hephaistion era sempre meglio seguire l’istinto.

    Quando arrivarono accese un paio di lampade mentre l’amico si guardava intorno. Lui non aveva mai visto quel posto. Prima di Mieza, Alexandros non lo conosceva abbastanza da fidarsi di lui, e da allora lui stesso non aveva avuto molto tempo per recarsi lì. Ma in quel luogo nessuno li avrebbe disturbati; avrebbero potuto dirsi tutto ciò che era necessario. Chiuse la porta e tirò il chiavistello.

    Hephaistion raggiunse le mensole a nido d’ape piene delle pergamene di Euripides e le osservò. La treccia nera pendeva tra le scapole, e Alexandros voleva accarezzarla. Hephaistion gli faceva desiderare cose che non sapeva nemmeno come articolare.

    «Quindi è qui che l’hai preso,» disse Hephaistion.

    Alexandros tornò a concentrarsi sul cuore della questione. «Preso cosa?»

    «Il rotolo che hai portato al dormitorio, l’Arkhelaos.»

    «Sì, arrivava da qui. E anche gli altri che ti ho prestato.»

    «Perché non mi hai parlato di questa stanza?»

    Fu sul punto di rispondergli Non mi è venuto in mente, ma ciò avrebbe portato a un litigio. Cosa che Hephaistion voleva; Alexandros sentiva un’aura bellicosa irradiarsi da lui come il calore da una pietra. «Te ne ho parlato ora.»

    Hephaistion ripose il rotolo. «Hai organizzato la collezione.»

    «Sì.»

    «Sei la persona più ordinata che conosca.»

    Alexandros sorrise. «Odio il disordine quasi quanto l’insubordinazione.»

    L’altro ragazzo ignorò la battuta e si strinse nel mantello. «Qui si gela. Ma tu sei indifferente al clima, vero?»

    Alexandros si chiese se ci fosse un doppio senso. Si accucciò vicino a un baule. «Vieni qui, voglio mostrarti una cosa.» Ormai aveva rivelato il suo posto segreto, tanto valeva andare fino in fondo. «Quando ero piccolo, mi piaceva indossare queste cose e fingermi Akhilleus.»

    Hephaistion si chinò a prendere un antico elmo illirico e se lo rigirò tra le mani. Il bronzo era opaco, ma l’elegante bordura dorata e il pennacchio bruno gli avrebbero donato. «Indossalo,» disse Alexandros.

    L’amico gli scoccò un’occhiata, cui il principe annuì. «Dai.»

    Hephaistion si raddrizzò e si infilò l’elmo con una sorta di torpida solennità. Alexandros lo seguì con lo sguardo. «Sembri un cavaliere trace,» una delle figure quasi epiche di traci e peoni.

    L’altro si tolse l’elmo e si voltò. «Non prendermi in giro.»

    «Non lo sto facendo.»

    In silenzio e dandogli le spalle, Hephaistion giocherellò con le cinghie di cuoio. Erano vecchie e tarlate.

    «Prendi l’elmo,» gli disse Alexandros. «Ripuliscilo e indossalo per me.»

    «Ma è un elmo da re!» esclamò Hephaistion voltandosi di scatto con la bocca spalancata.

    «Sì.» Il principe si alzò. «Apparteneva ad Alexandros il Dorato.» Re durante le Guerre Persiane. «Ma mio padre ha un suo elmo, e io anche. Quello è tuo.»

    «Con che diritto me lo doni? Se era di Alexandros, spetta a tuo padre decidere a chi darlo.»

    «Con il diritto di chi l’ha trovato.» Alexandros sorrise. «Non lo usa nessuno da secoli. Mi hai restituito la mia spada; lascia che ti dia questo.»

    Hephaistion arrossì. Si notava anche nella penombra dell’attico. «Non avresti mai dovuto darmela.»

    «Lo so, ma mi sentivo in colpa. Non avevo un regalo per il tuo compleanno.»

    «Forse non volevo niente se non la tua presenza!» Hephaistion gettò l’elmo su un divano. «Non voglio i tuoi doni o i tuoi favori. E nemmeno il tuo trono.»

    Alexandros lo afferrò per la spalla e lo fece voltare. «Guardami!» Il viso di Hephaistion era una maschera; il dolore nascosto negli occhi neri era così affilato da poter scuoiare l’anima di un uomo. Era tempo di finirla. Evitare il problema non l’avrebbe risolto. «Non interrompermi mai più mentre tengo corte.»

    Un elegante sopracciglio nero si inarcò. «Anche se so qualcosa che dovresti sapere anche tu?»

    «Non era quello il motivo per cui mi hai interrotto. Volevi solo dimostrare di poterlo fare. Dici di non volere il trono, e ti credo. Ma vuoi comandare l’uomo che vi siede.»

    «Non è vero! Mi ignori da più di due settimane e volevo sapere il perché.» Gli diede le spalle. «Ti sei stufato di me?»

    Alexandros avrebbe voluto gridare, ma mantenne il tono controllato per sublimare la paura che Hephaistion volesse lasciarlo. «Non voglio litigare con te, Phaistas. Ti dirò le cose come stanno. Se potrai tollerarle, rimarremo insieme. Altrimenti non c’è futuro per noi.» L’altro non si mosse. «Mi stai ascoltando?»

    «Sì.»

    «Sono il principe. Al momento, anche il reggente. Non posso permettere che la gente pensi che sia solo l’innamorato di un altro uomo. Che Apollon mi sia testimone, lo sai.» Hephaistion aveva torto il collo e Alexandros vedeva il suo profilo addolorato. «E non ti ho ignorato. Stavo facendo il mio dovere. Non ho il tempo che avevo a Mieza per stare con te. Abituatici. D’ora in poi sarà così.

    «Se hai informazioni per me, ovviamente voglio sentirle. Ma ti comporterai con lo stesso decoro e rispetto che mi devono gli altri miei consiglieri. Non starai a imbronciarti negli angoli e non ti rivolgerai a me durante le udienze solo perché puoi farlo. Ti piace mettermi in imbarazzo?»

    «No.» Hephaistion si accigliò, il capo chino, e Alexandros quasi valutò di rimangiarsi quel che aveva detto. Ma se l’avesse fatto avrebbe perso la battaglia. Il suo amico era più forte di quanto pensasse. Quella forza era sotto la superficie, come i poteri del dio a cui doveva il nome: il fuoco della forgia, il fuoco della terra. Alexandros sospettava che spesso non fosse nemmeno conscio delle sue stesse macchinazioni. Quella potenza abbagliante era la fonte del suo magnetismo. Guadagnarsi l’amore di molti uomini era semplice, ma quello di Hephaistion… era tutt’altra faccenda.

    «Dannazione, sei orgoglioso,» disse Alexandros. Hephaistion si girò con un lieve sorriso. Pensava di stare vincendo. Il principe sferrò il suo colpo. «Mia madre mi ha consigliato di disfarmi di te.»

    Le narici del ragazzo fremettero. «Ecco perché… quella cagna! Mi ignoravi a causa sua!»

    «Non ti stavo ignorando! Hai preteso le mie attenzioni quando dovevo lavorare. Non dovrei essere qui in questo momento, ma ci tengo a te.» Per la prima volta distolse lo sguardo. «Mia madre si immischia, ma su un

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