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Syracusa
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E-book459 pagine6 ore

Syracusa

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Info su questo ebook

Klizia, voce narrante del romanzo, racconta le gesta del suo uomo, Nicone, un esule ateniese disonorato in patria. Rifattosi una vita in Sicilia, Nicone avrà finalmente l’opportunità di riscattare il proprio nome in occasione dell'assedio di Siracusa, all'apice della guerra fra Sparta e Atene, e dovrà difendersi dalla sete di vendetta della famiglia d’origine.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2017
ISBN9788863937749
Syracusa

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    Anteprima del libro

    Syracusa - Matteo Bruno

    PARTE PRIMA: ACQUA

    B

    1

    La storia che ho da raccontarti, Ippoloco, non inizia qui in Sicilia, bensì in Grecia, in una località chiamata Eleusi, non lontana da Atene.

    Eleusi era un villaggio affacciato sul mare, su cui incombeva un monte roccioso ricoperto di piante grasse e pini marittimi appollaiati su dirupi scivolosi. Possedeva un suolo ricco, abitato da contadini che affollavano case di mattoni crudi intervallate le une dalle altre da muretti, fertili campi di alberi da frutto e terrazzamenti modellati con pazienza sul fianco della collina per ospitare maestosi olivi dalle foglie verdargentate. Ma soprattutto Eleusi era celebre in tutta l’Ellade per un grande tempio sacro a Demetra, Signora della Spiga Munifica, che troneggiava sulle semplici abitazioni dall’alto di una ripida scalinata di pietra.

    Secondo la leggenda, infatti, in tempi antichissimi fu proprio a Eleusi che la dea, sotto le mentite spoglie di una vecchia innocente, fu ospitata a palazzo dal re Celeo e divenne la nutrice di suo figlio Demofoonte. Demetra, addolorata per il ratto della figlia Persefone, che era stata rapita da Ade e sprofondata nel sottosuolo, decise di rendere immortale il piccolo figlio del re; per questo lo nutrì di nascosto con il nettare d’ambrosia, lo crogiolò con il soffio divino e, una notte, lo espose al fuoco dei bracieri che scoppiettavano nel cortile. A quel punto, però, la madre, immaginando una fine atroce per il fanciullo, urlò di terrore e la scacciò in malo modo. Demetra allora, furibonda, rivelò la sua natura divina e ordinò che in quel luogo le venisse eretto un maestoso tempio all’interno del quale potesse rinnovarsi il ciclo di Persefone, che, nel frattempo, dopo la mediazione di Zeus, era stata obbligata a trascorrere soltanto quattro mesi all’anno con Ade, mentre nei restanti otto avrebbe potuto vivere con la madre sull’Olimpo. Durante il periodo nel quale la giovane rimane sottoterra, Demetra commisera se stessa e gli uomini, e la terra non germoglia; nel resto dell’anno, invece, le messi crescono rigogliose, benedette dalla felicità che la dea condivide con la figlia. A ogni primavera, dunque, per festeggiare la risalita di Persefone sull’Olimpo, gli adepti di Demetra danno luogo a una gioiosa processione durante la quale seguono un carro fino al tempio, dopodiché ballano, fanno baldoria e, nel corso dei Misteri Eleusini, noti ai soli iniziati, assumono particolari sostanze vegetali e bevono il ciceone.

    Quando iniziò la vicenda che intendo narrarti erano i primi anni della lunghissima guerra tra Atene e Sparta, che s’abbatté sul mondo intero come una macchia d’olio di lutti e stenti. A quel tempo una giovinetta cresceva nel tempio, ancella della dea e iniziata ai Misteri che una volta all’anno rinverdivano il mito di Persefone. Quella fanciulla era stata venduta ai sacerdoti quando era ancora in fasce per permettere ai genitori di soddisfare un annoso debito di famiglia, e lei non poteva né voleva sapere altro del suo passato. Usciva dal tempio raramente, giusto per andare al vicino pozzo ad attingere l’acqua o all’emporio ad acquistare le sostanze necessarie ai riti, e ogni sua mossa era controllata dall’occhio vigile di qualcuno. Il suo compito era quello di presiedere alle cerimonie pubbliche come esempio di vitalità e fertilità che potesse testimoniare il potere della dea. Infatti cresceva sana e bella, una perfetta personificazione della vita, e forse un giorno sarebbe persino potuta diventare somma sacerdotessa di Demetra, riverita e rispettata in tutta la Grecia, sebbene non fosse la sola ancella del tempio.

    Tra le altre, c’era anche Damira, una fanciulla di origine barbarica un po’ più giovane e un po’ più acerba, che divenne presto sua amica intima: spesso d’estate oziavano insieme al di sotto di una grande quercia da sughero che ombreggiava l’intero cortile, fantasticando sull’amore che speravano un giorno sarebbe venuto a rapirle sotto forma di un eroe bello come un dio. Le giovani imparavano a tessere, rammendare, cucinare e danzare al dolce suono dell’aulos, a compiere insomma ogni sorta di attività che si addicesse alle fanciulle consacrate a Demetra, e la loro vita trascorreva serena, senza che nulla mancasse loro. Non avrebbero avuto di che lamentarsi, se non fosse stato per i disgustosi beveroni a base di acqua, vino, menta, farina d’orzo e segale cornuta che una volta al mese erano costrette a ingurgitare. «È per onorare la dea» ripetevano i sacerdoti quando qualcuna faceva storie, il che avveniva di frequente, dato che quell’intruglio provocava loro fitte alle budella che andavano avanti per giorni, e talvolta persino allucinazioni. Ma quella era la normalità, l’unica esistenza possibile. Era la cosa più prossima a una parvenza di felicità.

    Aveva pressappoco tredici anni quando una mattina, nella stagione del grano maturo, giunse voce che un esercito nemico era in marcia per devastare il territorio attorno a Eleusi; e non si trattava di un esercito qualsiasi, bensì dei temuti soldati spartani, guidati da re Archidamo in persona. Quegli uomini erano combattenti così famigerati che lo stratego Pericle mise a tacere quanti ad Atene premevano per affrontarli a viso aperto, convinto che una battaglia si sarebbe risolta in un disastro, e ordinò invece la ritirata generale all’interno delle inespugnabili mura cittadine. Il solo modo per battere Sparta, diceva, era quello di impedire ai suoi opliti di sprigionare la loro devastante potenza in campo aperto, facendo terra bruciata attorno a loro e costringendoli a tornare in Laconia senza aver ottenuto alcunché. Fu per questo che in quei giorni una carovana inesauribile di uomini, donne, vecchi, bambini e animali di ogni sorta si mise in movimento da ogni villaggio dell’Attica, povera gente che stipò ciò che possedeva su carri traballanti o, chi ne aveva, sul basto dei muli. Una folla disperata e arrabbiata. Così come arrabbiati erano i soldati arrivati da Atene per controllare che nessun bene di valore fosse lasciato nelle mani del nemico. Eppure quegli uomini disgraziati avrebbero preferito combattere i nemici e morire sul campo di battaglia piuttosto che essere costretti a un’umiliante ritirata.

    La fanciulla si trovava sulla cima della scalinata del tempio di Demetra, pronta a rincasare dopo essere stata alla fonte ad attingere una brocca d’acqua, quando la colonna di profughi scortata dai soldati a cavallo passò a capo chino proprio sotto di lei. «Muoviti, straccione!» sbraitò un cavaliere dalla figura slanciata, colpendo con un vincastro la schiena di un povero diavolo che si era attardato per caricare su un carretto un tavolaccio di poco conto. «Se non ti dai una mossa, ti lasceremo in pasto agli spartani, che uccideranno te e i tuoi marmocchi, e venderanno tua moglie come schiava.»

    Gli altri soldati risero. Tutti tranne uno, che smontò dalla sua cavalcatura e aiutò il contadino e la sua famiglia a issare il tavolo sul mezzo, e poi a fissarlo con dei legacci di cuoio. Era un giovane dall’aria sicura ma gentile che, prima di rimontare a cavallo, incrociò per un momento lo sguardo della fanciulla, fissandola a lungo. Vide una giovinetta con una veste color perla, che a sua volta lo fissava con occhi splendidi da bambina nel corpo incerto di una donna. Portava una treccia di capelli castani attorcigliata sulla nuca, fissata con fermagli d’osso, e un’elegante collana con un pendente di lapislazzuli che le scendeva tra i seni già maturi. Anche per lei quell’attimo durò a lungo. E capì che i confini del tempio sacro le sarebbero stati troppo angusti, da quel momento in poi. D’istinto, sorrise al soldato.

    Quel giorno stesso la situazione precipitò: gli spartani in avvicinamento si divisero in due colonne; la prima, marciando a passo sostenuto, aggirò il promontorio alle spalle di Eleusi prima che l’evacuazione fosse portata a termine, mentre l’altra continuò ad avanzare lungo il litorale per chiudere la città in una tenaglia, tra il monte e il mare. In un attimo si diffuse il terrore. I contadini più risoluti corsero a casa a prendere falci, zappe e forconi, determinati a infilzare quanti più nemici possibile, prima di soccombere. Gli altri, con le mani nei capelli, aspettavano rassegnati la fine, mentre donne e bambini si disperavano. La fanciulla non resse a tanto strazio e corse a cercare rifugio tra le mura del tempio.

    Se gli spartani si presero tanto disturbo da organizzare quella manovra a tenaglia fu perché Eleusi non era un luogo qualsiasi. Il tempio di Demetra era famoso in tutta la Grecia per i Misteri che vi si celebravano ed era stracolmo di coppe e monili d’oro e d’argento, di casse traboccanti di lucide monete coniate in ogni dove, di fermagli, spille, anelli e mille altri oggetti preziosi, portati in dono dai padroni degli appezzamenti coltivabili nella speranza di ingraziarsi la dea. Erano ricchezze che avrebbero fatto gola a chiunque, soprattutto agli spartani che, all’inizio di quella guerra, erano sprovvisti di qualunque risorsa, al punto che si vociferava che avessero addirittura tentato di assoldare dei mercenari pagandoli con spiedi di ferro. «Gli spartani si impadroniranno di tutto!» gracchiò un vecchio sacerdote, rinsecchito come un uccellino caduto dal nido. «Va’ in cortile, scava una buca e nascondici tutto quello che riesci a trovare» disse a una schiava porgendole una vanga.

    Per i soldati ateniesi non c’era alcuna via di fuga, ma vollero battersi fino all’ultimo per preservare l’onore, che già era stato intaccato dalla decisione di Pericle di ritirarsi senza combattere. Tuttavia il loro filarco decise che almeno uno sarebbe dovuto correre ad Atene a informare gli arconti di quanto stava avvenendo, magari per convincerli a mandare una qualche forma di aiuto. Gli altri invece si sarebbero rinchiusi nel perimetro del tempio, erto su uno sperone di roccia e circondato da un solido muro di cinta, e lì avrebbero resistito il più a lungo possibile. Insieme a un manipolo di profughi entrarono nel recinto sacro con i loro cavalli adorni di cinghie e gualdrappe colorate, che tirarono per le redini e legarono nel cortile. Non erano che poche decine di soldati, in realtà; un numero così esiguo da non poter opporre una significativa resistenza, eppure lo sguardo di tutti quei giovani brillava di determinazione, e la fanciulla, guardandoli, fu certa che avrebbero difeso quella gente con le loro stesse vite, se fosse stato necessario. Cercò insistentemente il cavaliere che tanto l’aveva colpita, ripensando ai discorsi sull’amore che faceva con l’amica, e infine lo scorse che parlava con l’odioso compagno armato di vincastro. Lo fissò così a lungo che lui dovette percepire il peso del suo sguardo posato sulle braccia muscolose, sulle cosce robuste come tronchi d’ulivo, sul petto che desiderò cingere a sé, tanto che alla fine si girò e le abbozzò un sorriso. O almeno così le parve.

    Prima che calasse il sole, i soldati tirarono a sorte per stabilire chi avrebbe dovuto andarsene per allertare la città, e la giovane ancella maledisse il fato quando capì che era stato proprio il cavaliere che poco prima brandiva il vincastro a pescare il bastoncino più corto degli altri dalle mani del filarco. Lui sarebbe andato ad Atene, lui si sarebbe salvato. E non era giusto.

    Si allontanò dopo aver salutato i compagni a uno a uno, poco prima che gli spartani facessero la loro comparsa di fronte al tempio, circondandolo e precludendo a profughi e soldati ogni residua via di fuga. Li vide di sfuggita, ma tanto bastò a impressionarla. I nemici avevano elmi crestati da lunghi paraguancia, indossavano tutti lo stesso mantello color ruggine e imbracciavano un grande scudo rotondo sul quale era incisa la lettera lambda, iniziale di «lacedemone». Erano spaventosamente identici l’uno all’altro. Un brivido le percorse la schiena. Forse fu solo la suggestione per le tante storie che si sentivano su quegli invincibili guerrieri, una delle quali voleva che un loro antenato avesse inzuppato il mantello nel sangue dei nemici, colorandolo per sempre di rosso. Eppure, nonostante le leggende spaventose che li precedevano come l’ombra di un rapace prima che s’avventi sulla preda, fu certa che nel loro intimo vi fosse l’onore di soldati timorati degli dei e rispettosi dei giuramenti, e che non avrebbero infierito oltre modo su quella gente.

    «Presto, dobbiamo andare» le disse Damira, tirandola leggermente per la veste.

    «Andare dove?» domandò la fanciulla. «Siamo circondati.»

    «All’interno del tempio. Lo ierofante dice che dobbiamo bere una pozione.»

    «Perché?» insistette, allarmata da un istinto irrazionale.

    «Perché così dormirai profondamente e, se quella marmaglia ti violenterà, non sentirai dolore» spiegò Alcifrone, lo ierofante del tempio, un vecchio perennemente circondato da un olezzo di torba. Quel giorno, però, la fanciulla non volle bere. Altre volte era stata drogata nel corso della celebrazione dei riti sacri ma quella volta, per un impulso che non avrebbe saputo spiegare, non volle più. Cercò con lo sguardo il cavaliere che tanto l’aveva attratta, nella speranza di vederlo montare sul suo stallone, snudare la spada e lanciarsi in suo soccorso, ma lui era troppo impegnato con i compagni a presidiare il muro di cinta per badare a ciò che le passava per la testa.

    Un senso d’angoscia la pervase e s’intestardì oltre il dovuto nel non voler trangugiare l’orrenda pozione a base di semi di papavero. Urlò, pianse e prese a calci il servo che venne a turarle il naso per costringerla a ingurgitarla, finché in tre non la immobilizzarono obbligandola a inghiottire. «Sei una piccola sciocca» la sgridò lo ierofante, schiaffeggiandola. «Meriteresti di essere lasciata nuda alle brame di quella soldataglia!»

    «Perché non lo permetti, allora? Che ti importa di me?»

    «Sei un’ancella della dea, stupida. Morirai, piuttosto che essere disonorata» ribatté algido.

    Così comprese quale sarebbe stato il suo destino. Mentre la folla di profughi che si agitava nel cortile del tempio poteva sperare di essere ridotta in schiavitù, e di aver così salva la vita, per lei e per le sue amiche questa possibilità era preclusa. Non avevano scampo. Damira aveva già mandato giù l’intruglio di sua spontanea volontà e quasi subito cadde docilmente addormentata su un grande cuscino poggiato sul pavimento, in totale potere di Alcifrone. Anche la fanciulla accusò gli effetti della pozione: una terribile fitta allo stomaco e una serie di convulsioni. Poi, lentamente, la vista le si offuscò, si sentì debole, barcollò. Lo ierofante, con un ghigno, la sorresse, impedendole di cadere, e la adagiò di fianco alla sua amica. Il volto pallido di Damira fu l’ultima cosa che vide prima che anche il suo orizzonte diventasse nero. Temette di morire prima ancora di aver conosciuto l’abbraccio di un uomo. Che beffa sarebbe stata andarsene proprio quando fantasticava sull’amore e sul cavaliere a cui ancora non era riuscita a dare un volto.

    Durante quel sonno innaturale ebbe incubi, udì gemiti e rauchi lamenti; il clangore del ferro, le grida di battaglia, i rantoli dei feriti, l’odore della morte. Sentì il calore di una fiamma, un qualcosa di indefinito posarsi sulle sue narici e poi, d’improvviso, ebbe la sensazione di librarsi nell’aria come un uccello. Due braccia robuste la stavano sollevando.

    «Sei tu quella fanciulla, madre?» la interruppe Ippoloco.

    Klizia abbassò lo sguardo e si allargò in un sorriso. «A quel tempo ero molto bella, non come adesso che i capelli mi sono diventati quasi del tutto canuti e manco di un paio di denti. Gli uomini di solito mi guardavano con un’aria indecifrabile e io ero troppo ingenua per capire ciò che desideravano da me, almeno fino a quando non incontrai gli occhi di quel cavaliere, quel giorno d’estate sulla scalinata di un tempio lontano. Fu allora che compresi che il mio eroe tanto a lungo fantasticato era arrivato, e capii cos’era l’amore.»

    «Dunque è a Eleusi che hai conosciuto Lisania, mio padre?» domandò Ippoloco. «Non credevo fosse mai stato in Grecia, e a dire il vero non sapevo nemmeno che tu fossi originaria di lì.»

    Klizia distolse lo sguardo dalla curiosità del figlio. «Lasciami finire il racconto, e capirai ogni cosa» ribatté, con l’aria di chi è perso in quei ricordi lontani ancora vividi nella memoria. Tornò a guardare i cavalloni indorati dal sole. E riprese a narrare.

    Quando rinvenni, era seduto al mio fianco. Per un attimo rimasi confusa, stordita, in parte ancora prigioniera del mondo onirico, ma subito le mie fantasticherie si dissolsero perché lui si dimostrò molto diverso da come lo avevo immaginato. «Era ora che ti svegliassi, stavo per farlo io» esclamò, senza neanche guardarmi in faccia.

    «Che è successo?» domandai, massaggiandomi la testa. Ero intontita, avevo la sensazione che ogni muscolo del corpo mi facesse male. Ma ero viva. E l’uomo che avevo tanto desiderato era lì con me. Per un attimo, mi sentii felice.

    «Non posso dirtelo ora, dobbiamo andare» ribatté brusco, sollevandomi in malo modo da un giaciglio poggiato sul pavimento. «Ce la fai a camminare?»

    «Sì, credo di sì» risposi.

    Si mise a tracolla una custodia di canapa dalla quale spuntava l’estremità di un arco, legò alla vita la cintura della spada dall’elsa a testa di cavallo e mi intimò con un gesto perentorio di fare silenzio, dopodiché alzò una botola sul pavimento per sbirciare di sotto. Mi accorsi allora di essere al piano superiore di una delle abitazioni del villaggio, proprio di fronte al tempio. Mi trovavo in una specie di soppalco, uno stanzino il cui pavimento era ingombro di fili di paglia, probabilmente utilizzato come ripostiglio, a giudicare dalle casse di legno marcio che vi erano accatastate. Il tetto era di fango e c’era una piccola finestra dalla quale potei sbirciare fuori: era buio, fredde stelle brillavano in cielo riverberandosi sul vicino mare e i fuochi di numerosi bivacchi ardevano nell’abitato, attorno a ognuno dei quali si addensavano uomini ubriachi che russavano o che farfugliavano ad alta voce. Alcuni si trascinavano sulle gambe, uno addirittura cantava una canzone oscena stonando a ogni acuto e portandosi di tanto in tanto un otre di vino alle labbra. La maggior parte tuttavia dormiva profondamente, abbracciata ad alcune donne che sentii piagnucolare, ebbra dopo le celebrazioni della vittoria e lo spargimento del sangue nemico. Corpi immobili giacevano qua e là, soprattutto nei pressi del muro di cinta del grande tempio, davanti al quale immaginai si fosse combattuto aspramente. «Muoviti» disse il cavaliere, afferrandomi per un braccio e accompagnandomi sulla scala a pioli che aveva appoggiato alla botola. Mi girava ancora la testa e, non appena iniziai a scendere, rischiai di scivolare. Per fortuna il mio salvatore non aveva lasciato la presa e mi trattenne per un polso con una morsa di ferro. «Fa’ attenzione, per Eracle!» sbottò.

    «Scusa» mormorai. Mi sentivo stordita. Era successo tutto troppo velocemente perché riuscissi a darmene una spiegazione. Sembrerà ridicolo, ma in quel momento mi resi conto che non sapevo nemmeno il nome di quell’uomo né lui conosceva il mio. «Dobbiamo trovare Damira» dissi invece «l’amica che era con me al tempio.»

    «No, sarebbe inutile» ribatté, scendendo a sua volta. Quando fu a terra con un balzo, mi afferrò di nuovo per un braccio e mi condusse su un sentiero sconnesso che costeggiava l’abitato, ricordandomi di fare silenzio a ogni passo. Benché fosse buio, potei finalmente osservarlo meglio. Doveva avere circa vent’anni, o poco più, aveva un paio di occhi scuri infossati nella testa che mi parvero magnifici, sormontati da sopracciglia così arcuate da conferirgli un aspetto quasi divino; non aveva che una corta barba sul mento e sulle guance e notai come odorasse di sudore e cuoio conciato. Era la prima volta che sentivo l’odore di un uomo e provai una strana ed eccitante sensazione, simile a un fuoco che mi attraversasse il corpo. Fu una notte di sangue, e la luna rossa in cielo sembrava volermelo ricordare, eppure ho impressi nella memoria quegli attimi con irragionevole e serena lucidità.

    «Attenta» disse a mezza bocca il giovane, dandomi uno strattone per farmi abbassare in un cespuglio.

    Fu provvidenziale perché proprio in quel momento apparvero davanti a noi gli zoccoli di un cavallo, che io non avevo notato. Un uomo corpulento dalla folta barba con indosso una corazza di cuoio e un elmo sottobraccio sfilò davanti al nostro naso, guardandosi attorno con piccoli occhi truci. Non sembrava in cerca di qualcuno in particolare, e scosse leggermente la testa alla vista della baldoria che stavano facendo i vincitori. Il cavallo, bianco e dal pelo lucente, la cui schiena sembrava sul punto di spezzarsi sotto il peso del padrone, si girò verso di noi, dilatò le froge e sbuffò, ma il cavaliere non ci vide. «Chi è?» domandai, quando si fu allontanato.

    «Il comandante di quelli che ci hanno attaccato. L’ho visto prima della battaglia incitare i suoi.»

    «Re Archidamo?» domandai incredula.

    Fece una smorfia, irritato dalla mia ignoranza. «Non sono stati gli spartani ad assalirci» si limitò a dire. Non chiesi altro perché di nuovo mi costrinse a rialzarmi e mi condusse giù per il sentiero scavato passo dopo passo dai pecorai e dalle loro greggi, che digradava verso la spiaggia rocciosa. Alcune triremi erano state tirate in secca, disalberate e allineate sulla costa; di una cosa ero certa: il pomeriggio, prima che venissi intontita, quelle navi non c’erano. Forse i nostri misteriosi assalitori erano arrivati via mare. Altri uomini erano accampati sulla spiaggia e alcuni stavano di guardia tra le panche delle navi, visibili in controluce come macchie nere che si muovevano avanti e indietro. Una donna, da qualche parte laggiù, eruppe in un pianto e un cane latrò rivolto alla luna. «Dobbiamo trovare una barca e andarcene» disse il giovane. Ne individuò una più isolata rispetto alle altre e si avviò in quella direzione.

    Il succo di semi di papavero mi risaliva in gola, provocandomi un forte malessere allo stomaco; mi piegai per rigettarlo e mi sentii finalmente liberata. Quando lo raggiunsi, stava ripulendo la lama della spada sugli abiti di un uomo che giaceva riverso per terra, con la testa staccata dal busto. Con un grugnito spinse il cadavere fuori bordo, gli frugò nella sacca e mi incitò a prendere posto sull’imbarcazione. Inorridii, ma feci quanto mi chiedeva, nonostante il sangue inondasse la panca. Ero terrorizzata. «Aspetta» mormorai. «Damira! Non possiamo abbandonarla.» Mi alzai di scatto e balzai a terra.

    In realtà non lo feci per la mia amica, ma piuttosto perché provai l’impulso di fuggire. Chi era quell’uomo? Aveva appena tagliato la gola a un marinaio sbronzo con una noncuranza che mi sconvolse. Come potevo fidarmi? Mi sentii una sciocca per averlo considerato buono e gentile. Una sciocca fanciulla sognatrice che aveva scambiato un macellaio sanguinario per un eroe. In realtà era rozzo, sbrigativo, mi artigliava con presa di ferro e mi trattava come una schiava, questa era la verità. Mi voltai per correre lontano da lui.

    «Ferma!» disse scattando in avanti e afferrandomi ancora per un braccio. Avrei voluto urlare, ma lui mi anticipò e mi mise una mano sulla bocca. «Se farai rumore, sarà la fine per tutti e due» disse. Mi dibattei, mi sentii come un pesce estratto dal mare dentro la rete di un pescatore. Ero in sua totale balia. Completamente terrorizzata. Allora mi cinse a sé, sentii le sue braccia scorrere sulla mia schiena, i muscoli serrarsi su di me, le dita accarezzarmi e, per un motivo che non saprei spiegare, in quella stretta nerboruta non ebbi più paura. Compresi che quel tocco era tanto forte quanto protettivo e che solo all’interno di quel guscio avrei avuto qualche speranza di salvezza. A poco a poco mi rilassai e mi lasciai di nuovo condurre sulla barca. Lui prese posto davanti a me, si mise ai remi e pagaiò silenziosamente fuori dal porto. All’improvviso fui pervasa da un senso di rassegnazione e, senza dire una parola, piegai la testa di lato e piansi amaramente.

    Un’aurora dalle lunghe dita rosate mi fece aprire gli occhi. Lui era seduto di fronte a me, i capelli irraggiati dal tocco del sole del primo mattino, le braccia e il petto imperlati di sudore. Mi stropicciai il volto stravolto e gli rivolsi un sorriso. «La tua amica è morta» spiegò senza batter ciglio, facendomi ripiombare nella realtà. Stava mangiucchiando una salsiccia secca e me ne porse un’altra che estrasse dalla sacca presa al marinaio ucciso. «Ci sono anche alcune cipolle» disse.

    Accettai il cibo, per un incomprensibile istinto di sopravvivenza. Era da un giorno intero che non mangiavo nulla. «Damira è morta?» domandai dopo un po’.

    Lui annuì. «Anche tu avresti fatto la stessa fine. Il tuo sacerdote stava per premerti un cuscino sulla faccia.»

    «Mi hai salvata tu?» gli chiesi.

    Si guardò fugacemente le mani callose e annerite e io compresi che con quelle aveva ammazzato Alcifrone. Rammentai il vago fastidio provato alle narici durante lo stato di incoscienza e fui certa che avesse detto la verità. «Perché l’hai fatto?»

    Scrollò le spalle. «Mangia.»

    Solo in quel momento iniziai a comprenderlo. Aveva abbandonato i compagni nel bel mezzo di un combattimento per soccorrermi e si sentiva in colpa nei loro confronti. Il suo onore di uomo e di soldato era stato macchiato. «Che ne è degli altri che erano con te?» gli chiesi, pur immaginandolo.

    «Sono morti, oppure ai ceppi» rispose, addentando l’ultima cipolla.

    «E non erano spartani quelli che hanno attaccato il tempio?»

    «No, corinzi. Gli spartani ci hanno circondati per impedirci di fuggire fino all’arrivo della flotta di Corinto, che è loro alleata. Sono state le ciurme dei corinzi a dare l’assalto non appena è sceso il buio.»

    «E gli spartani?»

    «Hanno proseguito oltre. I loro opliti sono soldati d’onore, non assalterebbero un santuario pieno di povera gente. Il lavoro sporco preferiscono lasciarlo agli alleati corinzi, feroci come barbari.»

    «E il loro comandante, quello che abbiamo visto a cavallo?»

    Scosse le spalle. «Un qualunque navarco peloponnesiaco» rispose. «Non ne conosco il nome ma ho visto con i miei occhi che ha fatto giustiziare la maggior parte degli uomini, mentre le donne venivano violentate.» Rabbrividii al pensiero di tanta violenza, ma lui aveva voglia di sfogarsi e divenne improvvisamente loquace. «Noi siamo stati fortunati» proseguì. «Sono riuscito a farti passare da una porticina e ti ho portata nella soffitta di quella casa, dove nessuno aveva voglia di venire a curiosare, visto che c’erano abitazioni più accessibili da saccheggiare.»

    Per qualche tempo restai in silenzio. Guardai il profilo roccioso della costa farsi sempre più distante e sfocato, il mondo nel quale ero cresciuta allontanarsi a ogni colpo di remo. Di fronte a noi l’isola di Salamina, che separava il mare in due rami ben distinti: a levante si scivolava verso il Pireo e Atene, a ponente verso il mare aperto. E fu in quest’ultima direzione che ci dirigemmo. «Non andiamo ad Atene?» chiesi ingenuamente.

    Lui non rispose. Era dilaniato dal dubbio e dalla paura; si rendeva conto che, qualunque cosa fosse successa, per lui non ci sarebbe stato scampo. Era rimasto a guardare i compagni cadere nelle mani dei nemici per correre in aiuto di una donna, come l’eroe che avevo sempre immaginato. Tuttavia, in un pubblico processo, sarebbe stato condannato: era un disertore e meritava la morte; gli spartani o i loro alleati, invece, lo avrebbero trattato come un nemico e ridotto in schiavitù, bene che dovesse andargli. In ogni caso, il suo destino sarebbe stato marchiato dall’infelicità e dal disonore. «A quest’ora Blepiro avrà allertato la flotta» commentò tra sé, quando ormai era mezzogiorno e il sole ci martellava le tempie. Socchiudevamo gli occhi per la gran luminosità che si rifletteva su quelle acque gloriose, tra le quali i nostri comuni antenati avevano annegato migliaia di persiani venuti per soggiogare la libertà delle polis greche. «Forse i corinzi si ritireranno, se vedranno arrivare le nostre triremi.»

    «Blepiro è quel soldato che brandiva il bastone di vincastro?»

    «Sì, ed è mio cugino» precisò.

    «E tu? Qual è il tuo nome?»

    «Fai sempre tutte queste domande?»

    «Dovrò pur sapere con chi sono.»

    Scrollò le spalle e tirò i remi in barca, lasciando che la corrente ci facesse scivolare lungo la costa occidentale di Salamina in direzione del mare aperto, che mi apparve blu e infinito. «Che importanza può mai avere un nome» ribatté. «Neanch’io conosco il tuo.»

    Poi fece silenzio e s’incupì. Ripensava alla sua sorte, segnata in ogni caso, e ai nostri destini che si erano intrecciati inesorabilmente. Dopo un po’ gettò in acqua una matassa che si trovava alle sue spalle, sicuramente fatta per pescare, dato l’olezzo di pesce. Ma a noi andò male e anche i pesci si tennero alla larga, costringendoci a digiunare e a dividerci le ultime gocce d’acqua potabile rimaste nell’otre.

    Quando scese la notte, ci ritrovammo soli sotto un tappeto di stelle. Calò d’improvviso una cappa di freddo e iniziai a tremare, così mi fece distendere e prese posto dietro di me, abbracciandomi. Il calore del suo corpo mi diede conforto. Mi passò i polpastrelli sul volto per ripulirmi dal fango e dalla polvere di quel giorno terribile e memorabile al tempo stesso. «Ora sei più bella» mi bisbigliò nell’orecchio. Era la prima frase gentile che mi avesse rivolto, e bastò per non farmi pentire di avergli sorriso la prima volta che lo avevo visto dalla cima della scalinata. Era passato un solo giorno da allora, ma il mio mondo si era rovesciato.

    Le onde ci dondolavano. Gli toccai le mani nodose, di nuovo fui invasa dall’inebriante eccitazione che mi dava il suo tocco e d’istinto le guidai sui seni, che accarezzò a lungo. Sentii il suo respiro accelerare, il suo corpo irrigidirsi e il mio cuore battere fortissimo. A poco a poco la sua mano scivolò più in basso, sulle mie cosce, e poi sotto le vesti, tra le gambe. Mi voltai verso di lui e ci baciammo. Quella notte conobbi il piacere dell’amore, e scoprirlo valse tutte le pene che pagai.

    Il primo sole ci trovò ancora abbandonati in quella morsa d’amore. Mi accarezzava i capelli quando riaprii gli occhi. «Che me ne faccio di te?» mormorò. «Ho gettato via tutto per una donna. Per una donna…» ripeté senza riuscire a darsene una spiegazione. «La mia famiglia non vorrà più vedermi e il mio nome già sarà stato inciso nel Muro dello Spregio, insieme a quello dei traditori.» Poteva lasciarmi morire e salvaguardare il suo onore di soldato ma aveva liberamente scelto di salvarmi la vita, mandando Alcifrone a ricongiungersi con Demetra sull’Olimpo. Ora eravamo legati l’uno all’altra.

    D’improvviso udimmo delle voci chiamarci. Sollevandoci, vedemmo una grossa nave che si stava accostando e un brivido di terrore ci percorse. La nostra fuga era già finita? Non avevamo più cibo né acqua, ma avevo appena trovato il mio eroe, e non volevo perderlo subito; piuttosto avrei preferito morire al suo fianco, felice per aver finalmente assaporato l’amore. Grazie agli dei, non si trattava di una trireme da battaglia, bensì della pentecontera di un mercante. «Ve la stavate spassando, eh?» ci domandò un marinaio sdentato, sporgendosi dalla murata. Seguì un coro di risate. «Volete un passaggio o siete troppo occupati?» continuò gettandoci una fune.

    «Dove siete diretti?» domandò il mio salvatore, quando fummo a bordo.

    «A Siracusa, miei cari» replicò l’altro. «Spero che la destinazione sia di vostro gradimento perché non ci fermeremo tanto presto.» Un altro coro di risate sguaiate provenne dalla ciurma ma non ci feci caso. Ci guardammo e capimmo che per noi ci sarebbe stato un futuro inatteso. Eravamo diretti lontano dalla guerra, dove non c’erano nemici, non c’erano nomi incisi sui Muri dello Spregio, né disertori o prigionieri. Un mondo nuovo, tutto per noi.

    Siracusa.

    «Fu così che conoscesti mio padre Lisania?» chiese Ippoloco. «È una storia incredibile, perché non me l’hai mai raccontata prima?»

    «Perché l’uomo che mi salvò non era Lisania» ribatté Klizia. Ippoloco impallidì. «Si chiamava Nicone.»

    P

    2

    Siracusa era la città più vasta sulla quale avessi mai posato lo sguardo, forse persino più grande di Atene. Sorgeva a cavallo tra terra e mare, in un luogo di incomparabile bellezza. Metà della città occupava l’estremità di un promontorio, allungato come un artiglio sull’azzurro del mare, l’altra metà invece sorgeva su un’isola separata dalla terraferma da uno strettissimo canale attraversato da un pontile di legno e da un molo artificiale; sulla parte settentrionale si trovavano i quartieri di Acradina, Tyche e Neapoli, sull’isola a meridione quello di Ortigia. Nell’insieme la città delimitava un ampio bacino di mare che si estendeva a ponente fino alla foce paludosa del fiume Anapo, racchiudendo l’intera baia conosciuta come Porto Grande, in contrapposizione al Porto Piccolo che invece si trovava sulla rada in direzione del mare aperto.

    Una fonte d’acqua dolce e inesauribile sgorgava da una roccia freatica proprio sull’Ortigia, e i siracusani veneravano quella polla affollata di pesci quasi come una divinità, come un dono insperato e miracoloso a così poca distanza dal mare, che costituiva il cuore pulsante attorno al quale era stata fondata la città. Fonte Aretusa, la chiamavano. Quella sorgente, così come i tozzi bastioni di pietra che si adergevano dalle scogliere a picco sul mare, dava agli abitanti una sensazione di sicurezza che nessun nemico aveva mai infranto nella storia di Siracusa, da quando secoli addietro vi si stabilì l’ecista Archia da Corinto insieme a un manipolo di coloni.

    Io e Nicone vivemmo tranquilli per molti anni nella terra dei greci d’Occidente. Ci adattammo a un’esistenza umile ma non per questo insoddisfacente e, anche se all’inizio eravamo nulla più che una coppia di stranieri, grazie al nostro onesto lavoro fummo presto accettati dai siracusani, gente dedita ai commerci che sapeva apprezzare e riconoscere una potenziale fonte di prosperità. Decidemmo così di vendere il mio gioiello di lapislazzuli e il suo elmo, e con il ricavato acquistammo una barca, una rete di fibre di citiso, alcune esche e quant’altro servisse a pescare in mare aperto. «Ti intendi di pesca?» chiesi a Nicone. «Sei sicuro di saperlo fare?»

    Nicone storse la bocca in una smorfia, prima di rispondere. «Ad Atene ero un cavaliere. Qui non sono nessuno e mi dovrò adattare, almeno per un po’.» Così, con umiltà, ogni notte usciva per calare le reti nelle pescose acque del Porto Grande e, dopo aver

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