Il Materialismo della vita quotidiana
Di Mario Zisa
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Il Materialismo della vita quotidiana - Mario Zisa
MARIO ZISA
IL MATERIALISMO DELLA VITA QUOTIDIANA
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In ricordo del caro amico Marco Chinarelli,
che con la sua ultima determinazione
mi lasciò la responsabilità di cercarne il perchè.
INDICE
Ringraziamenti
INTRODUZIONE
PARTE PRIMA
CAPITOLO I
CAPITOLO II
CAPITOLO III
CAPITOLO IV
CAPITOLO V
CAPITOLO VI
CAPITOLO VII
PARTE SECONDA
CAPITOLO VIII
CAPITOLO IX
CAPITOLO X
CAPITOLO XI
CAPITOLO XII
CAPITOLO XIII
CAPITOLO XIV
CAPITOLO XV
CAPITOLO XVI
CAPITOLO XVII
CAPITOLO XVIII
CAPITOLO XIX
PARTE TERZA
CAPITOLO XX
CAPITOLO XXI
CAPITOLO XXII
CAPITOLO XXIII
CAPITOLO XXIV
CAPITOLO XXV
CAPITOLO XXVI
CAPITOLO XXVII
CAPITOLO XXVIII
CAPITOLO XXIX
CAPITOLO XXX
CAPITOLO XXXI
CAPITOLO XXXII
CAPITOLO XXXIII
CAPITOLO XXXIV
CAPITOLO XXXV
CAPITOLO XXXVI
PARTE QUARTA
CAPITOLO XXXVII
CAPITOLO XXXVIII
CAPITOLO XXXIX
CAPITOLO XL
CAPITOLO XLI
CAPITOLO XLII
CAPITOLO XLIII
INTRODUZIONE
Gli intellettuali in Italia non risultano aver mai fatto una gran bella figura, in confronto ai colleghi di altre nazioni.
L’intellettualità non è apprezzata come tale sotto l’aspetto sociale. L’intellettuale è apprezzato come specialista, come esperto, non come un teorico, capace di porre problemi generali.
L’intellettuale, in qualità di portatore di dibattito teorico, che esce dalla specificità del settore, che anzi cerca di comprendere i legami fra le partizioni dello scibile, magari dimostrandone le connessioni storiche, è visto esattamente come il poeta di carducciana memoria, che, concentrato su cose sublimi, sbatte " il capo ne’ cantoni".
Se l’intellettuale opera poi in ambito politico, le idee piegano davanti agli interessi in maniera tanto più evidente. Neanche in questo ambito si manifesta una spinta ad uscire dalla limitatezza degli orizzonti. Un intellettuale non prigioniero di un’ideologia, ma capace di mettere alla berlina tutte le ideologie, che conformi le proprie idee all’andamento effettivo della realtà, è ancora difficilmente concepibile nel panorama nazionale.
La teoria e la critica teorica finiscono per essere disprezzate e neglette, non trovando molti referenti a cui il dibattito possa interessare.
Invece nelle pagine, che seguono, ci occupiamo proprio di teoria e di critica teorica, che affermiamo cardini del Materialismo.
Quanto osservato in generale per tutti gli intellettuali, trova puntuale riscontro in campo materialista. L’Ottocento in Italia non ha prodotto materialisti, come teorici di rilievo, eccezion fatta per Antonio Labriola, ma piuttosto letterati di credo materialista. Labriola, che a fine secolo ebbe a sviluppare profondi legami internazionali con il movimento socialista a lui contemporaneo, dopo la morte di Friederich Engels, venne decisamente accantonato dalle nuove tendenze del Socialismo.
Sembrava a queste assolutamente necessario accentuare il peso dell’organizzazione politica, del partito, e del lavoro da svolgere al suo interno per fare trionfare in tal modo, implicitamente, anche il fine della società futura. Per loro tuttavia l’oggetto dell’analisi del movimento reale, che è analisi di tutti i rapporti sociali e della loro evoluzione, come manifestati nella vita di tutti i giorni di ognuno di noi, sembrava sbiadire sullo sfondo, di fronte al nuovo protagonista soggettivo della battaglia politica.
La nascita dei partiti comunisti, in Italia del PCd’I, poi PCI, del tutto interna alla precedente evoluzione, sviluppò ulteriormente il credo soggettivista, in ragione del quale solo dall’organizzazione politica dipendeva l’esito del processo rivoluzionario. Così accadde per lo stesso Antonio Gramsci, il quale, benché teorico e sostenitore della intellettualità, non riuscì mai a collocarsi pienamente in un dibattito sul Materialismo, in un primo momento, perché non lo sentiva pienamente come proprio, nonostante gli sforzi determinati dalla coerenza personale, che lo inducevano a muoversi in quella direzione. Inoltre, dopo il soggiorno in Russia nel 1924 e negli anni di prigionia, Gramsci subì invece pesanti pressioni ideologiche che lo spinsero ben lontano dalle prospettive originarie, e che incisero, nonostante la forza morale di prendere parzialmente le distanze dallo stalinismo, sulla sua capacità di sviluppare in qualche modo elementi di Materialismo.
Proprio invece per la dominanza dello stalinismo, tra i comunisti italiani, il Materialismo è stato visto e concepito in Italia come una teoria d’importazione scomoda, da osannare, almeno formalmente, avanti a tutti, per ottenere una legittimazione, la prova di un’investitura, o qualcosa di simile, a rappresentare il mondo del lavoro.
Un ambito importante per ottenere consensi in quantità, da spendere in seguito direttamente sul piano del potere.
Ed esattamente per le stesse ragioni, il Materialismo è stato contestualmente concepito come un punto di riferimento, per operare distinguo da questo o quell’autore, da questa o quella tendenza, per dimostrare la necessità di aggiornamenti, di censure e di condanne, che, alla fine, lasciavano in piedi, a ben guardare, ben poco dell’originaria impostazione filosofica.
Questo approccio al Materialismo è continuato immutato, all’indomani degli anni ‘50, con la contestazione del ‘68 ed oltre, sino ad oggi.
Tuttavia, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e dei paesi in cui si sognava realizzato l’ideale comunista, molto è cambiato. Spariti i vecchi ideologi, che fondavano la loro autorità sulla presunta costruzione di questo o quello stato alternativo, si sono create le condizioni per un dibattito profondo, che, partendo dalla valutazione critica di quelle vicende storiche e dei mondi reali effettivamente costruiti, rimuovesse le macerie dottrinali del passato, e si è aperta la strada verso la riscoperta della funzione intellettuale e, grazie ad essa, alla scoperta delle ampie prospettive del Materialismo, ben al di là dei settori tradizionalmente investigati.
PARTE PRIMA
CRITICA DELL'IDEOLOGIA
CAPITOLO I
MATERIALISMO ED IDEOLOGIE
L’elaborazione teorica del Materialismo, in quella versione dialettica, che fu esposta compiutamente da Karl Marx per la prima volta nella storia, si indirizzò in generale verso i settori principali della vita naturale e sociale, senza alcuna pretesa di esaurimento delle problematiche, né in profondità né in estensione. Si trattava di dissodare un terreno, di organizzare una specifica impostazione di pensiero nelle sue linee di fondo. La storia del Materialismo, dopo Karl Marx e Friederich Engels, ha così visto in successione altri esponenti teorici, che sono intervenuti negli spazi lasciati in bianco dall’opera dei loro predecessori.
Tuttavia, nel passaggio dall’Ottocento al Novecento, benché ampi dibattiti abbian consentito di approfondire, di ampliare e di scrivere nuove pagine luminose di questa impostazione teorica, ha finito per prevalere la convinzione che l’ambito di applicazione del Materialismo dovesse ritenersi ristretto alle tematiche sollevate dai suoi fondatori. Alla questione se ogni spazio di ricerca ulteriore dovesse ritenersi esaurito, benché la risposta negativa fosse da ritenersi del tutto ovvia, nella pratica, essa risultava del tutto retorica: per quanto esistessero ancora ambiti inesplorati, ulteriori campi da indagare, ulteriori approfondimenti da perseguire, sebbene non si avanzasse alcuna pretesa di aver detto l’ultima parola in tutti gli ambiti dello scibile, si ometteva di rilevare che il processo di conoscenza è infinito, per cui, per forza di cose, devono restare scoperti interi settori ancora da analizzare e che, con tutta probabilità, anche in futuro se ne individueranno di nuovi, ma soprattutto si ometteva di estendere la portata del Materialismo oltre il campo di discussione tradizionale.
Nessuno, in particolare, ha voluto notare che, tra i temi principalmente negletti, emergeva vistosamente proprio quello della vita di tutti giorni. La questione evidente di come vivere la vita quotidiana in sintonia con i risultati teorici del Materialismo, ovvero (il che è lo stesso) come fare a vivere in maniera che la realtà in movimento fosse in grado di guidare le idee dei materialisti nella loro formazione e nella loro applicazione, è stata da molti risolta con l’ escamotage di considerare subordinata la soluzione di ogni problema alle esigenze del momento della propria formazione politica socialista o comunista. Da altri è stata risolta puramente e semplicemente ritenendo la questione irrilevante in termini generali ed affidando la soluzione dei problemi contingenti, alla scelta di opportunità momentaneamente ritenuta più congrua.
Ha contribuito al rafforzarsi di questi atteggiamenti l’idea sempre più diffusa fra i socialisti soggettivisti, e poi tra i comunisti soggettivisti, ma non di meno del tutto erronea, che il Materialismo fosse una ideologia nuova, elaborata espressamente da Marx ed Engels, in contrasto con le ideologie borghesi, per cui questo sistema ideologico chiuso mal sopportava fuoriuscite dal seminato, vale a dire da quando già detto in passato dai Padri Fondatori.
A questa ideologia venne attribuito il nome di Marxismo (denominazione già rifiutata dallo stesso Marx) e si cominciarono ad elaborare dottrine per completare ideologicamente quanto detto
dai grandi Materialisti. In ciò questi ideologi fecero di tutto per presentare il Materialismo come faceva quel tale, dominato dal senso di vergogna, che era incapace di pensare gli esseri umani privi di indumenti e, quando li vedeva del tutto nudi, si sforzava di indicarli come vestiti da nudi
.
Il Materialismo tuttavia non è un’ideologia, non è un sistema filosofico a cui aderire a priori. Anche Louis Althusser ¹ , che oltre cinquant’anni or sono, si presentò in Francia come critico del comunismo sovietico, ebbe a girare attorno a questo problema. Il comunista francese si rendeva conto dell’esistenza di una questione irrisolta, proprio perché Marx aveva condannato le ideologie, i sistemi ideologici e parlato di fine della filosofia. Egli tuttavia riteneva che il Marxismo (od una Teoria Marxista) fosse da salvare, reintroducendo per la finestra quel che la propria critica accompagnava sino alla porta.
[1] Per Marx, Roma, 1974, Parigi 1965
CAPITOLO II
LA STRADA SMARRITA DA LOUIS ALTHUSSER
Nel documentare che il dibattito dei filosofi comunisti suoi contemporanei in Francia si era attestato sul significato da attribuire alla " fine della filosofia ", di cui parlava K. Marx, il filosofo francese riteneva ¹ che dovesse esistere una seconda strada, a fronte di quella dei pragmatici, che opinavano che la " fine della filosofia fosse costituita dall’attività pratica, dall’azione
politica", vale a dire dallo svolgimento dell’attività di partito.
Tale seconda strada era per lui da rinvenire nella " scienza pura e semplice, quale alternativa alle
vuote declamazioni della filosofia dogmatica".
Althusser, in verità, rimaneva prigioniero del comunismo soggettivista, come accadde a tutti coloro che, in quegli anni, non riuscirono a prendere le distanze in via radicale dal mondo sovietico. Per lui Marx non andava letto, innanzi tutto, come un materialista, ma costituiva un ideologo da interpretare. Pertanto la fine della filosofia che costituisce puramente (altro materialisticamente non può proprio costituire), il definitivo abbandono delle ideologie, dei sistemi filosofici completi, e l’approccio alle cose del mondo privo di filtri, doveva essere cercata per lui in qualche cosa d’altro.
Fatto sta che l’ escamotage di recuperare la Scienza come il post mortem della filosofia si risolve, a ben guardare in un nulla di fatto. L’ideologia idealistica è chiaramente antiscientifica, ma nel senso che uno specifico settore del pensiero, per nulla coincidente con quello occupato dalle discipline scientifiche nell’insieme, non adotta il criterio della veridicità, cioè dell’assunzione a propria base conoscitiva della realtà, ma fa al contrario procedere tutta le realtà dalle idee precostituite, in una forma o nell’altra.
Ne consegue che una critica radicale travolge facilmente la seconda strada di Althusser: la fine della filosofia è esattamente l’impostazione materialistica, la quale si vale degli stessi criteri d’analisi delle Scienze, pur rimanendo ben distinta dalle Scienze, a cui non pensa minimamente di rubare il campo d’indagine.
Althusser, che non procede, proprio per i limiti sopraevidenziati, con un pensiero del tutto limpido, introduce tuttavia una terza strada, la propria, la quale esordisce in maniera assolutamente e formalmente corretta, affermando ² : " Bisogna andare alle cose stesse, finirla con l’ideologia filosofica e mettersi allo studio del reale".
Immediatamente però egli si avventura per la propria terza strada, la quale consiste esattamente nell’abbandonare lo studio del reale, spaventato dall’ideologia che è vista " stare all’agguato delle scienze, confondere i dati reali".
Le ragioni poco scientifiche e, in prima battuta, del tutto psicologiche, di questa fuga si spiegano nel punto d’approdo di Althusser.
Il filosofo ritiene doveroso dar vita (il che costituirebbe per lui la vera fine della filosofia) ad una filosofia a cui affidare " la perpetua riduzione critica delle minacce dell’illusione ideologica e, per attribuirle questo compito, facevamo della filosofia la pura e semplice coscienza della scienza, rivolta però come la sua coscienza vigilante, la sua coscienza dell’esterno, verso questo esterno negativo, per ridurlo a zero". Detto in parole povere, per Althusser, la fine della filosofia è una nuova filosofia critica della Scienza. I dati della realtà per Althusser non sono i dati della realtà. La sua concezione non si distacca dai pregiudizi dei comunisti sovietici che distinguevano tra Scienza borghese e Scienza proletaria, come se la Scienza potesse divenire appannaggio di questo o di quello, modificandosi spiritualmente. La Scienza può essere utilizzata da questo e da quello, come ogni cosa facente parte del mondo materiale. La mela utilizzata come oggetto di produzione capitalistico, non per questo diventa diversa dalla mela che l’operaio addenta nella pausa dal lavoro. Mela è e mela resta. E così la Scienza. Naturalmente la classe sociale dominante cerca e cercherà sempre di piegare al proprio profitto le scoperte scientifiche e di presentare tutto ciò in maniera a lei favorevole. Come tenterà pure di presentare come scientifiche costruzioni ideologiche elaborate su criteri soggettivi.
L’approccio materialistico, in quanto essenzialmente approccio scientifico, mette in discussione eo ipso, da sempre, i pregiudizi, i preconcetti ed i filtri con cui si opera la borghesia per piazzare i propri prodotti.
Ma non si risolve per nulla esclusivamente in questa messa in discussione, in quanto il Materialismo non è solo una critica del pensiero scientifico borghese.
Althusser tentando di far spazio ad una nuova ideologia, non solo non dette corso alla fine della Filosofia, ma, in cambio di un tentativo del tutto sterile, si precluse ogni strada per sviluppare la conoscenza materialistica, indagando la vita quotidiana.
[1] Op. Cit., pag. 12
[2] Ibid., pag. 12
CAPITOLO III
L’IMPOSTAZIONE SOGGETTIVISTA DOPO LA MORTE DI ENGELS
Il movimento socialista, all’indomani della morte di Engels, aveva pesantemente accentuato le divisioni al proprio interno. Mancando la persona che autorevolmente avrebbe potuto osservare qualcosa in merito al rigore materialistico di certe prese di posizione, si imbalsamarono Marx ed Engels in un presunto sistema ideologico, il Marxismo, di cui i successori si sentirono interpreti fedeli.
Fu difficile per i materialisti del tempo comprendere che cosa si celasse dietro quella sola parola. La sua adozione acritica dovette sembrare quasi un dovuto omaggio a Marx e ad Engels. Ma le cose non stavano esattamente in questi termini.
L’ideologia non si espresse infatti nella sola raffigurazione di un sistema, ma come tutte le ideologie si tradusse immediatamente in un conflitto tra i veri rappresentanti del sistema ed i falsi profeti.
La prima guerra venne combattuta proprio per scalzare dal campo socialista quegli ideologi di maggioranza, che, dopo la morte di Engels, avevano subito preso a sviluppare critiche aperte a Marx ed alla concezione materialistica, individuando il il loro antesignano in Eduard Bernstein, che aveva esposto eloquentemente le proprie concezioni nell’opera I presupposti del socialismo e i compiti della Socialdemocrazia
¹ .
La cosiddetta ortodossia, corrente di pensiero che trovava in Karl Kautsky il proprio leader, accusava Bernstein ed i suoi sostenitori di revisionismo
, cioè di sostenere una revisione dell’ideologia attribuita a Marx. La sua guerra era diretta contro questi eterodossi, che non accettavano il verbo di K. Marx come punto di riferimento imprescindibile.
Quest’ala della Socialdemocrazia tedesca, che costituiva una nutrita minoranza rispetto ai revisionisti, condusse una profonda polemica tutta basata sull’interpretazione dei sacri testi, sostituendo spesso e volentieri alla critica della realtà, la coerenza con il testo marxiano. Che tutto questo fosse però in coerenza anche col pensiero materialistico marxiano, non costituì più alcun problema.
Dunque non era importante che qualcosa fosse vero, perché conforme all’andamento delle cose, al movimento della materia; era importante per questi Marxisti, affinché si potesse parlare di verità, che ogni idea trovasse un qualche conforto in un’idea di Marx. E se l’idea in Marx non la si trovava, venne sviluppato tutto un lavoro interpretativo che deducesse in qualche maniera dal noto la parte mancante, in modo che il sistema fosse completo. Si finì col pensare che gli stessi esegeti (questo valse in primo luogo per Kautsky) dovessero essere dei veri propri integratori della Dottrina, benché limitati alla funzione interpretativa, che il corpus ideologico potesse ritenersi accresciuto grazie anche al loro apporto, che esso finisse per segnare i confini di ogni analisi e che, per converso, sui problemi sollevati dai revisionisti si dovesse, in ultima analisi, stendere un velo.
Nel contempo si cominciò a demonizzare il nemico, dipingendo il diavolo più brutto di quello che era. Si prese a ritenere che l’avversario ideologico avesse lo stesso peso dell’avversario sociale (la classe capitalistica), perché si presupponeva che esso, in fin dei conti, potesse costituire come una quinta colonna nel movimento socialista e da esso potesse aspettarsi solo il tradimento in un momento qualunque.
Contestualmente riprese voga l’organizzazione settaria, con i suoi principi burocratici dettati dalla paura e dalla sfiducia. Il Partito finì per non essere più inteso come il partito degli operai, dei lavoratori e di tutti gli sfruttati, che doveva elevare la massa alla coscienza di essere una classe, per giunta internazionale, ma come il Partito per gli operai che doveva, grazie al loro appoggio, arrivare al potere in nome e per conto della classe, in quanto esso costituiva in sé la coscienza di classe
. Il che non era poi molto distante da quel che, a conclusione di ogni critica, sosteneva proprio Bernstein, il quale, anche lui, abbracciando il soggettivismo, affermava che proprio il Partito era il centro propulsore della conquista del Socialismo, con le piccole vittorie ottenute costantemente in ambito parlamentare e rivendicativo.
Dal momento che il Partito era fatto per arrivare al potere ( der weg zur macht ² ), rapidamente la discussione dell’opposizione al revisionismo cadde sulla strada da seguire ed iniziò a farsi largo l’idea che l’unica via possibile fosse la via insurrezionale, che i suoi sostenitori fossero gli unici ortodossi e che questo fosse parte costitutiva del pedigree del vero socialista. Una volta accettato il credo ideologico, era facile per i soggettivisti socialisti, scivolare sulla sopravvalutazione della funzione dell’organizzazione e nell’annullamento dell’esame delle condizioni effettive, in cui le masse si dispongono ad unirsi per cambiare il sistema sociale.
Specialmente i più radicali tra i soggettivisti non promuovevano nessuna analisi sulle masse, che prendesse in esame le masse stesse, arrivando a comprendere il comportamento degli individui che le compongono ed a mettere a fuoco i sistemi per intervenire. Costoro tendevano a concentrare l’attenzione sulla massa, sul gruppo, proprio a prescindere adialetticamente dai singoli che compongono ogni aggregato umano, ritenendo una disamina del genere del tutto fuorviante ai fini rivoluzionari. Essi si limitavano a ribadire solo che il movimento della classe operaia l’avrebbe portata alla rivolta ed attendevano questo momento per mettervisi a capo ed instaurare il socialismo.
Le loro considerazioni si dirigevano alle turbolenze di carattere rivendicativo, convinti di poter convogliare la loro irruenza sul piano della trasformazione sociale, ma, una volta verificate le gravi difficoltà in cui avanzava il processo auspicato e la non automaticità dei risultati, si rifiutavano di ritornare sui propri passi e di riesaminare criticamente la loro esperienza.
Questo clima psicologico, frutto unico dell’opzione originaria di aderire all’ideologia marxista, clima psicologico che scaturisce inevitabilmente dall’adesione a tutti i tipi di ideologia, ma non dal Materialismo, proliferò non solo in Germania, ma si diffuse fra tutti socialisti in tutto il mondo.
Quando si costituì in Russia il POSDR, le divisioni presenti nella Socialdemocrazia internazionale, trovarono terreno fertile. In soli sei anni dalla nascita del Partito Operaio Social Democratico, i socialisti russi pervennero a quella scissione tra bolscevichi e menscevichi che anticipò tutta la successiva storia del comunismo sovietico.
Vladimir Ilich Ulianov, Lenin ³ , si rifaceva proprio alle idee di K. Kautsky ⁴ , come proprio padrino ideologico, per pretendere l’applicazione di un rigido centralismo di partito.
Invero Kautsky ⁵ si manifestava favorevole ad un certo livello di centralismo, nel quadro del meccanismo di formulazione delle candidature da presentare agli organi elettivi dello stato, auspicando il controllo degli organi centrali del partito, nel momento in cui il sistema previgente nell’organizzazione socialdemocratica tedesca, di accordi bonari, tra centro e periferia, sui nomi dei candidati, si era ormai reso di difficile attuazione. In secondo luogo, seppure in maniera per nulla precisa, affermava necessaria la disciplina di partito nella subordinazione delle idee e delle scelte dell’eletto, sostenendo la priorità del mandato del partito rispetto a quello dell’elettorato.
Il livello di centralismo kautskyano era tuttavia minimale rispetto ai criteri leniniani ⁶ .
Lenin giustificava il centralismo sulla base della diffusa tendenza delle organizzazioni di partito a comportarsi in autonomia, le une dalle altre. Egli presentava questa tendenza come dovuta agli intellettuali, che operavano nelle organizzazioni e considerava gli intellettuali, affermando di riprodurre un pensiero di Kautsky, come soggetti instabili, a differenza dei proletari, forgiati nella dura disciplina di fabbrica ⁷ .
La questione degli intellettuali era stata infatti introdotta proprio da Kautsky, da un lato con la loro santificazione, in quanto individuati in coloro che portano dall’esterno alla classe operaia le idee socialiste, dall’altro lato con la caratterizzazione di parte degli stessi quali elementi instabili, contrari alla disciplina dell’organizzazione e difensori ad oltranza della propria autonomia.
Sia la prima che la seconda concezione furono ripetutamente fatte proprie da Lenin, in particolare, la prima in Che fare? ⁸ , la seconda, con una accentuazione radicale della critica kautskyana, in Un passo avanti e due indietro ⁹ .
Ma cosa si deve intendere con precisione per intellettuali? A chi intendevano riferirsi Kautsky e Lenin?
Senza dubbio gli intellettuali non costituiscono una classe sociale a sé