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I Lupi di Roma
I Lupi di Roma
I Lupi di Roma
E-book526 pagine7 ore

I Lupi di Roma

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Info su questo ebook

Un grande romanzo storico
La saga della famiglia Orsini

Una feroce lotta per il potere tra le più potenti famiglie di Roma

Nel 1277, una feroce lotta per il po­tere si scatena in occasione del con­clave. Dopo sei mesi di sede vacante, la famiglia Orsini riesce a far eleg­gere un proprio esponente. Il nuovo pontefice, Niccolò III, si propone di arginare lo strapotere di Carlo D’An­giò, re francese di Napoli e senatore di Roma, ma mira anche a consoli­dare le fortune della famiglia. In bre­ve gli Orsini assumono il controllo di Roma, di Viterbo e del collegio cardinalizio. Tuttavia le ambizioni del papa e di suo cugino, il cardina­le Matteo Rubeo, obbligano alcuni membri della famiglia, come Orso, podestà di Viterbo, e Perna, spinta da un amore proibito, a sacrificare i loro stessi sentimenti. Ma l’ascesa della dinastia viene interrotta da un evento imprevedibile, che esporrà gli Orsini alla vendetta dei loro tanti nemici. In cerca di riscatto, gli Orsini scopriran­no che farsi campioni degli ideali di libertà può essere un obiettivo più gratificante del dominio. Da Bolo­gna a Palermo, passando per Firenze, Viterbo e Roma, si faranno quindi protagonisti delle lotte tra guelfi e ghibellini, per le autonomie comunali e dei Vespri siciliani, imprimendo la loro mano sul ricco affresco dell’Italia tardomedievale. Questa è una storia di potere, di fede, di amore e di san­gue. Questa è la storia della famiglia Orsini, i Lupi di Roma.

Un autore da oltre 1 milione di copie
Tradotto in tutto il mondo

«Andrea Frediani è un grande narratore.»
Corrado Augias

«Andrea Frediani è autore di romanzi di impressionante successo.»
Loredana Lipperini

«Frediani sa tenere il pubblico con il fiato sospeso grazie a un ritmo e a una cadenza serrata, tipiche di romanzieri quali Ken Follett, Valerio Massimo Manfredi e Michael Crichton. Il suo stile è fluido, accattivante, mai monotono e ripetitivo, e immerge interamente il lettore nelle vicende narrate e nelle sensazioni provate dai vari personaggi.»
Corriere della Sera

«Andrea Frediani accompagna i lettori senza perdersi in luoghi comuni e tenendo fede alla correttezza della ricostruzione storica.»
la Repubblica
Andrea Frediani
È nato a Roma nel 1963. Divulga­tore storico tra i più noti d’Italia, ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Com­pton ha pubblicato diversi saggi e romanzi storici, tra i quali: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilo­gia Dictator (L’ombra di Cesare, Il ne­mico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Mara­thon; La dinastia; 300 guerrieri; 300. Nascita di un impero; I 300 di Roma; Missione impossibile; L’enigma del ge­suita. Ha firmato le serie Gli invin­cibili e Roma Caput Mundi; i thriller storici Il custode dei 99 manoscritti e La spia dei Borgia; Lo chiamavano Gladiatore, con Massimo Lugli; Il co­spiratore, La guerra infinita, Il biblio­tecario di Auschwitz e I tre cavalieri di Roma. Invasion Saga e I Lupi di Roma. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2020
ISBN9788822751423
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    Anteprima del libro

    I Lupi di Roma - Andrea Frediani

    PROLOGO

    Roma, Anno del Signore 1241, 21 agosto

    «L’Anticristo è alle porte, senatore! Pentitevi! Pentiamoci tutti, se non vogliamo che il Signore ci lasci in balia della sua ira!». Un francescano con gli occhi spiritati arringava un piccolo gruppo di persone sulla riva del Tevere, ma non gli era sfuggito il passaggio di Matteo Rosso Orsini, il capo del comune romano; lo aveva additato immediatamente e aveva iniziato a urlargli dietro.

    Il senatore avrebbe voluto ricordargli che era stato il protettore di Francesco, fondatore del suo ordine: non c’era bisogno che gli si dicesse cosa fare della sua anima. Aveva anche guidato le armate romane alla conquista dei capisaldi ghibellini che sostenevano l’imperatore, e aveva ben chiaro in mente come impedire che Roma cadesse nelle mani del sovrano e subisse gli eccidi e i saccheggi di cui era stata vittima meno di un secolo prima col nonno di Federico

    II

    , il Barbarossa.

    Ma era coi suoi figli e con suo nipote e non aveva intenzione di intavolare una discussione con un invasato. Lo ignorò e proseguì oltre, mentre la voce rauca e impastata del frate echeggiava alle sue spalle. «La fine del mondo si avvicina, chiunque lo capirebbe! L’uomo più malvagio del mondo, l’imperatore due volte scomunicato, tiene sotto assedio Roma, la malaria imperversa, le grandi famiglie romane lottano tra loro invece di fare fronte comune contro l’invasore teutonico, la Chiesa e il papato ostentano sfarzo senza rispettare il voto di povertà, le eresie abbondano, gli infedeli prosperano, e sul trono che è stato di Carlo Magno siede un Anticristo! Siamo Sodoma e Gomorra e come quelle città blasfeme finiremo, se non corriamo ai ripari!».

    «Padre, ma il nostro mondo è davvero così corrotto?», chiese Giordano, il figlio più piccolo, di appena nove anni, che Matteo si era portato dietro.

    Intervenne Giovanni Gaetano, il più grande; aveva ormai venticinque anni e aveva già iniziato a distinguersi nella curia papale, rendendosi indispensabile a sua santità Gregorio

    IX

    come il più solerte e acuto degli assistenti. Era grazie a lui che Matteo aveva ottenuto la possibilità di far benedire i propri figli in quei giorni drammatici, resi ancor più cupi dal progressivo peggioramento della salute dell’anziano pontefice.

    «Nel mondo c’è il buio, ma c’è anche la luce, fratello mio», dichiarò il giovane religioso. «C’è l’opera di Satana, ma anche e soprattutto quella del Signore. E a ogni uomo è consentito scegliere chi seguire. Ma tu sei un bambino buono, e sai già da che parte stare. E più saremo, dalla parte del bene, e più facile sarà sconfiggere il male».

    «Ma per ora sta vincendo il male, mi sembra», intervenne Matteo Rubeo, che aveva solo un paio d’anni più di Giordano; nipote del senatore, suo padre Gentile aveva pregato il fratello di portarlo con sé perché ricevesse anche lui la benedizione papale. Poi, per dare sostanza alle sue parole, il bambino indicò dapprima la folla di mendicanti che si accalcava davanti al portico della basilica vaticana, poi le guardie appostate sulle torri, impegnate a sorvegliare i movimenti dell’esercito assediante.

    «Se fossero le donne a governare, non saremmo a questo punto!», esclamò la tredicenne Mabilia, che il padre era ansioso di maritare con qualche rampollo di una delle famiglie più importanti di Roma per guadagnarsene l’appoggio contro gli Annibaldi, irriducibili nemici degli Orsini.

    Matteo Rosso sospirò. La cittadinanza moriva di fame e, da quando Federico

    II

    si era presentato davanti all’Urbe, lo spettacolo delle lunghe colonne di romani che si recavano in Vaticano nella speranza di ottenere qualcosa da mangiare dal papa era diventato usuale. Molti dovevano sfamare non solo i bambini ma anche parenti malati di malaria, che in quella lunga estate calda aveva già mietuto centinaia di vittime. Il papa stesso giaceva a letto ammalato: la sua ostinazione, infatti, lo aveva spinto a rimanere a Roma, invece di andarsene come d’uso nella più salubre Viterbo, finché l’arrivo dell’imperatore non gli aveva impedito di defilarsi.

    Sì, stava prevalendo il male, personificato dal sovrano svevo e da tutti i problemi che il suo blocco aveva provocato. E Matteo Rosso, che di Roma aveva la responsabilità come senatore unico, aveva ben poche armi per contrastare il nemico.

    «Ma padre, perché non vi mettete alla testa di un esercito e non uscite fuori ad affrontare l’Anticristo? Io non ho paura di combatterlo!», gli chiese l’altro figlio Rinaldo, che a poco più di vent’anni era uno dei più valenti cavalieri di Roma e smaniava di combattere.

    «Vedete, l’imperatore non ce l’ha con Roma, ma solo con sua santità», spiegò il senatore. «Non vuole combattere noi romani, ma costringere il sommo pontefice a togliergli la scomunica e a trattare con lui. Per questo non ha ancora lanciato un attacco o azionato le sue macchine belliche».

    «Quindi, se sua santità non ci fosse, ci lascerebbe in pace?», chiese ancora Matteo Rubeo.

    «Se il papa fosse stato a Viterbo, di sicuro non sarebbe venuto qui», replicò lo zio.

    «Dunque è lui che porta il male da noi…», considerò ancora il piccolo.

    «Non dire sciocchezze: lui combatte per la causa del Signore, e tutti abbiamo il dovere di sostenerlo!», lo redarguì Giovanni Gaetano, prima ancora che lo facesse il padre.

    Ma ormai erano davanti all’ingresso dei palazzi vaticani. La guardia riconobbe il senatore e lo scortò nei corridoi, consegnandolo a un membro del personale che lo condusse presso gli appartamenti del pontefice. Una volta davanti alla camera da letto, il chierico fece cenno di attendere, bussò ed entrò per annunciare l’arrivo del senatore.

    Matteo Rosso si rivolse ai figli e a Matteo Rubeo: «Mi raccomando: siate rispettosi di sua santità e parlate solo se interpellati. Gregorio è molto anziano ed è anche ammalato: preghiamo per una sua pronta guarigione», dichiarò.

    Annuirono tutti, disciplinatamente. Poi l’addetto fece loro segno di entrare. Matteo Rosso precedette i suoi congiunti. Varcata la soglia, fu investito da un penetrante odore di incenso, e gli occhi iniziarono subito a lacrimare. I figli più piccoli tossirono. Il pontefice giaceva sdraiato sul letto con un camiciotto intriso di sudore, lo sguardo spento e il respiro affannoso. Il senatore si fermò a rispettosa distanza, per evitare l’eventuale contagio della malaria, e si inginocchiò, invitando i figli a fare altrettanto, poi rimase in attesa delle parole del papa.

    «Senatore Orsini…», biascicò il vegliardo, e solo allora Matteo Rosso sollevò lo sguardo. Gli bastò un istante per capire che il tenace eroe del partito antimperiale, che tanto a lungo aveva tenuto testa alle ambizioni di Federico

    II

    di Svevia, l’eretico intenzionato a fare dell’Italia intera un proprio possedimento privato, era giunto alla fine del suo pontificato. E forse era meglio così: con un papa più benevolo, meno esacerbato dal rancore personale verso l’imperatore, gli animi dei partiti guelfo e ghibellino – i filopapali e i filoimperiali – si sarebbero rasserenati e una pace di compromesso sarebbe stata finalmente possibile; e la penisola si sarebbe risparmiata altri anni di lotte intestine, che avevano lacerato intere città e addirittura singoli rioni e quartieri. Roma ne era un esempio, con le rivalità tra grandi famiglie che, con la lotta tra papato e impero, aveva trovato un nuovo pretesto per alimentarsi, rendendo la città un coacervo di fortilizi e barricate.

    Il papa tentò di parlare ancora, ma iniziò a tossire sempre più violentemente. Matteo notò le lenzuola macchiarsi di sangue. Giovanni Gaetano si affrettò a uscire dalla stanza e richiamò l’addetto, che li fece uscire tutti precipitosamente, dicendo loro di attendere in anticamera finché il pontefice non fosse stato di nuovo in grado di parlare.

    Matteo Rosso cercò di distrarre i figli ricordando loro i doveri e la missione che erano tenuti a rispettare. Lo faceva spesso, nelle riunioni di famiglia, per assicurare alla dinastia l’ascesa iniziata ai tempi del nonno col conseguimento del soglio papale, su cui si era seduto col nome di Celestino

    III

    , di un esponente dei Boboni, ramo collaterale degli Orsini. Fin da quando si era fatto largo nella politica romana, il senatore si era convinto che solo instillando nei figli e nei parenti una mentalità vincente, abituandoli a pensare in grande, gli Orsini avrebbero proseguito l’opera di espansione iniziata dal padre, senza soccombere nella perpetua lotta tra le famiglie aristocratiche romane.

    «Figli miei, siamo stati i più autorevoli campioni del papa, perfino contro i romani più favorevoli all’imperatore, come i Colonna e gli Annibaldi», spiegò. «Qualora Gregorio dovesse, il Signore non voglia, rendere l’anima a Dio, potremmo essere esposti a delle rappresaglie. Io sono certo che l’imperatore se ne andrà, abbandonando i propri alleati al loro destino: pertanto dovremo colpire per primi e, approfittando del fatto che il senatore sono io, mettere i nostri avversari in condizione di non nuocere. Poi, il nostro successivo obiettivo dovrà essere lavorare per procurarci un nuovo papato. Magari sarà uno di voi a indossare la tiara, chi lo sa? Solo così potremo assicurarci la potenza di cui abbiamo bisogno per raggiungere le posizioni cui siamo destinati per nobiltà e tradizione: ora che Roma si è parzialmente emancipata dal dominio papale, costituendosi in comune autonomo, essa può essere la base di partenza da cui fondare un dominio più ampio: da troppo tempo la penisola è preda delle mire di sovrani stranieri, a nord come a sud, e di uno stato, come quello pontificio, che dovrebbe occuparsi solo dello spirito. Serve una dinastia autoctona, che comprenda i bisogni degli italiani, evitando che altri approfittino delle ricche risorse della penisola: siamo stati troppo a lungo sotto il giogo di tedeschi e normanni, ed è ora che l’Italia torni a essere di coloro che la popolano, e che Roma torni a essere il centro di un regno, se non di un impero!».

    «Potete rientrare. Sta meglio. Ma chiamatemi, se sorge qualche altro problema», annunciò l’addetto, uscendo dalla stanza da letto e allontanandosi verso il proprio ufficio.

    Ma proprio in quel momento, sopraggiunse un soldato, accompagnato da un altro chierico. L’uomo si rivolse al senatore: «Signore, l’imperatore ha azionato le petriere. Ha colpito le mura all’altezza di Castel Sant’Angelo. Ha smesso subito e non pare che ci siano danni visibili. Cosa dobbiamo fare?».

    Matteo Rosso rifletté qualche istante. «È solo un avvertimento», disse infine. «Tanto per metterci paura e indurci a sottrarre il nostro sostegno a sua santità. Misure diverse da quelle che abbiamo adottato lo indurrebbero a pensare che siamo terrorizzati e gli infonderebbero fiducia. Non facciamo nulla… a parte spostare un’altra cinquantina di uomini a ridosso della Città Leonina. Ma alla base degli spalti: che non siano visibili al nemico».

    Il soldato annuì e scappò via. Matteo Rosso poté finalmente entrare nella camera del papa, facendo segno ai figli di seguirlo. Quando varcò la soglia, si rese conto che Matteo Rubeo li aveva preceduti. Lo vide accanto al letto di Gregorio, che sembrava addormentato, ma con la bocca spalancata. Il senatore aveva visto fin troppi morti sui campi di battaglia, nella sua esistenza, per non saperne riconoscere uno. Si avvicinò, accostò l’orecchio alla bocca del pontefice e non sentì alcun respiro. Gli tastò il polso e non percepì alcun battito.

    Scosse la testa e guardò il nipote. Prima di chiedergli cosa fosse successo, fece cenno a Giovanni Gaetano di avvertire l’addetto.

    I

    Viterbo, 16 maggio 1277. Trentasei anni dopo

    Sua santità Giovanni

    XXI

    scosse la testa e si fece vincere dall’impazienza, strepitando con lo scrivano: «No! Hai sintetizzato male il nostro pensiero! Non abbiamo detto che vediamo con favore l’attacco di Carlo d’Angiò all’impero bizantino… Si è già impossessato del regno di Napoli e della Sicilia, vuoi che si prenda anche la corona di Costantinopoli? D’altronde non vogliamo neppure negargli la possibilità di aspirare a quella corona: dobbiamo blandirlo per usarlo sia contro le ambizioni di re Rodolfo di Germania, sia come velata minaccia contro l’imperatore bizantino… Sai quante cose dobbiamo estorcere alla corte di Costantinopoli? L’unione tra la Chiesa cristiana e quella ortodossa stabilita al concilio di Lione, tanto per cominciare; e il riconoscimento della dottrina trinitaria della Chiesa latina e della superiorità del pontefice romano… Signore, è un equilibrio così complicato che non mi sorprende che un semplice chierico come te non lo capisca…».

    «Perdonatemi, santità… Mi sono confuso… Se avrete la pazienza di ripetere il concetto, stavolta lo trascriverò con maggior cura», biascicò lo scrivano, assumendo un’espressione da cane bastonato.

    «Ma no, ma no… Forse non abbiamo ancora le idee chiare. Il Signore pretende umiltà da noi, e non sia mai che ci rendiamo colpevoli di superbia. Ma ora esci e lasciaci soli: abbiamo bisogno di riflettere», dichiarò, facendogli segno con la mano di levarsi di torno.

    Il chierico si alzò col capo chino e si dileguò oltre la porta. Il papa sbuffò e si chiese per l’ennesima volta perché avesse accettato un ruolo per il quale non si sentiva proprio tagliato. Era un uomo di scienza, lui, autore di tanti ponderosi testi apprezzati dalle persone di cultura. Cosa ci faceva in mezzo a quella foresta piena di predatori che si era rivelata la corte pontificia? Il papato sarebbe dovuta essere la suprema autorità dei credenti, una guida per lo spirito dei cristiani… Invece, la priorità era la mediazione politica, la sopravvivenza politica, l’autorevolezza politica: insomma, la politica, come un qualsiasi regno temporale. Lo aveva intuito da cardinale, ma finché aveva rivestito la porpora non si era mai lasciato coinvolgere completamente dalle beghe di potere, né si era aspettato che la tiara potesse mai toccare a lui: solo la morte di tre papi nell’arco di un anno gli aveva consentito di ascendere al soglio, e si era stupito quando il cardinale decano aveva proposto lui come nuovo pontefice.

    Il cardinale decano… Giovanni Gaetano Orsini sì che era tagliato per il ruolo di papa. Eppure aveva fatto in modo che lo diventasse lui, per evitare che lo fosse un cardinale sostenuto dal re di Napoli Carlo d’Angiò e per non spaventare lo stesso Carlo con la propria nomina. Da quando lo aveva fatto eleggere, dettava ogni sua mossa, finendo sempre per convincerlo che fosse l’opzione migliore per la difesa del nome di Cristo. E doveva ammettere che aveva una visione assai lucida di ciò che serviva per rendere il papato autonomo dalle ingerenze del re di Germania e aspirante imperatore Rodolfo d’Asburgo, dal sovrano bizantino Andronico

    III

    , dal re di Francia Filippo

    III

    , dal comune romano, e soprattutto da Carlo d’Angiò: era costui la presenza più incombente da quando, un decennio prima, la sua famiglia lo aveva aiutato a soffiare il regno del sud d’Italia alla casata sveva e alla genia dell’Anticristo, Federico

    II

    , sconfiggendone il figlio Manfredi a Benevento e il giovane nipote Corradino a Tagliacozzo. L’Orsini era un politico consumato, prima ancora che un uomo di Chiesa, e nell’ormai ristretto collegio cardinalizio, che non poteva contare neppure una decina di cardinali deputati all’elezione papale, dettava legge, grazie anche al sostegno del cugino Matteo Rubeo, porporato quasi altrettanto influente. Tanto più dopo la recente morte di Riccardo Annibaldi, il cardinale cui faceva capo l’altra potente famiglia romana, che aveva dato il suo sostegno agli Svevi.

    Giovanni si chiese perché in soli tre mesi di pontificato si fosse fatto così tanti nemici. In fin dei conti, tutti sapevano che era il cardinale Orsini a dettare le decisioni del papato. Lui era quasi un mero esecutore. Eppure c’era chi lo accusava di essere un negromante, di dedicarsi alla magia, solo perché era un uomo di studio. Ma di sicuro in giro c’era qualche mago che aveva lanciato un sortilegio contro il papato. E considerando quanti avversari si era procurata la Chiesa negli ultimi tempi, non c’era da stupirsi. Gregorio

    X

    era morto quindici mesi prima, Innocenzo

    V

    undici, Adriano

    V

    solo nove mesi prima, ad appena trentanove giorni dalla sua elezione.

    Giovanni si sentiva relativamente al sicuro perché sapeva che l’Orsini vegliava su di lui, ma non poteva fare a meno di guardarsi le spalle in ogni momento e diffidare di chiunque: perfino il chierico che fungeva da scrivano poteva essere un agente di chi voleva rendere il papato un’istituzione prona ai voleri di un re. Per questo si era fatto costruire, subito dopo l’elezione, un appartamento privato all’interno del palazzo papale di Viterbo, dove trascorreva la maggior parte del tempo, come in quel momento.

    Sospirò ancora e rivolse i propri pensieri a un ufficio più semplice dei delicati equilibri tra le varie componenti della politica europea. Magari gli si sarebbero schiarite le idee, pensò. Prese pertanto dalla pila dei documenti sul suo scrittoio l’incartamento riservato alla raccolta delle decime per la crociata, che rappresentava uno dei punti cardine della missione papale; in particolare, da quando gli ultimi progressi dei musulmani in Terrasanta avevano ridotto i possedimenti cristiani alla città di San Giovanni d’Acri e poco altro.

    Iniziò a scorrere la lista delle copie delle lettere inviate ai vari stati europei per incentivare la raccolta fondi, cui si opponevano perfino alcuni vescovi, timorosi di perdere le decime riservate alle loro chiese di pertinenza. Notò che mancava all’appello quella destinata ad Alfonso

    III

    , re del Portogallo, che peraltro era in lite con il papato per i suoi pesanti interventi sul clero lusitano. L’aveva lasciata in sospeso perché indeciso sulle espressioni da adottare e poi gli era passata di mente. Decise di richiamare lo scrivano per risolvere una volta per tutte la questione, nel timore che il cardinale decano lo riprendesse per la sua negligenza: si trattava di una dimenticanza importante e si biasimò per non aver già fatto partire la lettera.

    Sentì degli scricchiolii sopra la testa e sollevò il capo scrutando il soffitto, ma la debole luce delle torce non gli consentì di vedere granché. Chinò di nuovo il capo sui documenti, ma un nuovo scricchiolio, ancor più pronunciato, rimbombò sopra di lui. Sollevò di nuovo la testa e aguzzò lo sguardo. Gli parve di notare delle crepe, ma la sua vista non era più quella di un tempo e gli parve assurdo: il suo appartamento era stato costruito davvero da poco. Si strinse nelle spalle e tornò a studiare la faccenda del re del Portogallo, per capire quale espressione conciliasse le esigenze della Chiesa con la necessità di evitare la rottura col sovrano: si era proposto di prendere qualche iniziativa personale, senza dover sempre richiedere il conforto del cardinale Orsini come un bambino ai propri genitori.

    Ma il rumore si trasformò in un rombo. D’istinto il pontefice si alzò in piedi e si avviò verso la porta. Ma tra sé e l’uscita si materializzò un detrito caduto dall’alto, e poi un altro, ancora più grande. Il pavimento sembrò vibrare sotto i colpi inferti dal soffitto che si sgretolava. La porta si aprì, rivelando sulla soglia il viso tremebondo e l’espressione sgomenta dello scrivano.

    Un altro detrito sfiorò il papa, che perse l’equilibrio e cadde a terra. Cercò di rialzarsi ma si accorse di non farcela; tese la mano in direzione del chierico, che però era troppo terrorizzato per riuscire a fare un solo passo avanti.

    Poi un altro pezzo di solaio gli cadde addosso, frantumandogli una gamba. Ma il dolore lancinante non durò che un istante.

    Subito dopo, un altro brano del soffitto lo investì in pieno.

    Lo sparviero si librò in volo dispiegando le sue ampie ali. Sorvolò le fronde degli alberi, poi planò virando tra un tronco e un altro, puntando la preda. Nel frattempo, i cani abbaiavano inseguendo la selvaggina. Il podestà di Viterbo si chiese cosa avessero stanato le sue bestie e affrettò il passo, per assistere al maestoso spettacolo del volatile che ghermiva l’animale in fuga: una scena che valeva sempre la pena osservare.

    «Ma dove vai? Lascia fare tutto agli animali, no? Ce li hai proprio per questo…». Dalla carrozza alle sue spalle, la moglie diede l’ennesima prova di non conoscerlo affatto, a dispetto dei tanti anni di matrimonio. Il podestà continuava a chiedersi come mai insistesse per venire a caccia con lui se poi si limitava a starsene seduta in carrozza o, tutt’al più, a passeggiare ai margini dei boschi conversando con le dame di compagnia o con le amiche che si portava sempre dietro.

    Ma lo sapeva benissimo, perché lo faceva.

    Non si preoccupò di risponderle. Che continuasse pure a cianciare con le altre donnette. Nessuna spiegazione sarebbe valsa a renderla una moglie più comprensiva.

    Continuò a inoltrarsi nel bosco a passo sempre più spedito, finché non individuò il suo sparviero. Aveva bloccato un coniglio, arpionandolo per la collottola, mentre i cani chiudevano il cerchio intorno alle due bestie. Il podestà si sentì abbastanza sicuro di avere la preda in pugno e richiamò il volatile col consueto segnale. Emise per tre volte un lungo fischio ondulato, e subito lo sparviero si staccò dal coniglio tornando a poggiarsi sul suo braccio. Immediatamente dopo, uno dei cani avanzò verso l’animale, che giaceva esanime sul terreno, lo addentò e avanzò verso il cacciatore, che fece segno al suo falconiere di prendere in consegna la preda.

    D’improvviso, sentì delle risate provenire dal bosco. Scrutò tra le fronde e i rami degli alberi e dopo qualche istante vide comparire una fanciulla che correva. Poco dopo, apparve anche un giovane, evidentemente intento a inseguirla. E la ragazza non pareva troppo intenzionata a sfuggirgli.

    Il podestà fu colpito dalla figura slanciata della ragazza, i cui capelli fluenti ne coprivano il viso. Se il volto fosse stato attraente anche solo la metà del suo corpo, pensò subito, sarebbe stata una donna di una bellezza impareggiabile. Indossava un vestito di pregevole stoffa, che indicava un ceto sicuramente non basso, mentre il ragazzo vestiva una giubba e dei calzoni molto più dozzinali.

    Incuriosito, rimase fermo a osservare la ragazza, per poterne scoprire le fattezze; ma all’improvviso uno dei cani emerse da un cespuglio tagliandole la strada. La fanciulla lanciò un urlo, perse l’equilibrio e cadde a terra. Il podestà si lanciò a soccorrerla, arrivando da lei quasi nello stesso momento in cui la raggiunse il ragazzo. E mentre quest’ultimo le prendeva una mano per aiutarla a rialzarsi, lui le afferrò l’altra per fare altrettanto.

    «Vi siete fatta male, madonna? Mi dispiace per il mio cane, ma non pensavo che ci fosse qualcuno, da queste parti», le chiese, approfittando della soggezione che il ragazzo parve mostrare verso di lui.

    La giovane alzò lentamente lo sguardo, e quando il podestà incrociò i suoi occhi fu come se davanti gli si fossero aperti due squarci nel ventre della terra, mostrandogli i minerali più preziosi e splendenti che fossero celati alla vista umana. Due pupille di un accecante verde smeraldo sembravano danzare intorno a un naso affusolato e appuntito ma non lungo, appena sopra due labbra carnose di un rosa intenso, che creava un armonioso contrasto con la pelle bianchissima e levigata. Occhi e bocca li si sarebbe potuti notare da molto lontano, per quanto spiccavano, grazie all’intensità dei colori, su un viso discreto nei tratti, che pareva creato apposta per non disturbarli.

    Il collo lungo ed elegante, incastonato tra spalle sottili ma ampie e squadrate, le conferiva una struttura slanciata che la faceva apparire molto più alta di quanto non fosse in realtà. La vita stretta e il seno accentuato, oltre alle gambe lunghe, le donavano un’armoniosità che il vestito abbondante non riusciva in alcun modo a ridurre.

    «No, per fortuna no, messere. Solo un grande spavento: è sbucato così all’improvviso…», rispose la ragazza, guardandolo intensamente negli occhi.

    La sua voce melodiosa gratificò anche il senso dell’udito del podestà, che avrebbe voluto subissarla di domande per sentirla ancora parlare. E le sue parole, quasi sussurrate vicino a lui, gli permisero di percepire il suo alito delicato, regalandogli un piccolo brivido, e un veemente desiderio di sentire anche il suo sapore.

    «Signore, è successa una cosa terribile, deve venire subito». Una voce alle sue spalle, cui il podestà non diede peso. Nulla al mondo l’avrebbe fatto andare via da lì.

    «Mi dispiace, stavo cacciando e… se avessi saputo che qualcuno aveva l’abitudine di passeggiare da queste parti, sarei andato altrove… Anche se… non mi dispiace affatto essere venuto qui». Il podestà si accorse di parlare con l’affanno. Eppure, se c’era una materia nella quale si faceva un vanto di trovarsi a suo agio, erano proprio le donne.

    «Io abito qui vicino, nel castello di Soriano. Sono la figlia del conte Guastapane Porcari. Beatrice, per servirvi; in effetti devo essere uscita dalle nostre proprietà senza accorgermene…».

    «Il conte Guastapane Porcari? È uno dei più noti sostenitori ghibellini…», le disse, meravigliato: se ricordava bene, si trattava di una delle famiglie che si erano schierate con gli Svevi, sostenendo le pretese di Manfredi e Corradino nel Meridione, e ciò lo collocava automaticamente nel campo avverso al suo.

    «Non saprei dirvi, mio signore. Non mi occupo di politica. So solo che è un uomo buono che dopo la scomparsa dei tedeschi ha pensato solo ai fatti suoi, è rispettoso delle leggi e non prende le parti di nessuno», rispose la ragazza con un sorriso disarmante.

    «Podestà, dovete proprio venire. Vostra moglie si è raccomandata…». Di nuovo la voce alle sue spalle.

    «Non mi disturbare. Verrò quando potrò», replicò senza voltarsi. Quella donna era insopportabile.

    «Forse si fa troppo gli affari suoi e non bada a quelli della figlia, allora. Non dovrebbe lasciarvi a scorrazzare nei boschi con un garzone», riprese a parlare con Beatrice, facendo un cenno col capo al ragazzo che era con lei; il giovane se ne stava in disparte, badando ad attirare l’attenzione il meno possibile.

    «Signore, è il figlio del nostro stalliere, e siamo cresciuti insieme. Siamo compagni di giochi fin da bambini e mio padre sa che con lui sono in buone mani», ribatté lei. «Piuttosto voi: avete davvero un bello sparviero. Ma io sapevo che erano i falchi a essere utilizzati per la caccia…», aggiunse, guardando l’uccello poggiato sul polso del podestà.

    «Be’, i falchi si usano negli spazi aperti», rispose lui, compiaciuto per l’interesse della ragazza e grato per l’occasione che gli offriva di parlarle, «laddove possono puntare la preda dall’alto. Negli spazi più ristretti sono preferibili sparvieri e astori, che hanno le ali più piccole e possono muoversi più agilmente tra gli alberi. Ma ho anche dei falchi, naturalmente».

    «Capisco. Ma i cani? A cosa vi servono, se avete già il vostro sparviero? Perdonatemi, ma mio padre non ama cacciare e io non ne so nulla».

    Il podestà era sempre più impressionato: in tanti anni di matrimonio, sua moglie non aveva mai mostrato altrettanta curiosità e pari interesse per le sue attività. A meno che non sospettasse un suo tradimento, ovviamente.

    «Ebbene, madonna Beatrice, i cani servono a stanare la selvaggina. Un volatile non può scovare né ghermire la preda, se questa se ne sta rintanata da qualche parte. Sono proprio i cani, col loro fiuto, a rintracciarla e a spaventarla, obbligandola a fuggire e quindi a esporsi agli artigli dell’uccello», spiegò con entusiasmo.

    «E non temete che il vostro uccello si mangi la preda?», lo incalzò la ragazza.

    «Signore, c’è stata una disgrazia…», lo interruppe ancora la voce alle spalle. Senza dubbio uno dei servi inviato dalla moglie per controllarlo anche nel bosco.

    «Aspetta, ho detto! Vuoi che ti faccia scudisciare?», reagì, riprendendo subito a parlare con Beatrice.

    «So già che non lo farà. È addestrato a mangiare solo la carne che gli prepara il mio falconiere. Così, non appena sente il mio richiamo, ritorna sul mio polso, come vedete. Se ci fate caso, il coniglio che abbiamo trovato è integro», specificò, facendo cenno al falconiere di mostrarglielo.

    «Be’, sembra divertente. Soprattutto, credo, deve essere un vero spettacolo assistere al volo del falco e alla sua aggressione alla preda: immagino che vedere una manifestazione così selvaggia e ferina della natura dia un brivido di emozione… perfino di eccitazione!», commentò la ragazza.

    Il podestà rimase allibito. Quella giovane di non più di diciassette anni aveva compreso in un istante le sensazioni che lui provava ben più di quanto fosse riuscita a fare la moglie in tanti anni di convivenza.

    «Ebbene… sarei felice di mostrarvelo, una volta o l’altra», azzardò. E quando incontrò il suo sguardo, si rese conto che la più grande paura che avesse al mondo, in quel momento, era che lei gli dicesse di no.

    «Cosa stai a fare ancora qui? Col papa morto te ne stai a chiacchierare con dei bifolchi?». Come evocata dai suoi pensieri, la voce della moglie risuonò alle sue spalle.

    Stavolta fu costretto a voltarsi. «Che cosa?»

    «Giovanni

    XXI

    non è più tra noi. Un incidente nel palazzo di Viterbo, a quanto sembra. Devi correre in città», ribadì perentoria la donna.

    Il podestà rimase per un istante indeciso sul da farsi. Se c’era una sola cosa al mondo che potesse obbligarlo a separarsi precipitosamente da quella incantevole creatura, era proprio una circostanza del genere. Notò anche che la moglie squadrava la ragazza con diffidenza: non poteva darle altri motivi per dargli addosso.

    Ma non poteva lasciarla così. Beatrice, nell’apprendere la drammatica notizia, si era portata le mani alla bocca e aveva sgranato gli splendidi occhi abbagliandolo ancora di più.

    «Mi dispiace davvero, ma devo andare, madonna», dovette limitarsi a dire. Avrebbe voluto aggiungere un auspicio a rivedersi, ma la moglie non gli staccava gli occhi di dosso.

    «Dovete essere un uomo assai importante per dover accorrere a Viterbo per la morte di sua santità», disse però Beatrice, offrendogli così la possibilità di identificarlo senza esporsi agli occhi della consorte.

    «Perlomeno lo è il mio ruolo, madonna. Sono Orso Orsini, il podestà di Viterbo», rispose, e si voltò per raggiungere il proprio cavallo.

    «Ebbene? Che ve ne pare? Non è magnifica?», dichiarò Giordano Orsini, canonico della cattedrale del capitolo di York, contemplando con orgoglio la nuova torre che sorgeva sull’altura nel bel mezzo del rione Ponte, a breve distanza da Ponte Sant’Angelo sul Tevere, e di fronte a Castel Sant’Angelo.

    «Direi che non ha nulla da invidiare a quella dei Conti!», commentò il cugino Matteo Rubeo, tra i cardinali più influenti dell’Urbe.

    «Complimenti, fratello mio; hai scelto un abile mastro per i lavori», aggiunse Giovanni Gaetano Orsini, il cardinal decano del Sacro Collegio. «Non è alta come quella delle Milizie, ma incute un sufficiente rispetto».

    «Secondo me, quella degli Annibaldi sull’Esquilino è più alta», disse Bertoldo Orsini, nipote di Giovanni Gaetano, che era venuto a presenziare all’inaugurazione dell’edificio insieme alla sua famiglia.

    «Sempre a parlare di chi ce l’ha più alta, voi uomini», intervenne Mabilia, la sorella di Giovanni Gaetano, guadagnandosi, col suo doppio senso, un’occhiata di riprovazione da parte del figlio Latino Malabranca, austero e serioso domenicano, maestro di teologia, che aborriva qualunque forma di umorismo da taverna, se non addirittura di divertimento.

    «È una questione di prestigio, non di orgoglio», precisò l’arcidiacono di Pisa Jacopo Colonna, il figlio di Margherita Orsini e del senatore Oddone Colonna; insieme al fratello Giovanni, al suo fianco, rappresentava il simbolo del superamento dell’endemica rivalità tra le due famiglie.

    E anche la prova tangibile, per sua cugina Perna Orsini, che la pace tra fazioni opposte si poteva raggiungere, e che forse un giorno anche lei ne sarebbe stata artefice. La ragazza lo fissava con tenerezza, senza badare troppo alle considerazioni degli altri membri del casato, attendendo solo il momento opportuno per scappare via da quella riunione di famiglia per quello che considerava il vero e più importante appuntamento della giornata.

    «Smettila di fissare tuo cugino… Chissà cosa penseranno gli altri!», le sussurrò la sorella Angela, dandole una botta al braccio, che la riscosse dalle sue riflessioni.

    «Ma lasciala stare tu, piuttosto: siccome non sei capace di innamorarti, non capisci i suoi sentimenti», intervenne l’altra sorella, Giovanna, che le aveva sentite.

    Ma la sua voce fu subito sovrastata da Cencio Malabranca, il fratello degenere di Latino: quanto il domenicano era irreprensibile, tanto lui era depravato, secondo Perna e secondo tutti coloro che disponessero di un minimo di morale e decenza.

    «Ma perché non ci prendiamo direttamente le loro torri, invece di costruircele? Potremmo tranquillamente farlo: li abbiamo sconfitti più volte in passato, e adesso siamo più potenti che mai!», esclamò.

    «Fai silenzio, stupido! Qualche passante potrebbe prenderti sul serio e riferire tutto agli Annibaldi o ai Conti o ai Savelli… E allora sì che ci ritroveremmo in una guerra che ora come ora non vuole nessuno», lo zittì Giovanni Gaetano che, di fatto, era diventato il patriarca della famiglia. A quasi sessant’anni, si era conquistato una posizione di prestigio alla corte papale, che ne faceva il vero pontefice ombra: tutti, e non solo la sua famiglia, sapevano che era lui a prendere le decisioni in luogo di Giovanni

    XXI

    , uno studioso inoffensivo e poco pratico di faccende terrene. Cardinale decano, inquisitore generale, protettore dell’ordine francescano e delle Clarisse, legato pontificio in più concili per conto di più papi, arciprete del Capitolo di San Pietro; proprio in forza di quest’ultimo ruolo, che si era fatto conferire dal pontefice attualmente regnante, aveva dato subito inizio ai lavori per la costruzione di un palazzo papale accanto alla basilica vaticana, che i più malevoli insinuavano fosse proprio per lui, in previsione di una elezione al soglio pontificio che in molti trovavano non solo plausibile, ma assai probabile.

    «Non è un linguaggio che si addice a un cardinale, signore. Il nostro Cencio è una testa calda e spesso parla senza riflettere, è vero, ma dobbiamo dargli fiducia e indirizzarlo verso una giusta strada col nostro esempio». Perna guardò con ammirazione la donna che aveva parlato, osando riprendere quell’uomo tanto importante e, talvolta, perfino arrogante: Margherita, sorella di Jacopo e Giovanni Colonna. La ragazza era convinta che se il soglio pontificio fosse stato riservato alle donne, nessuno più di lei lo avrebbe meritato, per la sua bontà d’animo, lo spirito caritatevole e la generosità che mostrava in ogni circostanza. Da tempo dedicava la propria vita alle opere pie, ai poveri e ai malati e, dopo aver rifiutato il matrimonio di prestigio cui voleva obbligarla la famiglia, si era ritirata a Castel San Pietro, a Palestrina, nei dintorni di Roma; era stato solo grazie al sostegno del fratello Jacopo che aveva potuto proseguire la sua attività, rompendo però i ponti col resto della famiglia, ed era proprio grazie a lui che si ritrovava a partecipare con loro a quella riunione di famiglia, dopo quattro anni di isolamento. Ed era con lei che Perna si era confidata più volentieri, in passato, per trovare, grazie al suo esempio, la forza di affrontare le scelte che, presto o tardi, sarebbe stata costretta a fare. Sperò di riuscire a parlarle di nuovo prima che tornasse a Palestrina.

    Giovanni Gaetano guardò in tralice Margherita ma non replicò. D’altra parte, il fratello Jacopo l’aveva presa per un braccio per indurla a tenere per sé le proprie considerazioni. A parlare, stavolta, fu Gentile, il giovane figlio di Bertoldo.

    «Be’, io invece posso dirlo tranquillamente che Cencio è un idiota. Ma personalmente non mi tirerei indietro se gli Annibaldi ci provocassero ancora! Adesso possiamo stare tranquilli per un po’: con la morte del loro patriarca, il cardinal Riccardo, devono riorganizzarsi. Ma sono sicuro che presto torneranno a darci noia», disse il giovane.

    «Nessuno ci provocherà, nipote mio», lo riprese Giovanni Gaetano. «È interesse di tutte le famiglie romane fare fronte comune contro l’invadenza di re Carlo e le ambizioni di Rodolfo d’Asburgo, oltre che contro le pretese del comune romano di emanciparsi dalla tutela della Chiesa. Ricordatevi sempre che Roma e il papato sono un vaso di coccio in mezzo a tanti giganti reali. È quello che mi sforzo di far capire anche agli altri aristocratici dell’Urbe».

    «Ma forse capiscono solo la forza, signore… Forse ci vuole una dimostrazione di potenza, per indurli a ragionare e mettere da parte i loro interessi nel nome del bene comune», azzardò l’altro nipote, Matteo Rosso, che portava il nome del grande padre di Giovanni Gaetano, senatore di Roma e vero artefice delle fortune più recenti della famiglia. Era figlio di Rinaldo, il fratello di Giovanni Gaetano e Giordano, morto anzitempo di malaria, poco dopo averlo generato. Il giovane era perennemente impegnato in una gara col fratello per guadagnarsi la palma di esponente più valoroso della dinastia, ed erano entrambi molto ambiziosi. Perna era convinta che quando i destini della famiglia sarebbero passati nelle loro mani, la loro scarsa diplomazia e la mancanza di senso politico avrebbe fatto precipitare Roma in una endemica guerra civile, e sperava che l’età gli avrebbe donato maggior buon senso.

    Il cardinale diacono stava per rispondere anche a lui quando un servo sopraggiunse trafelato e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Giovanni Gaetano assunse un’espressione sgomenta e sembrò vacillare per un istante, ma recuperò immediatamente l’autocontrollo e chiamò a sé Matteo Rubeo, parlottando brevemente con lui. Anche l’altro cardinale sembrò scosso. Poi Giovanni Gaetano si rivolse al resto dei parenti, che erano schierati di fronte a lui ai piedi del monte, costituito da detriti accumulati nel corso dei secoli, su cui Giordano aveva fatto costruire la nuova torre.

    «Devo comunicarvi con sommo dolore che abbiamo perso un altro pontefice. Mi è stato appena detto che sua santità è deceduto in un incidente, a tarda notte. Tu, Cencio, che eri a Viterbo solo ieri sera, hai avuto qualche avvisaglia di ciò che poteva succedere?», chiese poi al figlio della sorella.

    Il giovane allargò le braccia. «Non ne so nulla, in verità. Era tutto tranquillo quando sono venuto via».

    Il cardinale annuì. «Ebbene, io e Matteo Rubeo ci precipitiamo subito a Viterbo a capire cosa è successo e, soprattutto, a radunare il Sacro Collegio prima che re Carlo prenda qualche iniziativa. Possiamo essere certi che tenterà di approfittare della situazione per assumere il controllo del papato, in un modo o nell’altro: sapete bene che alcuni cardinali gli sono devoti».

    La sua dichiarazione sancì, di fatto, la conclusione della riunione e Perna tirò un sospiro di sollievo. La morte di un papa avrebbe dovuto essere un evento drammatico, ma la preoccupante frequenza con cui si stava verificando negli ultimi tempi l’aveva resa quasi una circostanza naturale. Ma soprattutto, in quel momento rappresentava per lei un’occasione per svincolarsi e precipitarsi a fare ciò che realmente la interessava. Fece un cenno d’intesa alle sorelle, che annuirono e la lasciarono andare. Si allontanò con discrezione e raggiunse una carrozza, chiedendo al vetturino di portarla all’Esquilino.

    Man mano che il mezzo si avvicinava alla meta, Perna si fece più impaziente, lasciando la propria mente libera di fantasticare su un futuro sereno con l’uomo che amava e con una nidiata di figli. Ne aveva abbastanza di quei discorsi sulla potenza della famiglia, e talvolta sognava di essere una semplice popolana senza obblighi politici e sociali, libera di comportarsi e di amare come meglio credeva. Ma forse, in quel modo, non avrebbe mai conosciuto lui, l’uomo della sua vita.

    Quando ebbe terminato di risalire le pendici del monte e raggiunto l’indirizzo che aveva dato al vetturino, chiese all’uomo di scendere e di andare a bussare al portone chiedendo espressamente di lui; lei, lo istruì, lo avrebbe atteso dietro l’angolo dell’edificio di fronte, come di consueto. Poi lo pagò, scese a sua volta e si spostò nel luogo dell’appuntamento, rimanendo in trepidante attesa. Era quasi un anno che lo frequentava in segreto, e ancora si sentiva eccitata come il primo giorno: un segno inequivocabile che si trattava dell’uomo giusto.

    Quando Annibaldo Annibaldi, figlio del senatore Pietro, uscì dal portone e si incamminò verso di lei, il suo cuore prese a battere ancora più forte, ed ebbe la conferma che nulla al mondo le avrebbe impedito di battersi perché le loro famiglie raggiungessero la pace e la sancissero con un matrimonio, come era stato tra Orsini e Colonna.

    II

    «Simon de Brion, cardinale di Santa Cecilia, quattro voti. Giovanni Gaetano Orsini, arciprete di San Pietro, tre voti. Giacomo Savelli, cardinale diacono di Santa Maria in Cosmedin, un voto», annunciò il cerimoniere del conclave.

    Giovanni Gaetano guardò il cugino Matteo Rubeo con una smorfia. Erano ancora lontani dalla possibilità di successo, dopo cinque mesi di conclave nel palazzo papale di Viterbo, in verità condotto in

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