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I tre cavalieri di Roma
I tre cavalieri di Roma
I tre cavalieri di Roma
E-book375 pagine5 ore

I tre cavalieri di Roma

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Info su questo ebook

Un grande romanzo storico

Invasion Saga

L’esercito romano, sotto il principato di Marco Aurelio e Lucio Vero, è impegnato nella difficile conquista dell’impero partico, a Oriente.

Tre cavalieri, Tito, Bendix e Magnus, si ritrovano coinvolti nel saccheggio del palazzo reale della capitale Seleucia. Ma dai sotterranei dell’edificio si diffonde una minaccia capace di spezzare qualunque armata: una terribile pestilenza, che costringe i romani a rinunciare alla campagna. I tre giovani salvano tre sorelle armene, Taline, Lucine e Yeva, e insieme a loro diventano testimoni scomodi di una vasta cospirazione che mira a detronizzare gli imperatori. Catturati dai parti, i sei saranno costretti ad affrontare una lunga e avventurosa odissea per recuperare la libertà e tornare in territorio romano così da avvertire gli imperatori del pericolo. Tra fughe rocambolesche in una terra sterminata e percorsi accidentati in territorio ostile, braccati da nemici di ogni sorta, briganti, pirati, lupi e cacciatori di taglie, i sei protagonisti dovranno forgiare la loro tempra in un viaggio di formazione in cui, per garantirsi la sopravvivenza, sarà necessario mettere alla prova sé stessi, i propri sentimenti e i vincoli reciproci.

Un autore da oltre un milione di copie
Tradotto in tutto il mondo

Un nemico insidioso, alleato a una terribile epidemia. Una corsa contro il tempo per salvare Roma.

«Frediani tiene il pubblico con il fiato sospeso grazie a un ritmo e a una cadenza serrata, tipica di romanzieri quali Ken Follett, Valerio Massimo Manfredi e Michael Crichton. Il suo stile è fluido, accattivante, mai monotono e ripetitivo, e immerge interamente il lettore nelle vicende narrate e nelle sensazioni provate dai vari personaggi.»
Corriere della Sera

«Non si può fare a meno di appassionarsi alla narrazione di questo autore.»
Il Messaggero
Andrea Frediani
è nato a Roma nel 1963; ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; L’incredibile storia di Roma antica e, con Gastone Breccia, Epidemie e guerre che hanno cambiato il corso della storia) e romanzi storici, tra cui Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); 300 guerrieri; Missione impossibile; le serie Gli invincibili e Roma Caput Mundi; i thriller storici Il custode dei 99 manoscritti, L'enigma del gesuita e La spia dei Borgia; Lo chiamavano Gladiatore, con Massimo Lugli; La guerra infinita e Il bibliotecario di Auschwitz. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita3 set 2020
ISBN9788822749819
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    Anteprima del libro

    I tre cavalieri di Roma - Andrea Frediani

    I

    Seleucia, impero partico, 165 d.C.

    Una lingua di fuoco guizzò dalla finestra dell’edificio. Risalì rapida lungo il muro, deturpando il magnifico palazzo che Bendix si era soffermato a contemplare.

    Subito dopo, un gruppo di legionari uscì dal portone, portando a spalla sacchi ricolmi di bottino e trascinandosi dietro uomini e donne, spaventati e feriti. Nel tempo che impiegarono a discendere la scalinata di accesso all’entrata, le fiamme si moltiplicarono, avvolgendo ampi settori della facciata: la costruzione, che il giovane cavaliere aveva appena giudicato la più maestosa della città conquistata dall’armata romana, si trasformò in pochi istanti in un rogo.

    «Ma cosa sta succedendo? Non si può andare in libera uscita un attimo che subito scoppia un putiferio…», si lamentò.

    «Non oso immaginare cosa farà il comandante a quei razziatori…», commentò il suo compagno Magnus. «Sono aperte le scommesse: gli farà solo mozzare la mano o le gambe, li crocifiggerà o li brucerà, per aver rotto la tregua?»

    «Mi vengono i brividi solo a pensarci… Devono essere ubriachi», commentò ancora Bendix. «Lo ammetto, Avidio Cassio è il miglior generale che si sia mai visto, ma anche il più severo: solo lui poteva far vincere una guerra alle truppe di Siria. Eravamo lo zimbello di tutto l’esercito romano… E se ha ottenuto il massimo dai soldati è anche perché ha imposto una disciplina implacabile».

    «Guardate lì, al comando del gruppo di razziatori c’è un centurione. E non mi sembrano affatto ubriachi», precisò Tito, il terzo dei commilitoni, osservando perplesso la scena. «Ve lo dico io: se hanno fatto una cosa del genere è perché hanno ricevuto degli ordini».

    «Ma la città ci ha aperto pacificamente le porte… Non possiamo darci al saccheggio!», disse Bendix che, per quanto invitante trovasse la prospettiva di fare bottino, aveva soprattutto voglia di riposarsi. La campagna era stata lunga e dura, l’assedio della capitale gemella, Ctesifonte, sull’altra riva del Tigri, si era risolto solo all’ultimo assalto, e la prospettiva di dover proseguire sempre più a Oriente per completare la conquista del regno partico presupponeva altri sforzi. La tregua con Seleucia era giunta assai gradita a chi, come lui, non aveva conosciuto soste: le legioni, infatti, impiegavano gli ausiliari sia in battaglia, sbattendoli in prima linea per evitare perdite tra i cittadini romani, sia nelle missioni esplorative o di foraggiamento.

    Ma a quanto pareva, la guerra era ricominciata subito. Neppure il tempo di godersi la libera uscita.

    Gli abitanti nei pressi si affrettarono a dileguarsi dietro gli angoli di strada: il drappello guidato dal centurione non sembrava ancora appagato. I romani puntavano decisi verso un palazzo ancor più imponente, che sorgeva in fondo alla via: il suo profilo si ergeva maestoso al di sopra di quelli che lo precedevano. L’ufficiale si accorse della presenza dei tre ausiliari e richiamò perentoriamente la loro attenzione, con una voce stentorea e roca. «Voi! A che unità appartenete?».

    Fu Tito il più rapido a rispondere: «Facciamo parte della Cohors

    I

    Sugambrorum veterana equitata quingenaria, signore», disse.

    Bendix guardò di traverso l’amico: fosse stato per lui, avrebbe fatto finta di non sentire e si sarebbe affrettato a dileguarsi in una delle strade laterali. Non era mai stato un grande ammiratore dei romani e preferiva sempre che fosse il loro decurione a fare da tramite con i loro padroni.

    «Venite con noi. Mi servono uomini!», ordinò il centurione, riprendendo a marciare verso il palazzo senza neppure attendere la loro risposta.

    I tre amici si guardarono l’un l’altro. «Non ci penso proprio. Chissà in cosa vuole ficcarci. Devo prima capire cosa succede…», protestò Bendix, ma sottovoce.

    «Non abbiamo scelta», precisò Tito, invitandolo ad aggregarsi insieme a lui alla colonna.

    «Non vuoi fare anche tu un po’ di bottino? Una volta tanto che i romani decidono di spartirlo con gli ausiliari…», lo esortò Magnus, che invece sembrava propenso ad andare.

    «Certo che abbiamo scelta! E io scelgo di riposarmi, una volta tanto! Non siamo carne da macello!», proseguì Bendix.

    «Ti ho detto che non abbiamo scelta, non lo hai riconosciuto? Quel centurione è Pescennio Nigro: e se di norma non conviene disubbidire a un centurione romano, con quello lì conviene ancor meno», specificò Tito.

    Bendix si rassegnò a incolonnarsi in coda al drappello. Da quel poco che sapeva di Pescennio Nigro, non poteva che essere d’accordo con l’amico: piuttosto giovane per essere un centurione, aveva fatto una rapida carriera al fronte da quando Avidio Cassio aveva rilevato l’esercito di stanza in Siria, distinguendosi tanto per il suo valore in battaglia quanto per la sua arroganza, la sua venalità e la sua ambizione. Perfino i suoi uomini ne avevano paura, ed era uno dei pochi che non aveva soggezione del comandante in capo col quale, anzi, sembrava intrattenere cordiali rapporti, e perfino godere del suo rispetto: ed era ben più di quanto si potesse dire della gran parte degli altri ufficiali, cui il generale non nascondeva il disprezzo per le deprecabili condizioni in cui gli avevano fatto trovare le truppe.

    «Ma cosa è successo? Non c’era una tregua?», chiese al legionario più vicino, che arrancava faticosamente sotto il peso del sacco sulle spalle.

    «Questi infami di parti l’hanno rotta…», rispose il soldato dopo qualche esitazione. «Abbiamo saputo che hanno assalito un presidio dei nostri poco fa, nella zona a ridosso del Tigri, massacrandone tutti i componenti. E adesso impareranno cosa significa tradire i patti con i romani! Stiamo andando proprio al palazzo reale», concluse, indicando la sagoma dell’edificio che avevano scelto per la loro prossima razzia.

    «Ma il legato Avidio Cassio lo sa? Ha autorizzato le rappresaglie?», chiese Tito.

    «Certo che lo sa. Naturalmente, il centurione Pescennio Nigro si è mosso solo dopo aver ricevuto l’ordine del legato!», rispose con espressione indignata il soldato. «Ma siamo stati i primi ad agire, quindi saremo anche i primi a entrare nel palazzo reale! Siete stati fortunati, barbari, a capitare sulla nostra strada! Non sono opportunità che capitano a tutti gli ausiliari!».

    Bendix fece fatica a contenere lo sdegno. Erano in molti, tra i legionari, a considerarli barbari, solo perché non godevano della cittadinanza romana. Erano passati quasi due secoli da quando gli ultimi germani avevano combattuto l’impero; in particolare i sugambri, l’etnia cui appartenevano i tre amici, non avevano motivi di dissidio coi romani dall’epoca di Giulio Cesare. Da tempo condividevano la stessa vita e gli stessi rischi dei soldati dell’Urbe, eppure non avevano gli stessi privilegi. Anzi, i loro commilitoni della fanteria pesante li guardavano ancora dall’alto in basso, sebbene ciascuno di loro tre avesse parecchio sangue romano nel proprio albero genealogico: nel corso dei secoli, infatti, le unioni tra soldati delle guarnigioni di confine lungo il Reno e donne del luogo, oppure tra donne delle colonie romane e ausiliari germanici, avevano dato luogo a generazioni dal sangue misto cui era scandaloso che non fosse stata conferita la cittadinanza romana.

    E che i sugambri, o comunque i componenti dell’unità che dei sugambri aveva conservato il nome originario, fossero ormai pienamente inseriti nell’impero era testimoniato dai nomi dei suoi due amici, Tito e Magnus, segno evidente dell’ammirazione che i loro genitori nutrivano nei confronti dell’impero. Un tantino differente era la situazione che riguardava lui: suo padre gli aveva trasmesso la diffidenza nei confronti dei dominatori, e aveva voluto dargli un nome più legato all’identità ormai persa del loro popolo.

    E osservando il collo taurino e la pelle nerastra di Pescennio Nigro, la sua espressione sprezzante, Bendix andava più che mai fiero del proprio nome: i romani potevano possedere la sua vita e dirgli cosa doveva fare, gli davano da vivere e delle leggi da seguire, ma non avrebbero mai avuto il suo spirito.

    «C’è qualcosa dietro. Come mai vedo solo loro in giro, tra i soldati romani?», si chiese ad alta voce Tito, rivolgendosi ai suoi amici. «E poi non c’è aria di ribellione: i parti sembrano aver paura, piuttosto».

    «Dici che non c’è stata alcuna aggressione al presidio romano? Ma allora Pescennio Nigro va incontro a una punizione memorabile…», replicò Magnus.

    «Pescennio Nigro è troppo ambizioso per commettere un errore simile. E troppo intimo di Avidio Cassio per agire in piena autonomia. No, secondo me sta eseguendo degli ordini ben precisi. E non si tratta di una rappresaglia», puntualizzò Tito.

    «Be’, un saccheggio in più o in meno non fa differenza: ne abbiamo messe a ferro e fuoco tante, di città, durante la campagna. Ha ragione quel soldato: ci conviene approfittarne e considerarci fortunati! Faremo bottino a buon mercato; e questa è la capitale del regno partico, ragazzi: ci faremo ricchi!», disse infine Magnus stringendosi nelle sue enormi spalle.

    «Non sono convinto che sarà tanto a buon mercato…», dichiarò Tito guardando fisso davanti a sé.

    Bendix seguì il suo sguardo. Erano arrivati davanti al palazzo reale.

    E i parti non lo avevano lasciato indifeso.

    «Non potremmo aspettare i rinforzi?», osò chiedere Magnus al soldato più vicino, dopo aver contato le guardie a presidio del palazzo reale.

    Ma lo aveva detto a voce sufficientemente alta da farsi udire da Pescennio Nigro. Il centurione si voltò e, guardandolo come se fosse un pazzo, replicò tagliente: «Hai idea, soldato, di quante ricchezze ci siano lì dentro? Sei sicuro di volerle spartire con qualcun altro?».

    Magnus pensò che fosse meglio avere di meno ma rimanere vivi; tuttavia, una gomitata di Tito lo indusse a non ribattere. Contemplò sconfortato la trentina di soldati che si era schierata a falange davanti all’ingresso del palazzo, e rimase in attesa degli ordini dell’ufficiale. Loro erano soltanto una mezza centuria, quindi in numero equivalente, e ciò non gli assicurava di prevalere.

    «Su due linee, forza! Gladi in pugno. Ausiliari davanti sulla destra!», gridò Pescennio.

    «Chissà perché, non avevo dubbi…», mormorò Magnus scuotendo la testa. Probabilmente il centurione si aspettava di trovare resistenza e si era portato dietro loro tre per sacrificarli come arieti.

    «Ecco cosa siamo per loro: carne da macello…», si lamentò Bendix, che non perdeva occasione per rimarcare la prepotenza dei romani. Ma Magnus era convinto che senza l’impero loro e le loro famiglie avrebbero vissuto sempre in una capanna in mezzo agli acquitrini, senza mai vedere altro che le foreste e le pianure lungo il Reno. Grazie al servizio nelle coorti ausiliarie, invece, per anni se l’erano spassata in un paese evoluto, ricco di storia e opportunità, come la provincia siriana.

    «Noi siamo in armamento leggero, nel corpo a corpo non vi serviamo», disse Tito avvicinandosi al centurione. «Vi saremmo più utili se, una volta giunti a contatto, ci svincolassimo, li aggirassimo e trovassimo il modo di aprire il portone: poi potremmo attaccarli da tergo, facilitandovi il compito».

    Magnus guardò con rispetto l’amico, cui riconosceva una sorta di preminenza tra loro tre, e non solo perché era più anziano di lui e Bendix di un paio d’anni: era senza dubbio il più intelligente, ed era certo che presto avrebbe raggiunto posti di responsabilità nell’unità.

    Gli parve che anche Pescennio Nigro fissasse Tito con qualcosa di simile all’ammirazione. «Molto bene», disse l’ufficiale dopo una breve riflessione, facendo un segno di assenso. Poi si rivolse ai suoi e diede il segnale di attacco.

    Magnus fu grato all’amico per avergli evitato una morte certa… prima di rendersi conto che si sarebbero presto trovati isolati, al di là dello schieramento nemico. Ma a questo, si disse, avrebbe pensato dopo.

    Partirono tutti di corsa, mantenendo unita la linea. In pochi istanti le punte delle lance dei parti si fecero più vicine: una fila di aculei contro i quali l’unica difesa erano gli scudi. Ma gli scudi degli ausiliari erano decisamente più piccoli di quelli dei legionari; e poi, loro tre erano cavalieri, non fanti, e non avevano mai caricato il nemico senza starsene in sella.

    Magnus attese che fosse Tito a cambiare direzione. Ma l’amico indugiò finché le lance avversarie non furono in procinto di ghermirli. Continuò ad alternare gli sguardi tra la linea nemica e Tito, chiedendosi quando avrebbe agito, e gli venne istintivo rallentare, quando si rese conto che continuava a farlo correre in avanti. Ormai erano prossimi all’urto, quando Tito virò a destra. L’uomo che Magnus aveva di fronte sferrò un affondo, che andò a vuoto solo perché si spostò di lato anche lui. I tre amici passarono intorno al margine della linea partica, lasciando interdetti gli avversari sul fianco, per qualche istante indecisi se inseguirli o rimanere nello schieramento.

    Finì che solo uno li inseguì. Magnus si era mosso più lentamente e poiché gli altri due erano più vicini al portone, toccò a lui affrontarlo. Evitò un affondo di lancia con una torsione del busto, poi sferrò un fendente con la sua spada, che troncò di netto l’asta. L’avversario mise mano alla propria spada, ma non fece in tempo a estrarla dal fodero: il germano menò un secondo fendente, che spezzò gli anelli della maglia di ferro sul petto e squarciò la carne, provocando un’eruzione di sangue che accompagnò la caduta dell’uomo ai suoi piedi.

    Il giovane diede un’occhiata al combattimento che, nel frattempo, si era sviluppato davanti a lui. Una mischia selvaggia, nella quale la superiore coesione dei romani e il loro armamento più pesante avevano permesso agli uomini di Pescennio Nigro di guadagnare terreno. Poi raggiunse i compagni, che stavano armeggiando con la serratura del portone. Ma Tito fece un cenno di diniego e indicò la finestra più vicina. Aveva delle grate ed era ricoperta di un tendaggio di cuoio, inoltre era appena sopra i loro elmi. Tito fece segno a Magnus, di gran lunga il più robusto e alto di loro tre, di sostenerlo congiungendo le mani; poi vi mise il piede sopra e si issò fino all’apertura, mentre Magnus si faceva aiutare da Bendix a issarlo più in alto possibile.

    Tito infilò la propria spada tra le grate e fece leva per scalzarle. Dovette forzare più volte, mentre Magnus controllava i movimenti degli avversari, che pur continuando a cedere terreno non ne volevano sapere di rompere i ranghi di fronte alla pressione romana. Qualcuno di essi si accorse di ciò che stavano facendo i tre ausiliari, ma non poté abbandonare la linea per venire a disturbarli.

    Poco dopo Tito comunicò che le sbarre stavano cedendo. Ma proprio allora un parto mosse verso di loro. Per qualche istante, Magnus si sentì assalire dal panico. Aveva depositato la spada per terra e aveva entrambe le mani impegnate, e lo stesso valeva per Bendix. Gridò a Tito di sbrigarsi, ma quando il nemico gli fu vicino fu costretto ad abbandonare la presa e a gettarsi sulla spada. Tuttavia l’uomo affondò la lancia prima che riuscisse a raggiungerla. La traiettoria dell’arma fu deviata dal corpo di Tito, che vi cadde rovinosamente sopra. Un attimo dopo, crollò anche la grata, che finì addosso al soldato parto, sbilanciandolo. Magnus approfittò del suo sbandamento per prendere la spada e sferrare un colpo, infilando la lama appena sotto il mento dell’avversario. Subito dopo l’elmo del nemico si sollevò e cadde a terra, mentre la punta dell’arma fuoriusciva dalla sommità del cranio.

    «Fatemi entrare subito, prima che ne arrivi un altro», li esortò Tito, e Magnus si affrettò a sollevarlo di nuovo, permettendogli di insinuarsi nella finestra. In un istante l’amico sparì all’interno e lui e Bendix si spostarono verso il portone, sempre tenendo d’occhio la mischia. Magnus si augurò che non vi fossero altri soldati dentro l’edificio e attese, finché non sentì dei rumori al di là dei lastroni di legno ricoperti di bronzo dorato.

    Finalmente i battenti si mossero e il viso di Tito fece capolino all’esterno. Qualcuno tra i parti notò che erano entrati e la loro formazione arretrò istintivamente, rompendo la linea, già compromessa da alcune perdite. Era quanto ci si augurava accadesse col piano ideato da Tito: dopo aver visto vanificati i loro sforzi di impedire l’entrata ai romani, i parti si erano scoraggiati e disuniti.

    Il loro ufficiale diede ordine di ripiegare. Tutti insieme mossero verso l’ingresso, ma senza poter evitare di esporre la schiena ai colpi dei romani, che in pochi istanti ne fecero strage. Tuttavia, i superstiti erano abbastanza per poter spazzare via in un attimo i tre amici, isolati a ridosso dell’entrata.

    «Dobbiamo fuggire all’interno del palazzo, subito!», gridò Bendix, spaventato. «Altrimenti ci travolgeranno prima che i romani li raggiungano! Anzi, non escludo che quel centurione gli permetta di ammazzarci, prima di farli fuori: ormai quello che gli serviva da noi se l’è preso…».

    «No. Non è quello che si aspettano da noi. Si aspettano che contribuiamo a prenderli in una tenaglia», dichiarò Tito, bloccando per un braccio l’amico che si accingeva a scappare. Bendix fece un gesto di stizza, ma rimase sul posto e si schierò di fianco a lui, e così fece Magnus.

    Un attimo dopo la furia di otto guerrieri in armamento pesante li investì.

    Tito rimase un istante indeciso sul da farsi. Lui e i suoi due amici avrebbero potuto evitare l’urto con i nemici fuggitivi semplicemente oltrepassando la soglia del palazzo e chiudendo la porta. Ma così ne avrebbero impedito l’entrata ai legionari, vanificando in parte la loro azione. E inoltre, il giovane era consapevole che i romani erano sempre pronti a giudicare con severità il comportamento degli ausiliari: sarebbero passati per codardi e, probabilmente, gli avrebbero anche negato la loro parte di bottino.

    No, dovevano resistere. Fece un passo avanti e invitò Bendix e Magnus a fare altrettanto.

    I due amici lo guardarono perplessi, ma poi obbedirono, piantando i piedi per terra e stringendo le spade in pugno. Ma non ci fu il tempo di pensare a uno schema tattico: la valanga arrivò subito dopo, sotto forma di aste, scudi e maglie di ferro, che si abbatterono sul trio con violenza. Tito menò fendenti per evitare gli affondi delle aste, cercando di non cedere terreno: se i parti fossero entrati si sarebbero asserragliati all’interno dell’edificio, e per i romani sarebbe iniziata una nuova battaglia, ben più complicata.

    Ma la pressione era enorme. Sperò che gli amici avessero capito di dover resistere solo qualche istante, per dare ai romani la possibilità di aggredire i parti da tergo. Per fortuna, non tutti i nemici si stavano interessando a loro: almeno la metà badava a sorvegliare i movimenti degli uomini di Pescennio Nigro, in rapido avvicinamento.

    Con la coda dell’occhio, Tito notò che Bendix era finito a terra. Due lance incombevano su di lui. Ma Magnus si spostò lateralmente e le intercettò, sottraendosi nel contempo all’affondo destinato a lui da un altro avversario. Tito si spostò a sua volta alle spalle di Bendix, liberando uno spazio nel quale si affrettò a infilarsi il suo antagonista diretto. Questi si lasciò distrarre dalla prospettiva di entrare nel palazzo e si precipitò all’interno, offrendo però il fianco alla spada dell’ausiliario, che non tardò ad approfittarne. Un attimo dopo, a terra c’era il corpo del parto, mentre Bendix aveva fatto in tempo a rialzarsi e a opporre la propria spada ai rinnovati attacchi nemici.

    Ma ormai i romani erano prossimi ai parti. Il loro assalto fece finire le guardie addosso ai tre amici, cui fu sufficiente protendere le spade in avanti per trafiggerne altrettanti. Agli altri pensarono gli uomini del centurione, e in breve tempo sulla soglia si accumularono i cadaveri.

    Quando non rimase un solo soldato parto in piedi, Pescennio Nigro si avvicinò a Tito, gli mise una mano sulla spalla e gli disse: «Ve la siete cavata bene, per essere dei barbari».

    Il giovane germano si morse la lingua e, conoscendo il carattere irruento di Bendix, si affrettò a lanciare all’amico un’occhiataccia per impedirgli di replicare. Quindi attese che i soldati si incamminassero lungo l’atrio e poi si mise disciplinatamente in coda. Al centro del locale notò una grande statua di Apollo nell’atto di scoccare dei dardi, che fu oggetto di commenti ammirati da parte dei legionari. Qualcuno propose di portarla via. Il centurione decise di proseguire la perlustrazione dell’edificio tutti uniti, nel timore di subire gli assalti di presidi nascosti. Ma nei corridoi e nelle stanze trovarono solo personale domestico, cortigiani ed eunuchi terrorizzati, che i soldati maltrattarono per farsi indicare qualunque oggetto di valore.

    Man mano che rastrellavano gli ambienti, i legionari accumulavano suppellettili, soprammobili e preziosi di vario genere, che obbligarono i civili a trasportare. Ma era ancora poco, per un palazzo tanto importante. Quando la perquisizione parve terminata, il bottino fu giudicato deludente, e un paio di legionari sfogarono la loro frustrazione sui prigionieri. Un soldato spinse un cortigiano giù per la rampa delle scale, provocandogli la rottura dell’osso del collo.

    Pescennio Nigro afferrò per il bordo della blusa un eunuco e gli sibilò in faccia: «Dicci subito dove si trova il tesoro reale, se non vuoi fare la stessa fine».

    L’uomo lo fissò implorante, facendo cenni di diniego con la testa, poi si mise a piangere. Il centurione lo schiaffeggiò, poi gli puntò il gladio all’occhio, minacciando di affondare la punta nella cornea. L’eunuco tremò, mentre intorno a lui alcuni dei prigionieri gli fecero segno di tacere. Tito lo trovò strano. Pescennio attese, poi affondò la lama, provocando l’esplosione del bulbo oculare. L’uomo lanciò urla lancinanti e si dimenò, cercando di divincolarsi dalla stretta del centurione.

    «Se non vuoi rimanere cieco del tutto, ti conviene parlare», gli intimò Pescennio, che poi si rivolse anche agli altri prigionieri: «E lo stesso vale per voi!».

    Sul viso deformato dal sangue e dalla sofferenza dell’eunuco Tito credette di scorgere una fugace espressione d’odio. L’uomo spostò lo sguardo verso i compagni prigionieri, e stavolta furono loro a lanciargli occhiate imploranti. Ma l’eunuco fece una smorfia di disprezzo e poi si rivolse al centurione. «Fatevi condurre nei sotterranei», disse singhiozzando, poi si accasciò a terra, tentando di arginare con le mani il sangue che continuava a uscire dalla cavità vuota.

    Pescennio lo ignorò e afferrò un altro prigioniero. «Portaci nei sotterranei, dunque», gli ordinò, puntandogli la spada alla gola. Ma l’uomo oppose un netto rifiuto. Non aveva ancora finito di muovere la testa che la punta del gladio del centurione spuntò dalla sua schiena.

    «A quanto pare, dovrai portarci tu», disse Pescennio all’eunuco che aveva reso orbo.

    Tito si rese conto che qualcosa non andava. Non era possibile che tutta quella gente, in gran parte schiavi, tenesse tanto a preservare il tesoro reale. Il re Vologese non era nella capitale, ma era scappato molto più a est per organizzare la resistenza, quindi non potevano temere le rappresaglie del padrone. Il giovane si rese conto che tutti gli altri romani erano troppo abbagliati dalla prospettiva di arricchirsi per valutare la situazione con obiettività.

    Alla fine, l’eunuco fissò con l’occhio rimasto i compagni, ricevendone occhiate di ammonimento, poi si decise. A dispetto delle sue sofferenze, si rialzò e fece cenno ai romani di seguirlo. Raggiunse una porticina in un angolo dell’atrio, prese un mazzo di chiavi dalla propria cintola e la aprì. Fece cenno a un legionario di afferrare una fiaccola appesa alla parete e guidò la colonna lungo una stretta rampa di scale, al termine della quale la tenue luce illuminò un’altra porticina. L’eunuco aprì anche quella, e i romani si ritrovarono in un’ampia camera con le pareti affrescate, mobilio elegante e suppellettili di pregio. Un forte odore di incenso investì le narici di Tito, i cui occhi presero a lacrimare per la fuliggine delle lampade poggiate sulle madie.

    Nell’ambiente risuonarono grida femminili di spavento. Tito notò tre fanciulle nella penombra, che si avvicinarono rapidamente a una quarta figura, circondandola. Quest’ultima, avvolta in un ampio mantello, si affrettò a mettersi un cappuccio sulla testa.

    Ma per il momento, l’interesse dei romani era concentrato sulla ricerca dei tesori. «Dov’è?», chiese Pescennio all’eunuco e questi, tremante, indicò un’altra porticina, sulla parete opposta a quella da cui erano entrati.

    «Ma la chiave ce l’ha lei», aggiunse, indicando la figura avvolta nel mantello.

    Il centurione fece cenno a due legionari di andarla a prendere. Le tre fanciulle fecero subito barriera, ma i soldati le spostarono facilmente, afferrando per le braccia la persona incappucciata, che trascinarono davanti a Pescennio. Le tre donne tentarono ancora una volta di fermarli, schierandosi di nuovo davanti a loro.

    «Fermi! Non sapete cosa state facendo!», gridò una di loro in perfetto latino.

    Ma un legionario le diede un violento spintone, che la mandò a sbattere contro una parete. Ci provò un’altra, ma non ebbe sorte migliore, finendo sul pavimento di marmo istoriato.

    Tito guardò i suoi due amici e si sentì confuso. Le tre ragazze avevano tratti delicati ed eleganti, e almeno due di loro potevano perfino dirsi belle. Ma non sembravano di etnia iranica.

    Finalmente i due soldati portarono il personaggio misterioso al cospetto del centurione. Pescennio dichiarò: «Allora? Vuoi darci la chiave?», ma la figura rimase immobile, il volto ancora celato dal cappuccio.

    L’ufficiale sbuffò, poi allungò il braccio, afferrò il cappuccio e lo tirò via.

    E la sua espressione mutò in un istante. Sul suo volto si dipinsero incredulità, stupore, ribrezzo e infine orrore.

    Era una donna, su questo non c’erano dubbi.

    O perlomeno, lo era stata, prima che qualche oscura malattia le consumasse la pelle.

    Bendix non riusciva a staccare gli occhi dalla persona cui Pescennio Nigro aveva appena tolto il cappuccio. Notò che lo stesso poteva dirsi per i suoi due amici e per tutti i romani presenti nel sotterraneo.

    Perfino il centurione era rimasto senza parole. Il volto della donna era quasi completamente puntinato da un’eruzione cutanea che neppure la più inquietante e mostruosa maschera teatrale avrebbe potuto eguagliare. Sembrava ricoperta di piccole squame a forma di bolle, e solo una parte di guancia e gli occhi ne erano rimasti indenni, perfino parte delle labbra ne era ricoperta.

    «Ma… è lebbra?», sussurrò Bendix a Tito.

    «Ho visto una colonia di lebbrosi, una volta, ma anche se la pelle era altrettanto devastata, non si tratta della stessa maledizione divina. No, questa è un’altra malattia… Una malattia nuova», rispose l’amico.

    «Ma… cos’ha? E chi è questa donna?», chiese Pescennio Nigro quando si fu riscosso dallo stupore, rivolgendosi alle tre ragazze.

    Si fece avanti quella meno attraente. Era un po’ sovrappeso e piuttosto bassa, ma aveva una vivida luce negli occhi che la rendeva interessante. Si rivolse al centurione senza mostrare alcuna soggezione: «Signore, mostrate rispetto, di fronte alla principessa Iotapa, figlia del re dei re Vologese, quarto con questo nome».

    L’ufficiale, incredulo, guardò i propri uomini, poi tornò a rivolgere l’attenzione alla ragazza. «Ma cos’ha?», ripeté.

    «Gli dèi hanno voluto che lei si facesse carico della maledizione che si aggira da qualche anno tra le popolazioni asiatiche, pagando il tributo che spetta anche alla famiglia reale. Noi tre siamo armene e siamo le sue ancelle, addette ai suoi bisogni: siamo state fatte prigioniere quando i parti hanno ripreso l’Armenia e assegnate a lei», spiegò la ragazza.

    «Ma… È contagiosa?», chiese ancora il centurione, facendo istintivamente un passo indietro.

    La ragazza allargò le braccia. «Noi non ci siamo prese nulla. Eppure siamo al suo servizio da tre anni, ovvero da prima che prendesse la malattia, e ci hanno fatto stare sempre con lei, da quando è caduta malata».

    «E quando se l’è presa, questa malattia?»

    «Ne è appena uscita. O almeno, così si spera. Si è ammalata non appena è tornata da un viaggio più a Oriente, circa un mese fa. Dovevamo raggiungere il padre, ma quando il sovrano ha appreso che stava male, ha preferito che venisse qui».

    «A infettare noi…», mormorò un soldato, a voce non abbastanza bassa da non essere udito.

    Pescennio Nigro lanciò uno sguardo in tralice al legionario, poi si rivolse di nuovo alla portavoce delle ancelle. «A ogni modo, siamo qui per il tesoro reale», disse alla ragazza.

    «Ebbene, non avete che da sfilarle la chiave dal collo», rispose risoluta l’armena.

    Il centurione fece una smorfia. «Fallo tu».

    Ma la ragazza non si mosse. Al contrario, gli lanciò uno sguardo di sfida.

    Pescennio le puntò il gladio alla gola. «Ti ho ordinato di prenderla. Siete schiave, e siamo venuti qui a liberarvi. Dovresti esserci grata», la minacciò.

    «Insomma! Piantiamola con queste schermaglie! Ci penso io…», intervenne un’altra delle ancelle. Bendix non poté fare a meno di notare che era davvero splendida: il volto era tutt’altro che perfetto, ma il naso aquilino, la bocca carnosa e i profondi occhi scuri, parzialmente coperti da una frangia di capelli corvini, le conferivano una prorompente sensualità, accentuata da una figura estremamente slanciata, con spalle larghe e movenze feline.

    La ragazza si avvicinò alla principessa, mentre l’altra ancella scuoteva la testa, quindi le sfilò la chiave dal collo e la offrì al centurione.

    Ma Pescennio le disse: «Vai ad aprire tu».

    La ragazza fece un sorriso sprezzante. «Per essere un centurione, mi sembri piuttosto timoroso… Dov’è finito il proverbiale coraggio dei comandanti romani?», lo sfidò, facendo dondolare la chiave davanti agli occhi dell’ufficiale.

    Pescennio fremette di rabbia. Bendix lo

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