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Il servo Jernej e il suo diritto
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E-book98 pagine1 ora

Il servo Jernej e il suo diritto

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Un grido di dolore universale
Ivan Cankar è sicuramente uno dei principali scrittori sloveni e, pure se ha rivolto la sua scrittura anche ad altri temi, ha sempre avuto un interesse particolare nel raccontare il destino di diseredati ed emarginati, il confitto di intellettuali o artisti anticonformisti e idealisti con una società gretta, presentando una scrittura intelligentemente calibrata di elementi realistici e simbolici.
Rispetto a questo testo, è l’autore stesso che ce lo rivela, è interessante sottolineare l’origine ‘politica’ del testo: Cankar voleva scrivere solo un libello di propaganda, ma da ciò sarebbe poi scaturita la sua migliore novella, che narra del servo Jernej, che ha lavorato quarant’anni nella fattoria dei Sitar, identificandosi totalmente con essa. Alla morte del vecchio padrone viene mandato via in malo modo dal figlio del defunto. Inizia così il suo peregrinare, nel corso del quale racconta la propria storia a diverse persone e istanze, sempre attendendo che si riconosca il suo diritto: di chi è il podere, di chi l’ha ereditato senza aver fatto nulla o di chi l’ha lavorato per quarant’anni? Nessuno dà ragione al servo, che nella sua sete di giustizia giunge fino a Vienna, pensando ingenuamente di poter esporre il suo caso allo stesso imperatore. Neanche il parroco gli dà la risposta sperata, portandolo infine a dubitare anche della giustizia divina e della stessa esistenza di Dio. Il mite Jernej infine, ormai trasformato interiormente, torna alla fattoria e Cankar conclude il racconto con un finale straordinario.
Anche se la storia del servo ribelle ha suscitato interesse in Italia soprattutto in momenti politicamente ‘nevralgici’ del Paese, il suo fascino senza tempo risiede certamente sia nel suo grido di dolore universale, sia nella peculiarità dello stile, ricco di similitudini e personificazioni, di allegorie e parabole ‘bibliche’, che insieme costituiscono forse l’esempio più brillante della prosa ritmica cankariana.

L’autore: (Vrhnika 1876 - Lubiana 1918) scrittore sloveno. Patì il carcere (1913) e l’internamento (1914) per la sua propaganda antiaustriaca. Dopo che la sua raccolta poetica Erotica (1899) fu fatta bruciare dalle autorità ecclesiastiche, si dedicò alla prosa e al teatro e pubblicò, fra l’altro, Vignette (1899), schizzi di vita borghese e proletaria, il romanzo La casa di Maria Ausiliatrice (1904), il racconto Il servo Jernej e il suo diritto (1907), considerato il suo capolavoro, il dramma I servi (1910) e i bozzetti Immagini dai sogni (1915-17), ispirati dalla guerra. C. è il prosatore di maggior rilievo della generazione modernista: formatosi al naturalismo, ne superò le limitate scelte tematiche e ideologiche per affrontare non solo le questioni sociali e di costume fino allora ignorate dalla provinciale letteratura slovena, ma anche un’intensa problematica spirituale.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2018
ISBN9788833260228
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    Anteprima del libro

    Il servo Jernej e il suo diritto - Ivan Cankar

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    IVAN CANKAR

    Il servo Jernej e il suo diritto

    Maree

    KKIEN Publishing International

    info@kkienpublishing.it

    www.kkienpublishing.it

    Ed. originale: Hlapec Jernej in njegova pravica, 1907

    Prima edizione digitale: 2018

    Traduzione dallo sloveno di Caterina Ljubic

    Copertina: foto di Ivan Cankar

    ISBN 9788833260228

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    Table Of Contents

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    I

    Vi racconto questa storia come si è svolta realmente, in tutta la sua spietata ingiustizia e senza nasconderne la grande tristezza, senza inventare nulla, senza fronzoli né ipocrisie. A Betajna, gli abitanti ne sono ancora sconvolti e — intimoriti — non osano rialzare il capo. Perché una grande ombra lugubre e silenziosa, nera come la morte, si è ormai diffusa dalla collina per tutta la valle: la sua testa è una nube minacciosa, le sue gambe sono svelte e robuste come i pioppi nei prati e porta in spalla una falce i cui bagliori si scorgono già fino a Lubiana.

    Il vecchio Sitar venne sepolto. Era un brav’uomo, e che riposi in pace! La campana smise di suonare, il parroco si tolse i paramenti e chi aveva seguito il funerale andò all’osteria, da Strzinar. Vestiti a lutto, si misero attorno a una lunga tavolata: gli uomini con facce gravi e pensierose, le donne con gli occhi ancora gonfi di pianto. Il servo Jernej — che era alto, vecchio e con i capelli quasi tutti bianchi — si sedette accanto alla finestra, si asciugò la faccia con un fazzolettone rosso e sospirò:

    Eh sì, dovremo andarcene tutti; anzi credo che sarò proprio io il primo a seguirlo!

    Ma subito intervenne il giovane Sitar:

    Oh Jernej! Te ne stai lì, bello comodo e tronfio come un padrone! Ma chi è l’erede, qui: tu, oppure io?

    E hai aperto bocca per primo, come se tu fossi il più importante fra noi!

    Jernej sorrise e lo guardò bonariamente.

    Ah Tone, sei sempre stato un mattacchione impertinente, e così sempre sarai! Però mi sembra giusto e naturale che il dolore non ti abbatta; come si dice: agli uomini il vino e il pianto alle donnette!

    E così dicendo si riempì e alzò il bicchiere, ma nessuno fece altrettanto.

    Allora Jernej, senza avere bevuto, depose il bicchiere sul tavolo; poi guardò stupito il padrone e i presenti, e vide solo facce scure.

    Ma che succede?

    Non ebbe nessuna risposta, non un’occhiata né una parola; e il sangue gli si raggelò.

    Ebbene? Mi trovo forse tra zingari e sensali, che mi guardate senza aprire bocca? Sono tra i miei o con quelli del dazio, che mi tengono gli occhi addosso per imbrogliarmi meglio?

    Sitar replicò:

    Non insultarci, servo, paragonandoci a sensali, zingari e doganieri! Non hai ancora bevuto, e sei già sbronzo!

    Per tre volte Jernej fissò i presenti, uno per uno, poi prese il bicchiere e versò il vino nella bottiglia: lentamente e a lungo, perché la mano gli tremava. Quindi si alzò e si tolse il cappello. Lo teneva con tutte e due le mani, e in piedi — dietro la tavola — appariva più alto che mai: benché fosse curvo, con i capelli grigi quasi toccava le travi fuligginose del soffitto. Se ne stava lì, le guance solcate, cotte dal sole e rasate alla buona, e gli occhi vivi e chiari sotto le folte sopracciglia.

    Padrone, non è bello da parte tua né lo è da parte vostra, gente di casa e amici miei, rifiutarmi una goccia di vino dopo il funerale. Ma che Dio benedica il vostro pane e il vostro vino, io non vi invidio! Se avete fatto una nuova legge, la rispetterò: il pane ai giovani, ai vecchi la pietra; ai sani pesce e agli ammalati serpente; uova agli oziosi e a chi è stanco scorpioni; ma che nessuno poi giudichi male il servo se distrugge ciò che ha costruito il padrone!

    Uomo facile all’ira, il giovane Sitar si fece rosso di collera.

    Non abbiamo bisogno delle tue prediche, Jernej! Se il vino non ti piace, va’ con Dio!

    Sei ben superbo, Jernej, padrone dei tuoi padroni! intervenne la moglie di Sitar.

    E la suocera aggiunse:

    Va in rovina la casa in cui il servo se ne sta sulla stufa e si pulisce gli stivali sulla schiena del padrone!

    Il carro va con le ruote per aria quando il padrone lo tira e il servo lo guida! esclamò il cognato.

    E un altro parente sentenziò:

    Va in rovina il podere se il padrone tira l’aratro e il servo se la spassa all’ombra!

    Quando ognuno ebbe detta la sua, Jernej si inchinò un’ultima volta.

    Sagge e giuste parole, le vostre. Perciò che Dio benedica il vostro pane e il vostro vino, e conservi a me la coscienza tranquilla e una vita senza peccato!

    Così parlò il servo Jernej. Poi sputò sulla soglia e se ne andò.

    II

    Prese direttamente per il sentiero tra i campi, lungo il ruscello le cui acque si vedevano appena tra le ghiaie chiare del greto.

    Era una giornata di maggio, quieta ed afosa. Dalla parte del monte, che già verdeggiava, incombeva il temporale. Nei prati e nei campi tutto era silenzio, come se la terra, temendo ravvicinarsi di qualche sciagura, non osasse fiatare.

    Quando Jernej scorse in lontananza, dove finiva il pendio, la bianca fattoria con le sue finestre verdi, e la stalla e l’aia e il granaio, gli si strinse il cuore. Non c’era, lì, un solo palmo di terra che non portasse i segni della fatica delle sue braccia e del sudore della sua fronte. L’uomo vive in una casa per un anno, per dieci anni, per quarant’anni ed ecco: la casa gli somiglia come il fratello al fratello e fra l’uomo e la casa si stabilisce un rapporto d’amore. E quando — obbedendo a un imperativo crudele — parte per lontani paesi, egli rimpiange la casa più del fratello e piange di nostalgia più di quanto non abbia mai pianto per la propria madre.

    A Jernej parve che le finestre verdi lo salutassero con

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