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Diario di un curato di campagna
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E-book349 pagine5 ore

Diario di un curato di campagna

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Info su questo ebook

"Diario di un curato di campagna" è, fra le opere di B., forse la più celebre, e quella nella quale l'autore ha raggiunto il miglior equilibrio fra immediatezza comunicativa e equilibrio formale.
« L'uomo che ha accettato una volta per sempre la terribile presenza del divino nella sua povera vita », cosi Bernanos definisce il protagonista del suo Diario di un curato di campagna. Il giovane prete di Ambricourt, questa disarmata figura di prete cattolico che si consuma fino al limite della tentazione nell'impari lotta con il male impersonato dalla tragica opacità del mondo borghese di uno sperduto villaggio della Fiandra. Egli non deve salvare soltanto se stesso ma anche le anime dei suoi parrocchiani che gli sono ostili, o lo accettano passivamente trascinandolo nelle loro ipocrisie. Giunge fin quasi al punto di abiurare, ma proprio sull'orlo della perdizione la coscienza della morte vicina lo salva. « Un corpo a corpo fra il soprannaturale e il mondo; ma il mondo non è mai stato sentito da Bernanos con una comprensione più potente e più tenera », cosi scrisse André Rousseaux del Diario di un curato di campagna, un romanzo che ha in sé fin dalle prime pagine una carica drammatica che si va facendo via via sempre più febbrile e compressa ed esplode poi, ad un tratto, in tutta la sua pienezza dinnanzi all'illuminazione.
LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2019
ISBN9788833260785
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    Diario di un curato di campagna - Georges Bernanos

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    Georges Bernanos

    Diario di un curato di campagna

    Maree

    KKIEN Publishing International

    info@kkienpublishing.it

    www.kkienpublishing.it

    Ed. orig.: Journal d’un curé de campagne, 1936

    Traduzione di Alessia Roquette

    Prima edizione digitale: 2019

    ISBN 9788833260785

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    Diario di un curato di campagna

    La mia parrocchia è una parrocchia come tutte le altre. Si rassomigliano tutte. Le parrocchie d’oggi, naturalmente.

    Lo dicevo ieri al curato di Norenfontes: Il bene e il male debbono equilibrarsi; senonché, il centro di gravità è collocato in basso, molto in basso. O, se lo preferite, si sovrappongono l’uno all’altro senza mescolarsi, come due liquidi di diversa densità.

    Il curato m’ha riso in faccia. È un buon prete, affabilissimo, molto paterno, che all’arcivescovado passa addirittura per un ingegno forte, un po’ pericoloso.

    I suoi motti di spirito formano la gioia dei presbitèri, ed egli li sottolinea con uno sguardo che vorrebbe essere vivacissimo e che in fondo io trovo così frusto, così stanco da mettermi voglia di piangere.

    La mia parrocchia è divorata dalla noia, ecco la parola. Come tante altre parrocchie! La noia le divora sotto i nostri occhi e noi non possiamo farci nulla. Qualche giorno forse saremo vinti dal contagio, scopriremo in noi un simile cancro. Si può vivere molto a lungo con questo in corpo.

    L’idea m’è venuta ieri, sulla strada. Cadeva una di quelle piogge sottili che si inghiottono a pieni polmoni e che vi scendono sino al ventre. Il villaggio m’è apparso bruscamente dalla parte di Saint-Vaast, così ammucchiato, tanto miserabile sotto l’odioso cielo di novembre. L’acqua gli fumava sopra da tutte le parti. Sembrava essersi coricato là, nell’erba ruscellante, come una povera bestia stracca.

    Com’è piccolo, un villaggio! E quel villaggio era la mia parrocchia. Era la mia parrocchia, ma io non potevo far nulla per essa; la guardavo affondare tristemente nella notte, scomparire ... Ancora qualche momento, poi non l’avrei più vista.

    Non avevo mai sentito tanto crudelmente la sua solitudine e la mia. Pensavo a quel bestiame che sentivo tossire nella nebbia e che il piccolo vaccaro, tornando dalla scuola con la sua cartella sotto il braccio, tra poco avrebbe menato, attraverso le pasture imbevute d’acqua, verso la stalla calda, odorante ... E lui, il villaggio, sembrava aspettare anch’esso - senza grande speranza dopo tante notti passate nel fango, un padrone da seguire verso qualche improbabile, qualche inimmaginabile asilo. Oh! So bene che queste sono idee pazze, che non posso nemmeno prenderle del tutto sul serio, sogni ... I villaggi non si levan su, alla voce d’uno scolaretto, come le bestie. Che importa? Ieri sera, credo che un santo l’avesse chiamato.

    Mi dicevo dunque che il mondo è divorato dalla noia.

    Naturalmente, bisogna riflettervi un po’ sopra, per rendersene conto; la cosa non si sente subito. È una specie di polvere. Andate e venite senza vederla, la respirate, la mangiate, la bevete: è così sottile, così tenue che sotto i denti non scricchiola nemmeno.

    Ma basta che vi fermiate un secondo, ecco che vi copre il viso, le mani. Dovete agitarvi continuamente, per scuotere questa pioggia di ceneri. Perciò, il mondo s’agita molto.

    Si dirà forse che il mondo con la noia ha familiarità da molto tempo, che la noia è la vera condizione dell’uomo. È possibile che il suo seme sia stato sparso dappertutto e che essa sia germinata qua e là, sul terreno favorevole.

    Ma quel che io mi chiedo è se gli uomini hanno mai conosciuto questo contagio della noia, questa lebbra: una disperazione abortita, una forma turpe della disperazione, che è senza dubbio come la fermentazione d’un cristianesimo decomposto. Evidentemente, questi son pensieri che serbo per me stesso.

    Tuttavia non me ne vergogno.

    Credo persino che mi farei capire benissimo, troppo bene, forse, per la mia quiete: voglio dire, per la quiete della mia coscienza.

    L’ottimismo dei superiori è davvero morto.

    Coloro che lo professano ancora, l’insegnano per abitudine, senza credervi. Alla minima obiezione vi prodigan sorrisi d’intesa, chiedono grazia.

    I vecchi preti non s’ingannano, in proposito.

    A dispetto delle apparenze e se si resta fedeli a un certo vocabolario, immutabile d’altronde, i temi dell’eloquenza ufficiale non sono più gli stessi: i nostri vecchi non li riconoscono più.

    Un tempo, per esempio, una tradizione secolare voleva che un discorso episcopale non terminasse mai senza una prudente allusione - convinta, certo, ma prudente - alla prossima persecuzione e al sangue dei martiri.

    Oggi queste predizioni si fanno molto più rare.

    Probabilmente perché la realizzazione ne appare meno incerta.

    Ahimé! C’è una frase che comincia a correre per i presbitèri, una di quelle frasi spaventose, definite da fante, che non so come né perché ai nostri anziani son parse assai lepide, ma che i ragazzi della mia età trovano brutte, tristissime. (è stupefacente, d’altronde, quante idee sordide il gergo delle trincee è riuscito a esprimere in immagini lugubri; ma era veramente il gergo delle trincee?) Si ripete dunque volentieri che non bisogna cercar di capire.

    Mio Dio! Eppure noi siamo qui proprio per questo! Mi rendo conto che vi sono i superiori.

    Senonché, chi li informa, i superiori? Noi.

    E allora quando ci vantano l’ubbidienza e la semplicità dei monaci, l’argomento non mi commuove molto ... Siamo capaci tutti di pelare patate o di curare i porci, purché un maestro dei novizi ce ne dia l’ordine.

    Ma in parrocchia non è così facile come in una semplice comunità, offrire atti di virtù! Tanto più che essi li ignorerebbero sempre; e d’altra parte non vi capirebbero nulla.

    L’arciprete di Bailloeil, dopo che è andato a riposo, frequenta assiduamente i padri Certosini di Verchocq. Quel che ho visto a Verchocq è il titolo d’una sua conferenza alla quale il signor decano ci ha quasi fatto obbligo d’assistere.

    In essa abbiamo sentito cose interessantissime, persino appassionanti, quanto al tono, poiché quell’incantevole vecchio ha conservato le piccole innocenti manie dell’antico professore di lettere, e cura la propria dizione come le proprie mani.

    Si direbbe che spera e teme nello stesso tempo l’improbabile presenza, tra i suoi ascoltatori in sottana, di Anatole France, e che gli domandi grazia per il buon Dio, in nome dell’umanesimo, con sguardi sottili, sorrisi di complicità e contorcimenti del dito mignolo.

    Sembra insomma che quella specie di civetteria ecclesiastica nel 1900 fosse di moda.

    Noi abbiamo cercato di far buona accoglienza a delle frasi taglienti, che non tagliavano un bel nulla.

    (Probabilmente, ho una natura troppo grossolana, troppo frusta; ma confesso che il prete letterato m’ha sempre fatto orrore. Frequentare i begli spiriti, insomma, è come pranzare in città, ma non si va a pranzo in città in barba a quelli che muoiono di fame.)

    Breve: il signor arciprete ci ha raccontato molti aneddoti che, secondo l’uso, egli definisce tratti. Credo d’aver compreso. Per disgrazia, non mi sentivo commosso quanto avrei desiderato.

    I monaci sono incomparabili maestri di vita interiore, nessuno ne dubita, ma per la maggior parte succede di quei tratti come per i vini locali: bisogna berli sul posto.

    Non sopportano il viaggio.

    Fors’anche ... debbo dirlo? Fors’anche quel piccolo numero d’uomini riuniti, viventi fianco a fianco giorno e notte, creano l’atmosfera favorevole, a propria insaputa ... I monasteri li conosco un po’ anch’io.

    Ho visto dei religiosi subire umilmente, faccia a terra e senza vacillare, la rampogna ingiusta d’un superiore impegnato a spezzare il loro orgoglio.

    Ma in quelle case, che non son turbate da nessun’eco esterna, il silenzio raggiunge una qualità, una perfezione veramente straordinarie: il più piccolo fremito vi è percepito da orecchi d’una sensibilità divenuta squisita ... E vi sono silenzi da sala di capitolo che valgono un applauso.

    (Invece, un’ammonizione episcopale ... )

    Rileggo senza piacere queste prime pagine del mio diario.

    Certo, ho molto riflettuto, prima di decidermi a scriverlo; ma ciò non mi rassicura un gran che. Per chiunque abbia l’abitudine della preghiera, la riflessione troppo spesso non è che un alibi, un modo sornione di confermare se stessi in un proposito.

    Il ragionamento lascia agevolmente in ombra quello che ci auguriamo di tenervi nascosto.

    L’uomo di mondo che riflette, calcola le sue probabilità, sta bene! Ma per noialtri, che abbiamo accettato una volta per tutte la spaventevole presenza del divino in ogni istante della nostra povera vita, che peso possono avere le probabilità? Un prete, a meno di non perdere la fede - e cosa gli resta allora, giacché non può perderla senza rinnegarsi? - non potrà mai avere dei propri interessi la chiara visione, così diretta - si vorrebbe dire così ingenua, così semplice - dei figli del secolo.

    Calcolare le nostre probabilità, a che serve? Contro Dio non si gioca.

    Ricevuto la risposta di mia zia Filomena, con due biglietti da cento franchi. Esattamente il necessario per quanto più mi urge.

    Il danaro scivola tra le mie dita come sabbia; è spaventoso.

    Debbo confessare che sono molto sciocco! Ecco, per esempio: il droghiere di Heuchin, signor Pamyre, che è un brav’uomo (due suoi figli sono preti), m’ha accolto subito con molta amicizia.

    D’altronde è il fornitore titolare dei miei confratelli.

    Non mancava mai d’offrirmi, nel suo retrobottega, vino chinato e biscotti. Chiacchieravamo a lungo.

    I tempi sono duri, per lui: una delle sue figlie non ha ancora dote e i suoi due altri ragazzi, allevati alla facoltà cattolica, costano cari.

    In breve, prendendo la mia ordinazione, un giorno m’ha detto gentilmente: Aggiungo tre bottiglie di vin chinato, vi darà un po’ di calore. Stupidamente, ho creduto che me le offrisse. Un poveretto, che passa a dodici anni da una casa miserabile al seminario, non conoscerà mai il valore del danaro. Credo persino che negli affari ci sia difficile rimanere rigidamente onesti. È assai meglio non rischiar di giocare, anche innocentemente, con quello che la maggior parte dei laici considera non un mezzo, ma uno scopo.

    Il mio confratello di Verchin, che non è sempre tra i più discreti, ha creduto di dover alludere, col signor Pamyre, sotto forma di scherzo, a questo piccolo malinteso.

    Il signor Pamyre ne era sinceramente addolorato: Il signor curato ha detto "venga tutte le volte che gli garba: brinderemo sempre insieme con piacere.

    Ce ne vuole, per arrivare a una bottiglia, grazie a Dio! Ma gli affari sono gli affari, non posso dar per nulla la mia mercanzia".

    E la signora Pamyre avrebbe aggiunto, sembra: Noialtri commercianti, abbiamo anche noi i nostri doveri di stato.

    Ho deciso stamane di non prolungare l’esperienza oltre i dodici mesi che verranno. Al prossimo 25 novembre butterò nel fuoco questi fogli e cercherò di dimenticarli.

    Questa risoluzione, che ho preso dopo la Messa, non mi ha rassicurato che per un momento.

    Non si tratta d’uno scrupolo, nell’esatto senso della parola.

    Non credo di far niente di male annotando qui, giorno per giorno, con assoluta franchezza, gli umilissimi, gli insignificanti segreti d’una vita d’altra parte senza mistero. Quello che fisserò sulla carta non insegnerebbe un gran che al solo amico col quale mi capita ancora di parlare a cuore aperto; e quanto al resto, sento bene che non oserei mai scrivere ciò che quasi ogni mattina confido al buon Dio senza vergogna.

    No, questo non somiglia allo scrupolo, ma è piuttosto una specie d’irragionevole timore, simile a un avvertimento dell’istinto.

    Allorché mi son seduto per la prima volta davanti a questo quaderno da scolaro, ho cercato di fermare la mia attenzione, di raccogliermi come per un esame di coscienza.

    Ma quanto ho visto, con quello sguardo interiore, di solito così calmo, così penetrante, che trascura il particolare e va subito all’essenziale, non è la mia coscienza.

    Esso sembrava scivolare sulla superficie d’un’altra coscienza, sin’allora per me sconosciuta: uno specchio torbido dove all’improvviso ho creduto di veder sorgere un viso. Quale viso? Forse il mio? ... Un viso ritrovato, dimenticato.

    Di sé, bisognerebbe parlare con rigore inflessibile. Ma, al primo sforzo per afferrarsi, da dove vengono questa pietà, questa tenerezza, questo rilassamento di tutte le fibre dell’anima; e questa voglia di piangere?

    Ieri sono stato a far visita al curato di Torcy. È un buon prete, puntualissimo, che di solito mi sembra un po’ terra terra: un figlio di ricchi contadini che conosce il valore del danaro e m’impressiona molto con la sua esperienza mondana.

    I confratelli parlan di lui per il decanato di Heuchin ... I suoi modi con me sono molto illusori, perché le confidenze gli ripugnano e sa scoraggiarle con un grosso riso bonario, assai più fine, d’altronde, di quanto non sembri.

    Mio Dio, come mi augurerei d’avere la sua salute, il suo coraggio, il suo equilibrio! Credo però che abbia dell’indulgenza per quella che volentieri chiama la mia esagerata sensibilità; giacché sa che non ne traggo della vanità, ah no! Da molto tempo non cerco nemmeno più di confondere con la vera pietà dei santi - forte e dolce - l’infantile paura che provo per le sofferenze altrui.

    Poco bella la vostra cera, ragazzo mio!

    Devo dire ch’ero ancora sottosopra per la scena che qualche ora prima m’aveva fatto il vecchio Dumonchel in sacrestia.

    Dio sa se non vorrei dar per nulla, col mio tempo e la mia fatica, i tappeti di cotone, i drappi rosicchiati dalle tarme, e i ceri di sego, pagati carissimi al fornitore di Sua Eccellenza, ma che appena accesi si struggono con un rumore di padella che frigge.

    Senonché, le tariffe sono le tariffe, che ne posso io? Dovevate mettere quel bonomo alla porta m’ha detto. E, poiché io protestavo: Cacciarlo fuori, proprio così! D’altra parte, io lo conosco il vostro Dumonchel: è un vecchio che ha dei mezzi ... La sua defunta moglie era due volte più ricca di lui. È giusto che la seppellisca decentemente! Voi, giovani preti... È   diventato rosso rosso e m’ha guardato dall’alto in basso:

    "Mi domando che cosa avete nelle vene, oggi, voialtri giovani preti! Al mio tempo, si formavano degli uomini di chiesa - non aggrottate le sopracciglia, mi fate venir voglia di scappellottarvi - sì, degli uomini di chiesa, prendete la parola come volete, dei capi di parrocchia, dei padroni, insomma, uomini di governo. Tenevano un paese, quelli là, solo alzando il mento.

    Oh! Lo so quello che state per dirmi: mangiavano bene, bevevano allo stesso modo, e non sputavano sulle carte.

    D’accordo! Quando si affronta in modo conveniente il proprio lavoro, e lo si fa presto e bene, vi restano degli ozi; ed è meglio per tutti quanti.

    Adesso, i seminari ci mandano dei chierichetti, dei piccoli vagabondi che si immaginano di lavorare più di tutti perché non vengono a capo di nulla.

    Invece di comandare, piagnucolano.

    Leggono mucchi di libri e non son mai stati capaci di capire - di capire, intendetemi! - la parabola dello Sposo e della Sposa.

    Che cos’è una vera sposa, ragazzo mio, una vera donna, quale un uomo può augurarsi di trovarne una se è abbastanza stupido da non seguire il consiglio di San Paolo? Non rispondete, direste delle bestialità!

    Ebbene, è una robustona, dura alla fatica, ma che tiene per le cose e sa che tutto sarà sempre da ricominciare, sino alla fine.

    La Santa Chiesa avrà un bel darsi da fare: non cambierà questo mondo in altarino del Corpus Domini.

    Avevo una volta - vi parlo della mia vecchia parrocchia - una sacrestana stupefacente, una buona suora di Bruges secolarizzata nel 1908, un cuore coraggioso. Gli otto primi giorni, strofina tu che strofino anch’io, la casa del buon Dio si era messa a luccicare come un parlatorio di convento; non la riconoscevo più, parola d’onore! Eravamo all’epoca del raccolto, devo dire; non veniva un gatto e quella satanica vecchietta esigeva che mi levassi le scarpe: io, che ho orrore delle pantofole! Credo persino che quelle le avesse pagate di tasca sua. Ogni mattina, beninteso, trovava un nuovo strato di polvere sui banchi, uno o due funghi del tutto freschi sul tappeto del coro, e delle tele di ragno ... ah, piccino mio!, delle tele di ragno da farci un corredo da sposa.

    Mi dicevo: continua a strofinare, figlia mia, domenica vedrai. E la domenica è venuta. Oh! Una domenica come le altre, una festa senza scampanii, con la solita clientela. Inezie! Insomma, a mezzanotte ella dava la cera e strofinava ancora, a lume di candela. Qualche settimana dopo, per Ognissanti, venne una missione da fracassar tutto, predicata da due Padri redentoristi, due valentuomini.

    La disgraziata passava le notti a quattro zampe, tra il suo secchio e la catinella – annaffia tu che annaffio io, - tanto che la muffa cominciava ad arrampicarsi su per le colonne e l’erba spuntava tra le giunture delle lastre. Non c’era mezzo di farle intender ragione, a quella buona suora! A darle retta, avrei messo alla porta tutti quanti perché il buon Dio avesse i piedi all’asciutto, capite? Le dicevo: Mi rovinerete in medicine! poiché tossiva, povera vecchia! Ha finito per mettersi a letto con una crisi di reumatismo articolare, il cuore non ha resistito e pluf! ecco la mia buona suora davanti a San Pietro. In un certo senso, è una martire, non si può sostenere il contrario. Il suo torto, certo, non è stato di voler combattere la sporcizia, ma d’averla voluta annientare, come se fosse possibile.

    Una parrocchia è forzatamente sporca. Una cristianità è ancora più sporca.

    Aspettate il grande giorno del Giudizio, e vedrete quel che gli angeli dovranno tirar via dai monasteri più santi, a palate - che vendemmia! - E allora, piccolo mio, questo prova che la Chiesa dev’essere una buona massaia, solida e ragionevole.

    La mia brava suora non era una vera donna di casa: una vera donna di casa sa che una casa non è un reliquiario. Sono idee da poeta, tutte queste. Lo aspettavo a questo punto. Mentre ricaricava la pipa, ho cercato maldestramente di fargli comprendere che l’esempio forse non era scelto benissimo, che quella religiosa morta di fatica non aveva niente di comune coi chierichetti e i vagabondi che piagnucolano invece di comandare. Disingànnati m’ha detto, senza dolcezza. L’illusione è la stessa.

    Solo, i vagabondi non hanno la perseveranza della mia buona suora, ecco tutto.

    Al primo assaggio, col pretesto che l’esperienza del ministero smentisce il loro piccolo comprendonio, abbandonano tutto.

    Son dei musi sporchi di marmellata.

    Ma una cristianità non si nutre di marmellata, più di quanto se ne nutra un uomo.

    Il buon Dio non ha scritto che noi fossimo il miele della terra, ragazzo mio, ma il sale. Ora, il nostro povero mondo rassomiglia al vecchio padre Giobbe, pieno di piaghe e di ulcere, sul suo letame.

    Il sale, su una pelle a vivo, è una cosa che brucia. Ma le impedisce anche di marcire.

    Con l’idea di sterminare il diavolo, l’altra vostra manìa è di essere amati, amati per voi stessi, s’intende.

    Un vero prete non è mai amato, ricòrdatelo.

    E vuoi che te lo dica? La Chiesa se ne infischia che voi siate amati, ragazzo mio. Anzitutto, siate rispettati, ubbiditi.

    La Chiesa ha bisogno di ordine.

    Fate dell’ordine per tutta la durata del giorno.

    Fate dell’ordine pensando che il disordine il giorno dopo la vincerà di nuovo, perché è proprio nell’ordine, ahimé, che la notte butti all’aria il vostro lavoro del giorno.

    La notte appartiene al diavolo. Di notte ho detto io (sapevo di farlo andare in collera) son d’uffizio i monaci regolari? ..."

    Sì, m’ha risposto freddamente ci fan della musica. Ho cercato di sembrar scandalizzato.

    I vostri contemplativi! ... Non ho nulla contro di loro. Ognuno ha il suo lavoro. Musica a parte, sono anche dei fiorai.

    Dei fiorai?

    "Precisamente.

    Quando si è rifatta la casa, sciacquato i piatti, pelato le patate e messo la tovaglia sulla tavola, si ficcan dei fiori bianchi nel vaso, è cosa regolare.

    Osserva che la mia piccola similitudine non può scandalizzare che gli imbecilli, poiché, beninteso, c’è una sfumatura ... Il giglio mistico non è il giglio dei campi.

    D’altra parte, l’uomo preferisce un filetto di bue a un fascio di pervinche perché lui stesso è un bruto, un ventre.

    Insomma, i tuoi contemplativi sono attrezzatissimi per fornirci dei bei fiori, dei fiori veri. Disgraziatamente, nei chiostri come altrove, spesso c’è sabotaggio: e troppo di frequente ci rifilano fiori di carta." M’osservava di traverso senz’averne l’aria. In simili momenti mi sembra di vedere in fondo al suo sguardo molta tenerezza e - come potrei dire? - una specie d’inquietudine, d’ansietà.

    Io ho le mie prove, lui ha le sue. A me costa molto, tacerle.

    E se non ne parlo è meno per eroismo, ahimé, che per quel pudore che i medici, mi si dice, conoscono anche loro, a loro modo e secondo l’ordine di preoccupazioni loro proprio. Lui invece tacerà sempre le sue, qualunque cosa succeda, e, sotto la sua burbera schiettezza, resterà più impenetrabile di quei Certosini che ho incrociato nei corridoi di Z..., bianchi come ceri.

    Bruscamente, m’ha preso la mano nella sua, una mano gonfiata dal diabete, ma che stringe subito senza tastare, dura, imperiosa.

    "Mi dirai forse che non capisco niente dei mistici. Sì, me lo dirai, non far la bestia! Ebbene, al mio tempo, c’era al seminario superiore un professore di diritto canonico che si credeva poeta. Ti fabbricava macchine stupefacenti, con tutti i piedi, le rime, le cesure e tutto l’occorrente. Pover’uomo! Avrebbe messo in versi il suo diritto canonico. Gli mancava una sola cosa, chiamala come vuoi, l’ispirazione, il genio - ingenium che ne so io? Io, non ho genio.

    Se supponessi che un giorno lo Spirito Santo mi facesse un cenno, pianterei lì la mia scopa e i miei strofinacci pensa un po’! - e me ne andrei a fare un giretto tra i serafini per impararvi la musica, a rischio di stonare un pochino, al principio.

    Ma mi permetterai di sbellicarmi dalle risa in faccia alla gente che canta in coro prima che il buon Dio abbia alzato la bacchetta!"

    Ha riflettuto un momento e il suo viso, che pure era voltato verso la finestra, mi è parso all’improvviso nell’ombra.

    I suoi tratti s’erano persino induriti come se egli attendesse da me - e da se stesso, forse, dalla sua coscienza un’obiezione, una smentita, non so che cosa ... Però si è quasi subito rasserenato. Che vuoi, piccolo mio, ho le mie idee sull’arpa del giovane David. Era un giovane di talento, certo, ma tutta la sua musica non l’ha preservato dal peccato o che i poveri scrittori benpensanti i quali fabbricano Vite di Santi" per l’esportazione, immaginano che nell’estasi un bonomo sia al riparo, che ci si trovi al caldo e al sicuro come nel seno di Abramo.

    Al sicuro! ... Oh! Naturalmente, non c’è nulla di più facile che arrampicarsi lassù: vi ci porta Dio.

    Si tratta solo di mantenercisi e, all’occorrenza, di saperne discendere. Osserverai che i santi, quelli veri, si mostrano molto imbarazzati, al ritorno.

    Appena venivano sorpresi nei loro lavori d’equilibrio, cominciavano col supplicare che si conservasse loro il segreto: Non parlate con nessuno di quel che avete visto ....

    Avevano un po’ vergogna, capisci? Vergogna d’essere i beniamini del Padre, di aver bevuto alla coppa della beatitudine prima di tutti quanti! E perché? Per niente. Per favore.

    Questa sorta di grazie! ... Il primo moto dell’anima è quello di fuggirle.

    Si può intenderla in parecchi modi, credimi, la parola del Libro: è terribile cadere nelle mani del Dio vivente!.

    Ma che dico? Tra le sue braccia, sul suo cuore, il cuore di Gesù! Tu hai la tua piccola parte nel concerto, suoni il triangolo o il cimbalo, poniamo, ed ecco che ti pregano di salire sul palco, ti dànno uno Stradivario e ti dicono: Avanti, ragazzo mio, vi ascolto.

    Brr! ... Vieni a vedere il mio oratorio, ma prima pulisciti i piedi, per via del tappeto." Io non m’intendo molto di mobilia, ma la sua camera m’è parsa magnifica: un massiccio letto di mogano, un armadio a tre porte molto scolpito, poltrone coperte di velluto e sul caminetto un’enorme Giovanna d’Arco in bronzo.

    Ma il curato di Torcy non desiderava mostrarmi la sua camera.

    M’ha condotto in un’altra nudissima, ammobiliata soltanto con una tavola e un inginocchiatoio. Al muro una bruttissima litografia, simile a quelle che si vedono nelle sale d’ospedale e che rappresenta un Gesù Bambino, ben paffuto e molto roseo, tra l’asino e il bue. Vedi quel quadro? m’ha detto. "è un regalo della mia madrina.

    Avrei certo il mezzo di pagarmi qualcosa di meglio, di più artistico, ma preferisco ancora quello lì. Lo trovo volgare e persino un po’ stupido, e ciò mi rassicura.

    Noi, piccolo mio, siamo delle Fiandre, un paese di grandi bevitori, di grandi mangiatori; e ricchi ... Non vi rendete conto, voi, poveri brunotti del Boulonnais, nelle vostre bicocche di paglia e d’argilla, della ricchezza delle Fiandre, delle terre nere! Non bisogna chiederci troppe di quelle parole che capovolgono le pie dame, ma quanto a mistici ne mettiamo in linea lo stesso mica male, ragazzo mio! E non già dei mistici malati di petto. La vita non ci fa paura: un buon sangue rosso e greve, molto spesso, che batte alle nostre tempie quando si è pieni di ginepro sino al bordo o quando la collera ci monta al naso, una collera fiamminga da metter giù stecchito un bue: un sangue rosso e greve con una

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